Quattro chiacchiere con...Giuseppe Mirabella dicembre 2013
A cura di Alceste Ayroldi
Naumachia, ovvero la battaglia navale:
perché sei partito da questo concetto?
In realtà via Naumachia è una strada nel centro storico di Catania che assurge a
metafora di un momento della mia vita particolarmente travagliato: uno di quei periodi
di forte cambiamento interiore a seguito dei quali si riesce a definire chiaramente
un prima e un poi nel proprio modo di essere. Il disco, essendo stato registrato
subito dopo, ne ha assorbito tutta l'emotività. Non sono andato in studio con un'idea
precisa in testa, avevo alcune composizioni e sentivo un forte bisogno di registrare,
per il resto tutto ha preso forma da se. Ne è scaturita una rappresentazione di
ciò che avevo dentro caratterizzata da un'astrazione che superava ogni mia possibile
descrizione verbale e ne sono stato molto contento.
E' il tuo terzo progetto da leader.
Ora, visti i tempi (di particolare "fermento" discografico), sembra che tu centellini
le tue uscite discografiche: è una scelta voluta oppure dettata da eventi estranei
alla tua volontà?
Entrambe le cose. Da un canto la mia attività discografica, sia come leader che
come sideman, inizia da tempi relativamente recenti, prima dei quali sentivo il
bisogno di fare molte esperienze musicali ma non quello di registrare. Dall'altro
credo molto nella spontaneità come essenza dell'atto creativo: mi piace andare in
studio solo quando sento una forte esigenza di farlo. Non so spiegarlo bene a parole,
è come se lasciassi che in me si formasse una certa quantità di energia fino al
momento in cui essa chiede di venir fuori. Non amo creare un progetto musicale a
tavolino: che sia una singola composizione o un intero disco deve scattare in me
quel "qualcosa" di spontaneo e ciò avviene con i suoi tempi.
Giuseppe, che significato ha fare un
disco in un momento di crisi generale e, in particolare, del mercato discografico?
Per la maggior parte dei musicisti che non hanno una grande popolarità, e io sono
tra questi, non è semplice fare un disco in questo momento storico: è un impegno
economico non da poco, a fronte di pochi concerti e di vendite discografiche esigue.
Ma un disco si fa per urgenza creativa, si fa principalmente per se stessi e non
si può rimandare. Nel caso di Naumachìa ho spedito il master a Mario Caccia della
Abeat il quale ha accettato con entusiasmo di pubblicare il disco proponendomi di
iniziare un percorso discografico. Sapere di avere il sostegno di un'ottima etichetta
è indubbiamente molto importante: aiuta e stimola parecchio nella prospettiva di
lavori futuri. Per quando riguarda la crisi in generale mi viene da pensare a quante
opere d'arte o scoperte siano state concepite in tempi tristi, di povertà o addirittura
di guerra. Probabilmente è proprio il volere reagire al disagio di tempi bui a stimolare
la creatività umana; o quantomeno questo è ciò che mi piace pensare…
Digressioni "socio-economiche" a parte,
come hai formato il gruppo e come hai effettuato le scelte dei tuoi compagni di
viaggio?
Avendo una amicizia intima con
Dino Rubino
ed essendo in un momento particolarmente introspettivo, è stato naturale coinvolgerlo,
guadagnando così, oltre che la sua straordinaria sensibilità musicale, quel valore
aggiunto che potevo avere da una persona con cui ho condiviso intimamente i presupposti
che stanno dietro alla musica di questo lavoro. Ricordo ancora il momento in cui
parlai a Dino dell'idea di registrare e insieme abbiamo individuato in Stefano e
Riccardo i compagni ideali, scelti principalmente per il loro eclettismo ma anche
per ragioni di affiatamento, cosa quest'ultima che per registrare questo particolare
progetto ritenevo imprescindibile.
In questo album sei vicino al mainstream,
fatta eccezione per Standalone, composta con Salvatore Pennisi, che ha delle dimensioni
differenti, anche nella struttura parecchio aperta. Qual è la tua natura musicale?
