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Intervista a Roberta Gambarini
Blue Note, Milano - 21 marzo 2007
di Mario Livraghi
foto di Alberto Gottardelli

Roberta Gamabrini, reduce da una nomination ai Grammy Awards, per il suo album Easy To Love, si è esibita al Blue Note di Milano dove l'abbiamo incontrata. Trasferitasi a Boston nel 1998 per studiare canto, si aggiudica subito il Thelonious Monk International Jazz Competition. Da qui, iniziano alcune collaborazioni di assoluto pregio come Herbie Hancock, Hank Jones, Ron Carter, Michael Brecker, la Dizzy Gillespie All Stars Big Band...



Mario Livraghi: Easy to love, l'ultimo tuo disco ha avuto un grandissimo successo di critica e di pubblico; hai avuto la nomination per il Grammy Awards, indubbiamente sei soddisfatta di questo successo; ma te lo aspettavi?
Roberta Gambarini:
La nomination no, non me l'aspettavo per il semplice fatto che questo è un disco autoprodotto indipendentemente senza il patrocinio di una grande casa discografica. Un disco prodotto da me, dal dal mio manager e da Jack Mujal che è un appassionato di musica di Ginevra ma che è stato anche molto amico di Dizzy Gillespie; c'è quindi una connessione con questo grande artista del jazz poiché il mio manager ha lavorato molto con Dizzy. Ho deciso di produrre così questo mio disco perché le maggiori case discografiche non lasciavano abbastanza spazio alla mia creatività e comunque poichè loro non sono molto interessate a questo tipo di repertorio ma sono maggiormente protese alla pubblicazione di un prodotto musicale più di massa, di consumo, e per questo ti mettono insieme ad un produttore che ti "dirige". Questo è un album prodotto da musicisti. E' vero qui c'è il produttore che è il mio manager, ma qui lui ha agito come un musicista; siamo andati in sala d'incisione con dei musicisti che già conoscevo e che erano anche dei miei cari amici, abbiamo inciso i pezzi che più ci piacevano nell'arco di due pomeriggi e così è nato il disco. Non c'è una produzione con un supervisore che ti dice "fai questo" oppure "fai quello" o "cerchiamo di ricreare questa particolare atmosfera". E' un disco che non è pensato prima, ma molto spontaneo; infatti molte cose sono first take, ovvero registrazioni simili al live, non ci sono tante divisioni o ripetizioni. Per cui sono contenta di quello che ho fatto con questo disco perché ho realizzato qualcosa che si pone controcorrente rispetto a quello che abitualmente si costruisce in sala di registrazione. Infatti in USA solitamente si producono album con un tema che viene svolto, un produttore che traccia la via da seguire e il tutto generosamente supportato da un grosso investimento economico da parte della casa discografica. Questo disco invece è stato realizzato con cifre nettamente inferiori a quelle investite dalle major discografiche americane. C'è stato poi il supporto di un ingegnere del suono veramente in gamba, Al Smith, mio carissimo amico che tra l'altro ha lavorato in tutti dischi di Diana Krall. Easy to love è un disco quindi realizzato in maniera indipendente e con pochi soldi; ha avuto l'attenzione del Grammy e ciò mi ha fatto un grandissimo piacere. Questo fatto sta a significare che si può avere un grande successo anche se non c'è una grande casa discografica alle spalle della produzione. Vedo attualmente tanti bravi musicisti, anche americani che, avendo problemi con le grandi case discografiche, tendono ad autoprodursi per realizzare liberamente ciò che sentono. Il mio successo è quindi un piacere non solo per me: attualmente ci sono diversi musicisti di talento che non hanno sbocco perché allo stato delle cose la qualità a livello di mercato non è un valore. Adesso si guarda maggiormente alla vendibilità del prodotto discografico o all'età del cantante; più giovane è l'interprete e più facile è vendere il prodotto perché si crea un'immagine di talento artistico precoce. Ma nel jazz questo non può esistere perché ci sono dei tempi necessari alla maturazione artistica di un talento.

