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I mostri sacri
Oscar Peterson (Arena di Santa Giuliana)
Jim Hall
(Teatro Morlacchi)
Roy Haynes
(Teatro Morlacchi)
luglio 2005, Perugia
di Antonio Terzo
foto di Claudio Campodifiori

Fra i concerti che più hanno emozionato Umbria Jazz '05, non solo musicalmente ma soprattutto per il suo significato affettivo è stato quello dell'incommensurabile Oscar Peterson (13 luglio). Riportano le cronache d'una decina di anni fa – quando cioè il pianista di Montreal riprese a suonare in pubblico dopo l'ictus che gli aveva procurato un'emiparesi – che egli riuscisse a muovere soltanto la mano destra, la sinistra restando da parte, poggiata sulla tastiera. Commovente, dunque, vedere come nonostante quella mano, che adesso riesce almeno a coordinare qualche accordo, Peterson, con un impeto d'orgoglio e la sua consueta verve musicale, sia ancora in grado di incantare le platee. Anche con una mano sola.

Sulle note di Reunion Blues, staccata da Alvin Queen alla batteria ed assecondata dal contrabbasso di David Young e dalla chitarra di Ulf Wakenius, sul palco dell'Arena di Santa Giuliana entra con passo lento e dettando il tempo con la destra Oscar Emmanuel Peterson, siede al piano e procede il motivo esposto dai suoi musicisti. Movenze samba per Here's that a rainy day, introdotta dal leader, soffice sulle cadenze appena accennate dalla ritmica, cui fa seguito la piena chitarra di Wakenius, quindi la parola torna al pianista (di cui si può udire il mormorio con cui accompagna gli interventi solistici dei compagni di palco), che continua ad avere una poesia tutta sua nelle mani, piene di leggerezza, nonostante tutto.

Parte Backyard blues, avviato da chitarra e batteria e tinteggiato di tutti i colori di cui lo spettro espressivo del quartetto è capace: buona lucidità esecutiva del chitarrista, variegate le metriche del grande Queen, puntuali gli intrecci del contrabbasso, con il pianista canadese che nel suo assolo cita anche Summertime. A seguire When summer comes, pacato incipit al piano, in tre movimenti, toni delicatissimi sia quelli di Peterson sia quelli assegnati alle corde del preziosissimo Wakenius, cui compito è di sorreggere le virtuose fantasie destrimani di Peterson. Tanta storia da raccontare nel contrabbasso di Young, artefice di un cantabile intervento improvvisativo, quindi Cakewalk, altra topica composizione del nostro, in cui evidente è l'uso maggiore di una sola mano – la sinistra spesso adagiata sulla tastiera, come fa scorgere l'inquadratura dell'impietoso cameraman che cura la proiezione sui due megaschermi laterali –: ma l'eloquio della destra è lineare e come sempre affascinante. Il break del colorito Queen alla batteria echeggia le melodie del tema, una notevole ricchezza cromatica, che si compone e confluisce nell'unisono fra piano e chitarra.

In memoria dei grandi jazzisti che la musica ha perduto – e Peterson cita Ray Brown, Norman Granz "Because we will never forget" – il gruppo esegue Requiem, dolcemente elegiaca, su cui la chitarra si innesta composta con qualche stentoreo accento blues, contrabbasso volutamente compunto; e, per spezzare, la vivace Satin Doll, con trascinante turnaround finale di grande energia. Quindi Cute, dove tracima l'interplay fra i solisti, poi Kelly's blues, e la romanticissima Love Ballad, affrontata inizialmente da Peterson in tacet del gruppo, che si inserisce dopo la modulazione di tonalità. Momento di smarrimento quando Peterson avvia per la seconda volta Satin Doll, fra gli sguardi spiazzati dei musicisti che non osano interromperlo o segnalargli la defaillance… Ancora un omaggio, adesso all'ultimo storico contrabbassista "petersoniano", Niels-Henning Orsted Pedersen – "The Viking", come Peterson lo chiamava – con In the silence of the woods, poi il gospel Hymn to freedom, dove, dalla minore fluidità del fraseggio pianistico, si evidenzia qualche cenno di stanchezza, e per concludere la coinvolgente Sweet Georgia Brown, sulle cui note il colosso si allontana, salutando emozionato l'altrettanto commosso pubblico. Il quale, invero, avrebbe pure "preteso" il bis: ma siamo certi che ad un così toccante concerto nulla avrebbe aggiunto una faticosa rentrée dell'ottuagenario pianista del Quebec, se non la cinica consumazione di un rito a cui questa volta siamo felici di poter registrare che molti sensibili presenti si sono rifiutati di prendere parte.

