Intervista a Roberta Gambarini
aprile 2012
di Michela Lombardi
In occasione della sua tournée estiva europea pubblichiamo un'intervista
con Roberta
Gambarini realizzata la scorsa primavera, quando la cantante jazz di
origini piemontesi ed ormai newyorchese d'adozione, premiata come Female Jazz Vocalist
of the Year ai Jazz Journalists Awards nel 2010, ha tenuto una serie di seminari
e concerti in Italia.
Roberta, quando hai capito che
"da grande" avresti fatto la cantante?
Ho iniziato a cantare fin da piccola sui dischi, mi piaceva moltissimo ma non pensavo
che sarebbe diventato qualcosa di più di un semplice divertimento. Non mi visualizzavo
da grande su un palco a fare concerti e ricevere premi, e tuttavia mi sarebbe piaciuto
continuare anche da grande a cantare quella musica. Non avevo in mente di
fare un mestiere in particolare, salvo il fatto che mi rendevo conto che mi piacevano
molto la filosofia, la letteratura, l'arte, la danza… e la matematica! È solo dopo
il liceo che ho preso la decisione di lasciare Torino per stabilirmi a Milano e
fare la cantante proprio come professione, «costi quello che costi».
Anche la danza è dunque una tua passione?
Sì, ballare mi piace quasi quanto cantare, e anche se non ho mai fatto lezioni di
danza ho tuttavia seguito corsi di espressione corporea. Amo tutto ciò che è espressione
artistica.
A quali dischi, canzoni e assoli sono legati i tuoi primi
ricordi e i primi passi nel jazz? Ricordo di aver letto di un disco di Carmen Mcrae
con Dave Brubeck che tuo padre portò a casa per farti un regalo mentre eri a letto
con l'influenza…
Sì, è vero, ma ancora prima, ero davvero piccolissima, ho il ricordo di un disco
di Ella Fitzgerald che canta il Duke Ellington Songbook. E imparai
a memoria l'assolo su Satin Doll
()…Chissà
perché proprio quell'assolo pazzesco! [il viso di Roberta s'illumina di un sorriso
pieno d'entusiasmo, solleva lo sguardo come per cercare un ricordo sospeso e comincia
ad intonare quell'assolo con il suo inconfondibile ed impeccabile scat, ndr].
Ah, e poi anche il 45 giri di Mr. Paganini e You're Driving Me Crazy…
Tu hai studiato tecnica vocale con diversi insegnanti, tra
i quali ricordo Michiko Hirayama. Qual è stato precisamente il tuo percorso in questo
ambito di studio?
Ho studiato varie tecniche, tutte legate alla fisicità, e non ad uno stile particolare
di musica, perché ciò che mi interessava era semplicemente capire come il mio strumento
funzionava, in maniera naturale. Da bambina cantavo naturalmente, spontaneamente,
senza sforzi. A diciotto anni ho iniziato studiando tecnica classica, «accademica»,
ma non mi sono trovata molto bene perché sentivo che in quel tipo di approccio si
dovevano seguire delle indicazioni che mi inibivano, in qualche modo, e che mi allontanavano
dalla naturalezza di quand'ero bambina. Decisi allora di fare tabula rasa e ripartire
da ciò che mi veniva naturale. Anziché adattarmi a degli stilemi che non sentivo
a me affini, ho deciso da ripartire da ciò che mi veniva facile e naturale. Tuttora
è questo il mio modo di cantare: se sento che qualcosa non mi viene facilmente,
senza sforzo, allora non lo faccio, perché significa che qualcosa non va. Nell'intraprendere
dunque questa mia nuova ricerca è stata importante per me una persona che poi è
diventata una mia cara amica, la dottoressa Silvia Magnani, una foniatra
che all'epoca (circa vent'anni fa) aveva iniziato a cercare d'intraprendere una
ricerca mirata sull'uso della voce artistica, e quindi ho studiato con lei molte
cose, che lei in seguito ha sviluppato e su cui ha scritto e lavorato. Poi mi sono
avvicinata ai metodi Feldenkrais, Alexander, Middendorf… E infine ho conosciuto
Michiko, che dal punto di vista artistico mi ha dato tantissimo, perché non lavora
sugli stilemi ma sulle persone. Insomma, ho lavorato molto su me stessa come «strumento».
