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Voci
11 luglio 2005, Perugia

di Antonio Terzo
 

Tutta dedicata alle voci la giornata dell'11 luglio a Umbria Jazz '05, con un fitto carnet di orari e teatri. Si comincia con Lizz Wright, artista afro-americana cresciuta alla scuola del gospel parrocchiale in Georgia, che proprio in questa data compie il suo terzo compleanno artistico, posto che al 2002 risale il suo debutto in occasione del tributo in memoria di Billie Holiday, a Chicago: e da allora è stata tutta una escalation, con il contratto Verve – major a cui non sfugge nulla – e la pubblicazione, di lì a poco, di Salt a fianco di affermati jazzisti quali Danilo Perez al piano, Brian Blade alla batteria, Chris Potter al sax. Il compleanno artistico in Perugia viene invece festeggiato con l'uscita di Dreaming Wide Awake (stessa label), disco su cui è incentrato il concerto pomeridiano al Teatro Pavone: uno spettacolo molto vario, che attraversa il pop, il blues ed anche certe sonorità afro, con poco jazz, forse, ma cui filo conduttore è senza dubbio la sua suadente e spontanea voce, che impressiona non tanto per estensione, quanto per le tensioni che riesce a creare. Un aroma spiccatamente bluesy dall'accoppiata batteria e chitarra, e quando la Wright comincia a cantare A taste of honey è come una calamita, prende e stringe dentro. La naturalezza del suo canto è comunque la sua nota caratteristica, ed i vocalizzi mai sbavati e sempre alla sua portata sono riprova che l'ambientazione etno-folk-pop le si addice perfettamente. Così, in Stop (già "Don't tell me" nella versione di Madonna) rievoca alcune densità canore alla Tracy Chapman o alla Tanita Tikaram di qualche tempo addietro, mentre la timidezza si percepisce "per differenza", fra quando presenta i pezzi e quando li canta. Impeccabili i suoi musicisti, essenziale il contrabbasso di Massimo Biolcati, complementari le due chitarre, l'elettrica di Mike Moreno e l'acustica di Anthony Peterson. Un accordo di sesta/nona da parte di quest'ultimo per introdurre Wake up little sparrow, echi vocali adagiati sui colpi asciutti della batteria di Jonathan Rix; ancora più suggestive divengono le inflessioni del sud in Old man, quando nel ritornello la Wright passa ai registri superiori. Una deliziosa I'm confessin', su supporto quasi totalmente acustico, e prima di salutare il pubblico Hit the ground e Get together, per poi concedersi al bis con le lead-tracks dei suoi due album, Dreaming Wide Awake e Salt.

Sempre nello stesso pomeriggio il Teatro Morlacchi ospita invece il trio di Madeleine PeyrouxKevin Hayes al piano e al Rhodes, Matt Penman al contrabbasso, Scott Amendola alla batteria – in un'esibizione che è parsa inspiegabilmente divisa in due ideali sezioni: una prima in cui si è faticato a rintracciare un leit-motiv e dove, dopo l'inizio con una brillante Dance me to the end of love, hanno spiccato una struggente Between the bars, brano sull'alcolismo scritto da Elliott Smith, e la francofona J'ai deux amours (resa famosa da ben altra grande chanteuse, Josephine Baker), leggera leggera, con buona presenza del piano di Hayes, mentre proprio il pezzo che dà titolo al cd, Careless Love, una country ballad con incedere ritmico quasi "rock-a-billy", risulta musicalmente meno convincente; ed una seconda parte in cui la ripresa di certe songs del jazz d'annata riesce finalmente a tracciare una dimensione uniforme. La voce della Peyroux, timida, a tratti sofferta per un profondo sentimento interiore, affascina con alcune incertezze tremule che avvinghiano, e la chitarra sembra quasi uno scudo di difesa da tutto ciò che potrebbe provenire dall'esterno a turbare la fragilità del suo mondo canoro, musicale, personale, sebbene troppo ci sembri l'accostamento della sua espressività vocale a quella inarrivabile di Billie Holiday, secondo quanto invece da taluni sostenuto. Così la Peyroux propone Weary Blues from Waitin' in 3/4, dove il tastierista crea un certo contrasto fra il mood triste e gli acuti vibrati del suo Rhodes, Look down aperta dalla batteria, con buona prova anche del contrabbasso, quindi I'll look around, finalmente senza chitarra, e la ragazzotta della Georgia sembra sì più vulnerabile, con la sua mise da sera e le mani penzolanti lungo il corpo, ma anche più concentrata, controlla meglio fiato ed emissione: un recitato emozionante del contrabbasso, con rapidi scambi fra le quattro corde, prelude al finale con nota lenta della Peyroux. Più spensierata No name blues, così come in tema sono anche gli assolo di piano e del contrabbasso sempre più fantasioso; una splendida If I had you, con pregevole dialogo – di mestiere – fra piano e vocalista; Destination moon che rivela la vera propensione canora dell'artista, la suddivisione sbilanciata, le parole rotte; This is Heaven to me, struggente con l'arrangiamento di Hayes al Rhodes a rintoccare gli acuti con la destra accompagnando l'armonia sul piano con la sinistra. È dunque in questa veste che convince di più, rispetto ad una prima parte troppo slegata che s'è faticato a seguire. Ed il bis, Walkin' After Midnight, induce anche il battimani cadenzato del pubblico.