Di tutt'altro tenore il concerto proposto da un altro veterano del jazz, il settantacinquenne chitarrista Jim Hall, che il 12 luglio per 'round Midnight al Teatro Morlacchi schiera una formazione costituita da Terry Clark alla batteria, Steve La Spina al contrabbasso e dal portentoso giovane Geoffrey Keezer al piano. Un concerto pacato come il carattere del nostro, ma anche ben orchestrato nell'avvicendamento dei brani – quasi tutti a composizione dello stesso Hall – e nel gioco delle parti solistiche. Si apre con il blues Bent Blue, introdotto dal chitarrista di Buffalo – che incespica nel dedalo di cavi ai suoi piedi – il quale lascia poi spazio alla batteria, al piano ed al contrabbasso: una pulizia di suono direttamente proporzionale all'esperienza di questo maestro (fra i suoi ormai illustri "allievi" si annoverano John Scofield e Pat Metheny). Molto in parte, all'altezza della situazione e senza inibizioni o timori reverenziali il giovane pianista, dopo il quale è la volta del contrabbasso (probabilmente una "taglia 3/4"), di pregio la sua improvvisazione, doppiata da un asciutto ma pregnante assolo della batteria. Il repertorio prosegue con All the things you are, imperniata tutta sulla combinazione con il piano, che asseconda le eleganti invenzioni improvvisative del grande jazzista, anche nelle minime sfumature. Rapidissimi gli ottavi di La Spina, mentre questa volta spezza un po' il ritmo l'inserimento del piano, ritirandosi in un registro più lirico-melodico seppur ben congegnato ed eseguito, da cui traspare forte e chiara l'educazione classica; sorregge il break-in di Clark lo stesso Hall, con sillabiche note di collegamento. Scusandosi come americano e prendendo apertamente le distanze dall'attuale amministrazione americana di George W. Bush, Hall dedica al Burkina Faso – regione fra le più povere dell'Africa Occidentale e che soffre pure l'immigrazione proveniente dalla vicina Costa d'Avorio, a sua volta martoriata dalla guerra – il brano Ouagadugu, dal nome della capitale del paese, dove da qualche tempo annualmente si tiene un festival jazz: suoni etnici tirati fuori dall'interno del pianoforte, dallo scontro fra archetto e contrabbasso e dalla percussione di Hall con il pollice sul mi grave del suo strumento. Il clima scuro e cupo dell'inizio viene riscattato dalla splendente chitarra, stoppato invece il piano di Keezer, prima sincopato e poi condotto su block chords, quindi armonici conclusivi di Hall. Questi movimenta il susseguirsi della scaletta impegnandosi singolarmente con i propri musicisti: in duo con Keezer per la ballad Palm Reader (composizione dello stesso pianista), e nonostante il divario generazionale, i due mostrano d'avere tantissime emozioni da raccontare e raccontarsi, in un altissimo momento di musica; quindi tocca a Terry Clark, con Why not dance?, dedicata a Jimmy D'Acquisto – l'artigiano costruttore della chitarra di Hall –, mentre con La Spina il maestro si cimenta nell'adattamento del traditional Hi-ho, nobody's home? (nota anche come Cold Spring) con accompagnamento dondolante del contrabbasso su cui il nostro posa le linee nitide della propria chitarra, per fungere, poi, lui stesso da supporto al contrabbassista. La band al completo torna di nuovo su Frisell Frazzle – sul cd Dialogues suonata con Bill Frisell, cui è dedicata – nella quale ciascuno si sbizzarrisce fornendo il proprio contributo strumentale, e dove Hall, grazie alla conoscenza di molteplici linguaggi, la smisurata tecnica e la notevole esperienza, rivela un suono sempre nuovo, aperto anche a nuove intrusioni, come dimostra in questo frangente l'impiego di alcune funesterie effettistiche… Fresco anche il fraseggio di Keezer in Hide and sick, turbinoso, avvolgente e nettissimo, frizzante la batteria di Clark. Terminata la scaletta ufficiale, l'insistenza per il bis viene appagata con un pezzo di libera estemporaneità, dedicato da Hall ad Oscar Peterson, in riconoscimento del grande contributo che il pianista canadese ha apportato al jazz di tutti i tempi. Ennesimo gesto di signorilità da parte del "grandpa" di tutti i chitarristi del jazz.