La mia natura musicale cambia continuamente. Penso di poter affermare che attualmente
convivono in me differenti esigenze espressive, pertanto utilizzo diversi approcci
tanto per comporre quanto per improvvisare. Delle volte è il messaggio da cui parto
ad avere la centralità e cerco, di volta in volta, il modo a me più congeniale per
esprimerlo subordinando ad esso tutto il resto (forme, strutture, sonorità, organico,
linguaggio, influenze stilistiche…). Delle altre mi metto in condizioni opposte:
faccio in modo che l'intuizione nasca dalla mia interazione spontanea ed estemporanea
con determinati input o scenari. Brani dalla struttura standard, composizioni aperte,
improvvisazione libera, ma anche jam session, costituiscono tutte possibili risorse
e occasioni per liberare la creatività.
Altra bella eccezione è la traccia eponima,
dai finimenti contemporanei e, soprattutto, ciò che colpisce è il contrasto tra
il titolo e il suono che sprigiona. A cosa ti sei ispirato?
Per registrare questa traccia ho chiesto a
Dino Rubino
di imbracciare la tromba e suonare insieme tentando rappresentare in qualche modo
una certa sensazione di smarrimento, di vuoto, a tratti di angoscia… Uno stato d'animo
che sia io che lui conoscevamo bene e di cui, da intimi amici, avevamo spesso parlato.
Nessuna partitura, nessun accordo o vincolo strutturale, solo ascoltarsi reciprocamente
e dialogare con gli strumenti.
Sembra che ti sia congeniale il quartetto,
almeno nei tuoi lavori da leader. E' questa la formazione che preferisci?
Il quartetto con il piano (amo il pianoforte) è la formazione che ho avuto da subito
in mente per Naumachía. In generale trovo che quando si è sulla stessa lunghezza
d'onda sia particolarmente stimolante suonare con un pianista, altrimenti è davvero
difficile. Suono spesso anche in trio con l'organo: formazione con cui ho registrato
il mio primo disco "Moods". Da un po' di tempo penso ad organici diversi
dal quartetto: dal duo a formazioni abbastanza ampie di sette o più elementi.
Chi è il tuo musicista di riferimento e, se diverso, chi
è il tuo chitarrista di riferimento?
Negli anni della formazione, ho avuto diversi riferimenti. Quando mi colpiva un
artista, per un periodo mi concentravo sulla sua musica acquistando più cd che potevo
(allora i cd si acquistavano e andare in un negozio di dischi a scegliere con cura
il disco da ascoltare era un rito!). In generale ascoltavo i giganti: ho avuto il
mio periodo Miles, quello
Bill Evans
ma anche quello Bach. Riguardo i chitarristi, da quelli rock e blues a quelli jazz,
hanno costituito per me un riferimento più per quanto concerne lo studio dello strumento
che per la concezione musicale, eccezione fatta per Jim Hall.
Attualmente accade che ad ispirarmi non siano solo musicisti ma artisti in generale
o anche persone che, pur non essendo artisti, hanno fatto della loro vita qualcosa
di molto simile ad un'opera d'arte: sono sempre più spesso interessato e quindi
influenzato dall'atteggiamento e dal processo che porta a un determinato risultato
artistico oltre che dall'opera in sé.
Giuseppe, cosa ti aspetti da questo
disco e quali sono i tuoi programmi futuri?
Ho imparato a non riporre eccessive aspettative su un disco, piuttosto preferisco
vivere intensamente l'intero processo creativo che ne precede la pubblicazione.
La vera avventura, a mio modo di vedere, sta nel "durante", non nel "dopo". L'intero
processo di creazione, dalla fase delle idee iniziali a quella dell'esigenza di
registrare, dalla scelta dei compagni di viaggio ai giorni passati in studio, è
un'esperienza esaltante e quando arrivi ad un prodotto che ti rappresenta, poco
importa il dopo. Appena dopo l'uscita di "Naumachía" sono stato coinvolto
da Dino Rubino
nella registrazione del suo nuovo disco "Kairos" che uscirà per la Tuk Records
di Paolo Fresu.