Se tu dovessi dare un certo numero finito di consigli ad un
giovane cantante quali sarebbero?
…un numero finito? Sarebbero infinite le cose da dire! [ride, ndr] Partendo
da quelli che in Italia vedo che sono gli argomenti più «sofferti», soprattutto
in materia di "tecniche", mi sentirei di dire che ci sono in realtà tante tecniche,
non credo ce ne sia una buona per tutto, e quindi credo che il giusto approccio
non sia quello dogmatico bensì quello pragmatico, per cui da ciascuna tecnica è
bene prendere quello che, conoscendoci, vediamo esserci utile e fare al caso nostro.
E poi consiglio di studiare sempre, per crescere sempre, cercando di stare a contatto
con artisti di grande livello che hanno molto da insegnare e che ci possono essere
di stimolo.
Tu hai lavorato, appena arrivata a New York, come trascrittrice,
anche grazie al tuo orecchio assoluto. Per quanto? Quanto ha influito sulla tua
formazione?
Fin da quando avevo diciannove anni ho iniziato a trascrivere di tutto, per
studiare. Mi piace proprio tanto, ho trascritto anche brani pianistici ed arrangiamenti
orchestrali. Questa cosa mi è tornata molto utile quando sono arrivata a New York,
perché mi ha permesso di lavorare – trascrivendo lead sheets – per l'editore
Second Floor Music per circa un anno e mezzo, dopodiché ho iniziato ad essere
spesso in tour, on the road. Ma in quel periodo ho trascritto davvero di tutto,
arrangiamenti per fiati, lavori di Booker Little, Julian Priester
ed altri.
Al
workshop che hai tenuto a Pisa (presso l'Associazione Spiritojazz) a metà aprile
hai detto, commentando un'esecuzione, che dovremmo cercare di essere un mezzo attraverso
il quale passa qualcosa che viene da un'altra parte… Oltre alla fisicità di cui
abbiamo parlato poco fa, dunque, c'è un'importante aspetto spirituale nel canto,
secondo il tuo modo di viverlo?
Sì, il "fisico" e lo "spirituale" sono collegati. Spesso è necessario fare spazio,
fare un vuoto dentro, per permettere al messaggio di passare. Lo scopo dell'esecuzione
è far sentire la bellezza della musica. Tutto parte sempre dalla musica. Sia che
si tratti di un'improvvisazione che di un testo da interpretare. È un po' come la
storia che raccontava Yoshi Oida, attore che ha lavorato con Peter Brook, riprendendo
la famosa storia zen: quando sul palcoscenico un attore indica la luna, il pubblico
non deve vedere il dito, bensì la luna. L'attenzione è sulla musica, non tanto sulla
bravura. Quello che facciamo è un mezzo, mentre il fine è l'espressione di una verità
che è dentro la musica, e che non viene da noi, perché è qualcosa di più grande
dell'individuo nella sua singolarità, altrimenti non potrebbe essere comunicato.
È qualcosa di universale.
Quanto è importante per te il testo, in una canzone?
E' di un'importanza fondamentale. Lì sta la chiave per capire che messaggio
deve passare e quindi come ci dobbiamo porre nei suoi confronti. Prendiamo il testo
intimo di "Too Late Now", ad esempio, che è molto distante da un testo come
quello di "La Puerta" dove, a differenza del primo, it's All Out, è tutto
fuori, è tutto esplicito ed univoco, e quindi cambierà anche il mio modo di dirlo
e di cantarlo. I testi del Great American Songbook però sono per lo più simili
al primo, hanno sempre doppi piani di lettura, ci sono al tempo stesso passione
ed understatement. Ancora diversi sono i testi finissimi e stupendi di Chico
Buarque de Hollanda, ad esempio.