Ci si sposta all'Arena Santa Giuliana dove sono di scena due grandi nomi della musica internazionale, al di sopra dei generi: Al Jarreau e George Benson (il cui ricovero per congestione, qualche ora prima del suo ingresso sul palco, deve aver fatto sudare freddo agli organizzatori). Il primo ha fatto valere tutta la sua esperienza di pop singer, cantando, in rispetto alla manifestazione ospite, pure brani del repertorio jazzistico quali Route 66 (con incipit lirico-scherzoso sulle note di "Figaro" in omaggio alla tradizione melodica italiana), Spain, in una ritmata versione che gli fa cascare anche il microfono, Take Five, avviata dalla sua solita ma sempre coinvolgente "imitazione" della batteria in vocalese, supportata dal basso, forse in lettura meno jazzata e più funky, ma comunque gradevolissima, e Midnight sun, dove certamente le inflessioni jazz erano più sonore. Fra i brani del suo ricco songbook, invece, un medley in cui ha incastonato Save me, My old friend, Trouble in Paradise, successivamente una sorprendente Wait for the magic, quindi la "sua" particolarissima interpretazione di Your Song di Elton John, con introduzione del piano che Jarreau segue assorto, fino all'inconfondibile vocalismo iniziale: il momento più alto del suo set, che da solo lo vale tutto, con il pubblico che fa da coro. Dopo We're in this love together e Breakin' away, suoi cavalli di battaglia, la rentrée ha continuato a trascinare i presenti con interazione di cori nella parentesi "latin" di Agua de beber e Mas que nada. Intelligente dunque la sua performance, in cui probabilmente ha ripensato la scaletta rispetto ai suoi abituali spettacoli, in modo da dare soddisfazione ai jazzofili presenti.

Nulla quaestio sulla "jazzicità" del chitarrista-cantante di Pittsburgh George Benson: non lo attestano solo le sue stellari collaborazioni – con Miles Davis per "Miles in the Sky", Freddie Hubbard, Ron Carter, Stanley Turrentine – ma proprio i suoi live, in cui, a parte il repertorio leggero (dove le sue composizioni hanno per esempio fatto la fortuna di una certa Withney Houston con All at once e Greatest love of all) che lo ha reso noto al grande pubblico attraversando più generazioni di amanti del genere "soft", il suono della sua chitarra Ibanez è inconfondibilmente quello di sempre, fluido ed elegante, con buone fragranze jazz. È quanto dimostra nella strumentale Breezin', seguita da un blues più secco e duro, Six to four. Forse invece è il timbro vocale ad essere un po' provato, anche se, a chi non sia più ventenne, ascoltare dal vivo brani come In your eyes, Nothing's gonna change my love for you o ancora Turn your love around, fa sempre un bell'effetto: canzoni che non a caso esegue riposta la chitarra da parte. La serata scorre leggera fra le melodie tutte note del suo repertorio, dall'ammiccanteBeyond the sea (La mer, in francese) cui il nostro è particolarmente affezionato, ad Affirmation, in duo con la percussionista Kenya Hathaway (figlia del celebre soulsinger Donny), fino alla viscerale The Ghetto e Gimme the night. Immancabili in chiusura Kisses in the moonlight e, per tornare al jazz, la grintosa On Broadway. Forse il più "jazzistico" fra gli appuntamenti pop di cui quest'anno è infarcito il palcoscenico di Umbria Jazz.

Infine è il Morlacchi ad ospitare in "'round Midnight" il trio di Peter Cincotti, per festeggiare il ventiduesimo compleanno del crooner newyorkese, accompagnato in questa prima tappa del tour italiano da Scott Kreitzer al tenorsax, Barak Mori al basso elettrico e contrabbasso e Mark McLean alla batteria. E sono proprio questi ultimi due che danno avvio alla nottata musicale, sulle note di Bali Hal'I, intrigante senza piano, fino a che Cincotti non siede ad accompagnarsi al gran coda e sostenere il solo del sax. Buon timing di batteria per I love Paris di Cole Porter con particolari arrangiamenti ritmici, frizzante il contributo solistico del pianista, quindi I'm always watching you, un blues con basso discendente, vibranti i piatti di McLean, rimshot che spacca il tempo a metà, soffiato il tenore. Languide e lente le sfumature bossa di Sway, gradevole il piano di Cincotti, non è un virtuoso ma mette le note al posto giusto e mantiene chiaro lo sviluppo di tutto il suo racconto improvvisativo. Energico il finale collettivo con ottima intersecazione ancora della batteria. Dopo la ballad in odore country Come tomorrow, presenta il gruppo e Mori gli sottrae il microfono per invitare il teatro a cantare "Happy birthday" e festeggiare l'imbarazzatissimo Cincotti. Dopo questo siparietto è la volta di Cry to me, in cui il leader si distingue per il suo apporto in stride piano, ma è ancora il robusto tenore a primeggiare. Mentre gli ultimi due brani in scaletta, Make it out alive e St. Louis Blues nulla aggiungono al già piacevole concerto, dopo i rituali ringraziamenti il bis viene soddisfatto con un'altra composizione originale del pianista, Witches Brew, attestata sul filone romantico-sentimentale, troppo sottotono per lasciare con essa il pubblico: ed infatti a chiudere definitivamente è You don't know me, in taglio spiccatamente blues, eseguita con particolare eleganza. Delle doti canore del nostro si può dire che certamente la sua impostazione vocale è meno di maniera e costruita rispetto ad altri suoi più osannati colleghi: il che unito al fatto che Cincotti non difetta di una buona musicalità, lascia pensare che dovremmo continuare a sentirne parlare.







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Data pubblicazione: 27/08/2005

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