È un lavoro quest'ultimo caratterizzato da un organico particolare: piano, contrabbasso,
batteria, chitarra, due corni francesi, un trombone e un clarinetto basso. Ad esso
partecipo in veste di arrangiatore insieme a Dino oltre che quella di chitarrista.
Partire da composizioni al pianoforte e pensarle per un organico come quello descritto
è stato un processo molto simile alla composizione stessa che mi ha coinvolto talmente
tanto da considerare il disco in parte anche mio. Per il futuro immediato ho in
mente di continuare il sodalizio artistico con Salvatore Pennisi e lavorare
ad un nuovo disco con sperimentazione elettronica e ampio organico, sulla strada
già delineata dal nostro precedente lavoro "Braintrain".
Il tuo background culturale è duplice:
conservatorio, ma anche una laurea in ingegneria informatica. Pensi che la tua musica
o la tua tecnica abbia subito influenze dal tuo percorso di studi informatici?
Certamente! Penso che essere musicista non coincida con il conoscere con più o meno
perizia uno strumento o la materia musicale. Sono convinto che inevitabilmente nella
musica confluisca tutto ciò che una persona abbia in sé: dal modo di essere al background
culturale a quello delle esperienze vissute... Da un punto di vista prettamente
tecnico, essendo essenzialmente un autodidatta, penso che adottare un approccio
ingegneristico mi abbia aiutato parecchio per inquadrare buona parte di ciò che
in musica può essere studiato come, ad esempio, implementare le regole armoniche
sulla tastiera di una chitarra. D'altro canto penso che sia diretta conseguenza
di quegli studi anche un certo approccio sperimentale che caratterizza alcune mie
composizioni o progetti come il disco "Braintrain". In ogni caso, non amando
certa musica "cervellotica", preferisco metabolizzare il risultato di un processo
speculativo per fare in modo che passi dalla sfera conscia del razionale a quella
inconscia e spontanea del 'sentire' e questo riguarda tanto la composizione quanto
l'improvvisazione. La laurea al conservatorio l'ho presa di recente e con essa ho
approfondito alcuni aspetti della scrittura per ampi organici e, al tempo stesso,
realizzato un piccolo desiderio che avevo sin da ragazzino!
A proposito: ma al jazz come sei arrivato?
Chi è stato colui il quale ti ha "iniziato"?
Ricordo esattamente il momento in cui rimasi letteralmente folgorato dalla musica
jazz: ero un giovane chitarrista rock e mi trovavo quasi per caso in un jazz club
di Piazza Armerina allora molto quotato, il Black Box. Stavo ad un metro da
Massimo
Urbani che, in un bagno di sudore e in un apparente stato di sofferenza,
suonava con un suono viscerale e una intensità al limite delle possibilità umane
quella musica che fino ad allora non mi aveva mai 'preso'. Ho avuto la netta impressione
di assistere al suo "urlo". Ricordo che pensai: "non capisco cosa stia suonando
e che note stia facendo ma quello che sto ascoltando é meraviglioso". Era uno degli
ultimi concerti di Massimo. Nello stesso locale qualche mese dopo ho incontrato
il noto pianista
Giovanni
Mazzarino e dopo averlo sentito suonare ho voluto conoscerlo: è stato
lui ad indirizzarmi e credere in me, infondermi una grande dose di entusiasmo contagiandomi
con la sua passione e successivamente introdurmi in quel mondo che fino ad allora
mi appariva così lontano.
Per diverso tempo hai collaborato con
Barbara Casini
per il progetto sulle musiche di Antonio Carlos Jobim. Cosa ti è rimasto, dal punto
di vista musicale, dell'avventura nella bossa nova?
