Bergamo Jazz 2008
Arve Henriksen Trio
Roy Hargrove Quintet
Domenica 16 marzo 2008 – Teatro Donizetti, Bergamo
di Achille Zoni
Giunto alla sua trentesima edizione, il longevo e felice Bergamo Jazz
vede esibirsi sul palco, per la serata conclusiva, due fra i più eloquenti trombettisti
attualmente in circolazione, in un concerto che sembra voler sondare le potenzialità
espressive di questo strumento nei più diversi contesti, tradizionali o sperimentali.
Uri
Caine, ancora una volta direttore artistico del festival, sapeva bene
che effetto particolarmente straniante si sarebbe ottenuto accostando
Arve Henriksen
al talentuoso Roy Hargrove. Dove il primo è più riflessivo ed empatico,
il secondo è travolgente, infuocato ed istintivo. Due voci prevalentemente contrapposte
ma che riveleranno sottili punti di contatto, a conferma della lungimiranza di
Uri Caine.
Lo spettacolo apre proprio con
Henriksen,
giovane musicista che negli ultimi anni, soprattutto dopo le esperienze accumulate
con i Supersilent, si sta allineando alle alte cerchie del jazz contemporaneo
di matrice norvegese, caratterizzato da quel suono "à la ECM" che identifica
in sostanza le produzioni sperimentali, minimal-elettroniche indagate da
Garbarek,
Andersen, Vesata ed altri.
Henriksen
sceglie di lavorare ancor più marcatamente in questa direzione, con un ensemble,
come suo solita scelta, esiguo di presenze sul palco ed una preferenza per un lavoro,
per così dire, di sottrazione, sia estetica che quantitativa.
In un ora e mezza circa di spettacolo il pubblico del Donizetti assiste
affascinato a fluide successioni di suoni indefiniti ed echeggianti in cui, solo
a tratti, risulta possibile cogliere una coincidenza fra gesto dei musicisti e suono
prodotto. Mentre tutto il resto si perde nelle continue eco che dominano praticamente
tutti i brani, in cui la musica sembra poter essere colta solo nel proprio divenire.
Accanto ad
Henriksen ci sono il pianista Morten Qvenild, che giostrerà
in continuazione fra pianoforte e sintetizzatori, e Jan Bang, occupato alla parte
più puramente elettronica del concerto, di produzione e ri-produzione di suoni innestati
su quelli acustici di
Henriksen
e Qvenild, se non quando direttamente al campionamento e alla sintesi sonora.
Henriksen,
nello specifico, gioca molto sugli accostamenti fra voce e tromba, cercando anche
di fonderli assieme, o di rendere più marcato il soffio del fiato sul suono del
suo strumento. Pare, il suo, una sorta di dadaismo recuperato, in cui tutto ciò
che produce un suono/rumore trova un suo spazio ben collocato e funzionale.
Il complesso è estremamente pittoresco, come pittorica è anche la gestualità
dei musicisti, concentrati, ipnotizzati dagli intrecci di pattern ritmici casuali
e sfondi uniformi. Il senso che perviene da questa vera e propria performance è
quasi sacrale, e forse il merito maggiore del trio è di veicolare proprio con tale
aura delicata e fragile stili ed elementi musicali contemporanei difficilmente avvicinabili
da un pubblico che non sia di nicchia, in primo luogo l'elettronica techno-minimal
e sperimentale, di cui i nostri fanno ampio impiego.
Tutto si ribalta radicalmente nella seconda parte della serata, quando
il palco viene occupato dallo sfavillante quintetto di Roy Hargrove.
Sul palco con lui ci sono Justin Robinson al sax contralto e, in una formidabile
sezione d'accompagnamento, il giovane pianista
Gerald Clayton,
Danton Boller al contrabbasso e Montez Coleman alla batteria.
La formazione attacca senza troppi indugi e così continuerà inesorabilmente
a suonare per tutto il concerto, lasciando pochissimi momenti di respiro tra un
brano ed il successivo. Da subito si evidenzia una stupenda contrapposizione fra
le due voci soliste: il sax roco e aggressivo, ma pure passionale, e la tromba,
sinuosa, rapida, dalle tinte più fresche.
Il quintetto travolge il pubblico con un hard-bop poderoso, e continuando
ad altalenarsi proprio fra hard e be-bop (seppur di sapore molto moderno, con diversi
riferimenti alla lounge) dimostra la padronanza di uno swing eccezionale, ricco
di espressività. Grande sensibilità e controllo delle dinamiche, senza per questo
subire un calo del senso di coinvolgimento dei brani, sono le caratteristiche dominanti
del quintetto. Tuttavia le cose non restano affatto lineari: già nel terzo brano
i musicisti sembrano aggiungere benzina sul fuoco e la ritmica si complica, s'intriga,
in un crescendo di diverse linee melodiche che si sovrappongono, esplodendo quasi
nel mare magnum del free. Successivamente, però, la musica implode con classe e
distinzione, facendosi più languida e morbida. E' questo il momento adatto per fare
entrare in scena l'ospite della serata, la cantante
Roberta Gambarini,
con cui Hargrove ha già avuto modo di lavorare (la ricordiamo proprio con
lui e Hutcherson a Milano). L'atmosfera allora si distende e si entra nel
classico standard jazzistico.
Come a voler agire per elementi contrastanti, ad ogni brano più disteso
ne segue, quasi matematicamente, uno furioso, inarrestabile. In questi brani
Hargrove e Robinson, dopo aver concluso i propri assolo, lasciano fisicamente
spazio alla sezione ritmica, uscendo di scena. Agli ascoltatori è così offerta una
formazione dentro la formazione, un trio nel quintetto, che da solo è in grado di
stupire ed entusiasmare per tecnica e bravura. E' impossibile non sentirsi trascinati
da quella che è una vera e propria colossale architettura ritmica, eccezionalmente
condensata nelle mani di tre giovani e talentuosi musicisti. Attraverso alcuni brani
dalle ritmiche più latine e, poi, in un tributo alle origini della passione musicale
del nostro trombettista, planano in un funk/soul eloquente e sornione. Apprezziamo
un Hargrove al meglio della sua forma, che fa della tecnica e della pulizia
del suono i suoi punti di forza; un Hargrove anche piuttosto citazionista,
come a omaggiare le lezioni di Fats Navarro, Clifford Brown, Lee
Morgan. Maestri di uno strumento che, nelle sue mani, sta acquisendo nuovi standard
d'esecuzione con cui di sicuro si dovranno confronteranno i musicisti di domani.
05/09/2010 | Roccella Jazz Festival 30a Edizione: "Trent'anni e non sentirli. Rumori Mediterranei oggi è patrimonio di una intera comunit? che aspetta i giorni del festival con tale entusiasmo e partecipazione, da far pensare a pochi altri riscontri". La soave e leggera Nicole Mitchell con il suo Indigo Trio, l'anteprima del film di Maresco su Tony Scott, la brillantezza del duo Pieranunzi & Baron, il flamenco di Diego Amador, il travolgente Roy Hargrove, il circo di Mirko Guerini, la classe di Steve Khun con Ravi Coltrane, il grande incontro di Salvatore Bonafede con Eddie Gomez e Billy Hart, l'avvincente Quartetto Trionfale di Fresu e Trovesi...il tutto sotto l'attenta, non convenzionale ma vincente direzione artistica di Paolo Damiani (Gianluca Diana, Vittorio Pio) |
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Data pubblicazione: 18/05/2008
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