M.L.: In questo disco possiamo pensare ad un comune stile conduttore?
R.G.: Io non penso mai ad uno stile precostituito; e questo non è un disco basato su uno stile specifico; qui ci sono diversi elementi che si possono ricondurre allo swing, al bebop e anche oltre. Io non penso mai in termini di stile ma di brani nel senso che in Easy to love ho deciso di fare determinati pezzi perché questi li ritengo dei grandi brani musicali. In questo momento ho colto che, spostandomi negli States, questi brani sono il patrimonio comune della cultura americana e pertanto essi si rivelano il mezzo migliore per stabilire un contatto emozionale innanzitutto con i musicisti con cui lavori. Questi brani li conoscono tutti e questo è un punto di partenza fondamentale per stabilire un contatto, una piattaforma comune su cui intavolare un discorso; se io propongo un pezzo poco conosciuto è più difficile creare una situazione comune di partenza. Per me si trattava di creare una base di dialogo condivisibile, avere la possibilità di farmi conoscere ed entrare in comunicazione con gli altri artisti. In questo momento ho ritenuto prioritario andare io verso gli altri. Gli standard sono dunque un patrimonio comune e questo è il modo migliore per fare conoscenza con i musicisti. Non solo: essi si rivelano il modo migliore per stabilire un punto di incontro anche con il pubblico. Il pubblico americano si relaziona molto ai testi, alla storia che viene raccontata in questi brani. Pertanto nella scelta ho tenuto conto anche dei testi. Questo ovviamente accade di meno nei paesi non anglofoni. Per cui la scelta dei brani in questo disco è dipesa molto dalla comunicazione ma non dallo stile, anche perché io ho un mio stile. Ma lo stile non è qualcosa che viene messo lì nel tempo e poi lo rifai uguale in modo impersonale; lo stile, se così vuoi chiamarlo, è una mentalità, un modo di sentire. Nella big band con cui lavoro che è chiaramente ispirata a Dizzy Gillespie, non c'è un rifacimento stilistico, ma una volontà di ricerca proprio come faceva Dizzy: ricerca armonica e ritmica, tenendo conto dei vari elementi che si sviluppano nelle varie parti dell'America, da Cuba all'America Latina. Inoltre Dizzy, per suo convincimento personale, credeva nell'unità dei popoli, ed ecco perché egli ha avuto nelle sue orchestre elementi provenienti da diverse parti dell'America. Per cui se parliamo di una filosofia, di uno spirito, sì posso rifarmi a Gillespie, ma non ad uno stile specifico, poiché quello che io ricerco e che ho imparato dai grandi musicisti con cui ho lavorato è la comunicazione. Lo stile e il tipo di brani che tu utilizzi, magari partendo anche da un genere pop o classico, sono un mezzo, ma la cosa più importante è lo spirito, lo stato d'animo che tu comunichi, le storie che tu racconti.

M.L.: Nella tua carriera con quale stato d'animo hai vissuto il lavoro con i big del jazz?
R.G.:
Lavorando con questi grandi musicisti mi sono trovata entusiasta perché questi erano i miei idoli fin da quando ero piccola. Intimorita no perché c'è sempre questo senso di fare parte di una grande famiglia. Per cui alla fine ci si sente rilassati. Se la tua mente è sulla musica, qui si tratta soltanto di musica, le cose cadono nel posto giusto e così trovi la confidenza per fare musica.

M.L.: In sala abbiamo incontrato un tuo amico d'infanzia con cui hai fatto una brevissima esperienza rock…
R.G.: Questa è bella, te la voglio raccontare. Io avevo 14 anni, forse nemmeno, e ascoltavo solo jazz. Alcuni miei amici che abitavano vicino a casa mia cercavano una cantante rock. Mi fanno la proposta per un provino, io ci vado e sento che suonano due accordi ripetuti. Io non sapevo cosa fare perché per me esisteva solo il jazz e non avevo idea di come si cantasse il rock. Allora ho cominciato ad improvvisare jazzisticamente su questi due accordi e loro, sconvolti subito, mi hanno scartato perché non era quello che cercavano. Ma anch'io avevo capito che non era quello che cercavo perché il mio amore musicale era un altro…










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Data pubblicazione: 11/06/2007

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