Conoscevo la bossa nova anche da prima della mia collaborazione con Barbara. E'
un mondo che ho sempre sentito molto vicino a me oltre che al mio modo di concepire
la musica: composizioni eleganti, spesso melodicamente e armonicamente ricercate,
al contempo dirette e intense, cariche di pathos e sempre intrise di quella vena
di 'saudade' che un po' fa parte anche del mio modo di essere. "Greta e As I
am", due mie composizioni presenti in "Naumachìa", riflettono chiaramente
questa influenza. Quando ho ricevuto la proposta di suonare in trio con Barbara
e Nello Toscano ne sono stato entusiasta. Barbara è un'artista tanto autentica
quanto unica: basta ascoltarla cantare e accompagnarsi con la chitarra per accorgersene
inequivocabilmente e rimanere incantati. Essere al suo fianco sul palco non è stato
un semplice "suonare insieme", ma condividere una vibrazione, dare sfogo a quella
saudade e vivere qualcosa che va aldilà delle note e trascende la musica stessa.
E delle altre tue collaborazioni, quali
ritieni essere stata determinante per te?
Su tutte senza dubbio quella con
Dado Moroni.
L'ho conosciuto in Sicilia, era uno dei miei miti, possedevo i suoi dischi e conoscevo
a memoria anche alcuni dei suoi soli: quanto swing! Quando nel 2007 mi ha chiamato
a fare parte del suo gruppo "An Oscar for Peterson", un trio drumless che
omaggiava la musica del grande pianista canadese allora appena scomparso, per me
si é materializzato un sogno. É stata un'esperienza lunga quattro anni durante i
quali ho girato le più importanti rassegne jazzistiche italiane a fianco di uno
dei pianisti più conosciuti e stimati al mondo. Con lui ho imparato quello che solo
su un palco, accanto ad un musicista di quel calibro, penso si possa imparare.
Sei un importante rappresentante della
vitale scena jazzistica siciliana: come giudichi la situazione attuale? E, visto
che ci siamo, come vedi la situazione italiana?
Nonostante la crisi ed i pochi spazi per la musica, in Sicilia stiamo assistendo
a un incredibile proliferare di nuovi talenti e di proposte musicali. Non pochi
la definiscono una delle regioni più feconde della nostra penisola. Penso che le
ragioni di ciò siano da individuare anche nel proficuo e generoso scambio tra generazioni
diverse che in Sicilia mi appare più evidente che altrove. Musicisti di grande esperienza
quali Giovanni
Mazzarino, Nello Toscano,
Mimmo Cafiero,
Loredana Spata, solo per citarne alcuni, hanno da sempre favorito questo
processo di scambio creando notevoli realtà concertistiche, didattiche e opportunità
concrete per le nuove generazioni. Molto si deve anche alla presenza, nelle maggiori
città dell'isola, di alcune strutture di formazione qualificate per l'insegnamento
della musica jazz. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Per quanto concerne
la situazione italiana noto una generale tendenza alla ricerca di una spettacolarizzazione
eccessiva da parte di chi organizza i concerti. Si propongono sempre più spesso
solo eventi fortemente mediatici che rischiano di dare un taglio sempre più commerciale
(nel peggiore senso della parola) alle rassegne. In antitesi, non è infrequente
trovare grande fermento, novità progettuali di vari artisti, maggiore varietà e
ricchezza, nella proposta culturale di associazioni di appassionati o anche piccoli
locali. E se è vero che con la crisi, senza l'evento sensazionalistico, gli organizzatori
non riescono a fare cassa (o meglio business!), è altrettanto vero che il miglior
jazz, quello autentico, ha storicamente avuto luogo in locali di trenta posti, come
il Blue Note
o lo storico Capolinea, nei quali chi organizzava lo faceva per passione condividendo
con i musicisti gioie e dolori che il fare arte comportava.
Quanto è difficile oggi fare il musicista?
Con i tempi che stiamo vivendo non puoi più dare per scontato che farai il musicista
per il resto della tua vita e questa sensazione di incertezza ti fa aggrappare alla
musica e te la fa amare e vivere con tutte le forze che hai in corpo.