Al pathos di Peterson ed alla sobrietà di Hall, ha dato riscontro la vitalità dello spettacolo del drummer Roy Haynes (14 luglio), anch'egli ottant'anni suonati… a colpi di batteria nelle band dei più illustri jazzisti di tutti i tempi, da Charlie Parker a Bud Powell, da Stan Getz a Sarah Vaughan, da Miles Davis a Coltrane, da Chick Corea a Pat Metheny. E sembra abbia scoperto la fonte dell'eterna giovinezza, per parafrasare il nome del suo ultimo cd, appunto Fountain of Youth, come dimostra la poliedrica serata che ha regalato agli spettatori del Teatro Morlacchi per 'round Midnight, accompagnato da giovanissimi talenti di cui certamente sentiremo ancora parlare: Marcus Strickland ai sax tenore e soprano, John Sullivan al contrabbasso, Martin Bejerano al piano. Casacca di lamé dorato, tocco repentino e costante della migliore scuola hard-bop, Haynes veleggia con energia e potenza, controllando entrambe, ed il risultato è un drumming magnifico ed eloquente, vivace, che trascina per tutta la durata di Like this. Si fa fluttuante il soprano sulla composita poliritmia di My heart belongs to daddy, pigolante, echi "branford-marsalisiani" – anche se qui manca l'inventiva fantasiosa del blasonato sassofonista di New Orleans. Haynes si alza per far posto all'assolo di contrabbasso, attentissimo il pubblico in attesa del numero del batterista del Massachusetts, il quale adesso batte il tempo sulla cassa, schioccando sui cerchi dei tamburi…. Molto scarno, il tema viaggia su accenti orientaleggianti, l'assolo passa ora al piano, ma Haynes si sovrappone senza tuttavia sostituirvisi, rimarcandone semmai il crescendo con pelli e piatti. Dopo la ripresa, ecco l'incontenibile sfogo percussivo del nostro sul charleston, quindi si alza e batte le bacchette, chiamando così il pianissimo e la chiusura. Da qui passa a Question & Answer di Pat Metheny, voce solista ancora il sax soprano, i colpi del batterista sotto l'improvvisazione del piano sono da leader: richiamano l'attenzione, scandiscono una frase, sottolineano un passaggio, infondono colore. Segue un brano non annunciato, voluttuosa e corposa introduzione di Strickland adesso al tenore, in assoluto silenzio degli altri colleghi, è una delizia ascoltarlo, non ha bisogno di suonare tante note o di ricorrere a virtuosismi per convincere, mentre di sotto le spazzole di Haynes arricchiscono di loro l'atmosfera sonora. Pure il giovane Bejerano sceglie bene i suoi tasti, sia da solo che contornando di appigli armonici il soliloquio del contrabbasso. Il tema viene ripreso infine dalle spazzole di Haynes, che per l'ultimo chorus lo trasformano in rumba.

Si prosegue con le mazze, ovattate ma sempre energiche fra le dita di Haynes, costretto tuttavia ad interrompersi per problemi al charleston. Così inizia ad intrattenere il pubblico dialogando, dichiarando ufficialmente d'esser nato il 13 marzo del 1925, alle due in punto. Chiede se vi sia qualche vocalista in sala, scambia battute con i giornalisti: così per una decina di minuti, un vero mattatore della scena oltre che della musica. Si riparte con un tema bop, ma dura poco giacché l'arzillo ottantenne lascia di nuovo la propria postazione, ed è un diletto vedere come i suoi ragazzi nonostante tutto si trovino a proprio agio, gli preparino il terreno per riprendere la musica ed il suo numero solistico, roboante e scatenato, al quale succede quello lineare del sassofonista. Divertito, l'uditorio fragorosamente chiede il bis, che aggiunge una ulteriore perla allo scrigno di emozioni che, ancora un volta, Haynes ha saputo confezionare.







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Data pubblicazione: 09/09/2005

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