Immagina di rivolgerti ad un'audience di giovani cantanti
che conoscono i grandi cantanti jazz del passato ma che, del presente, conoscono
solo i pochi nomi che le etichette importanti e le major hanno portato all'attenzione
grande pubblico: quali cantanti jazz vorresti che avessero una visibilità maggiore
di quella che hanno sulla scena internazionale, e quali di quelli del passato vorresti
che venissero riscoperti?
Ernie Andrews, ad esempio, che ha inciso dischi col quintetto di Cannonball
Adderley. È ancora attivissimo! Andy Bey, anche. E poi mi piace molto
Ethel Ennis, una cantante di Baltimora che mi piacerebbe che si sentisse
di più perché è davvero fantastica. A Los Angeles poi c'è Barbara Morrison.
Tra i brasiliani amo molto Johnny Alf, scomparso nel
2010, e quella che per me è probabilmente la
più grande cantante di jazz brasiliano, Leny Andrade. Tra quelli del passato
invece era molto brava Lorez Alexandria.
Dopo l'ultimo e pluripremiato disco "So In Love" e dopo la
tua partecipazione a "Everybody Wants To Be A Cat"(Disney/EMI records, 2011) con
«Alice In Wonderland» assieme a Dave Brubeck, quali sono i prossimi progetti discografici
a cui stai lavorando?
Quest'estate tornerò in sala d'incisione per incidere il mio prossimo disco!
E' un'ottima notizia. Nell'attesa che venga pubblicato, a chi già ha amato
i tuoi primi tre cd a tuo nome ("Easy To Love" del 2006,
"You Are There" in duo con Hank Jones, del 2008,
e infine "So In Love", uscito nel 2009) possiamo
consigliare anche l'ascolto dei cd incisi da «special guest» insieme ad altre formazioni.
Come quello con la Big Band dei Pratt Brothers, nonché i due dischi della Dizzy
Gillespie All-Star Big Band e la partecipazione al cd "Our Delight" con Hank Jones
e James Moody, fino alla raccolta della Disney "Everybody Wants To Be A Cat" con
il trio di Dave
Brubeck. Di alcuni anni fa è il cd "New Stories - Hope Is In the Air: The
Music of Elmo Hope", un tributo alla musica di Elmo Hope uscito nel 2004 n cui appari
anche tu sia come vocalist che come lyricist.
Quest'ultimo, in cui suonano anche Ronnie Mathews e i fratelli Peter e Kenny Washington,
risale a circa dodici anni fa, ho cantato il brano conosciuto nella sua versione
strumentale come Barfly, del quale avevo anche scritto il testo con il titolo This
Sweet Sorrow. Fu registrato negli studi di Rudy Van Gelder. Sempre in quegli studi
avevo fatto diverse incisioni nel 1999, ancora non pubblicate, con Ray Bryant e
molti altri musicisti, sui songbooks di Kenny Dorham e Hank Mobley.
Raccontaci del concorso Thelonious Monk Competition, nel 1998.
Ne ho un ricordo indelebile, perché ero appena arrivata in America, dove non
ero mai stata prima, e dunque fu uno shock culturale incredibile. Nel giro di una
settimana mi ritrovai catapultata lì, a Washington, dove c'erano proprio tutti:
le più grandi case discografiche, i più grandi musicisti, il business, l'establishment…
Non riesco nemmeno a spiegarlo, fu scioccante ma… alla fine mi ha fatto bene! Ero
sola, non conoscevo nessuno, e allora la mia cara amica Anna [compagna del noto
pianista Renato
Sellani, ndr] prese un aereo da Milano ed arrivò a Washington per starmi
vicina. Oltretutto ero l'unica straniera, e in quell'anno non c'era neanche il limite
d'età, quindi c'erano cantanti già affermate come Teri Thornton, Cynthia
Scott, Tierney Sutton,
Jane Monheit…
Mentre io ero lì come un pulcino spaesato appena uscito dall'uovo!
Inglese, italiano, dialetto napoletano… in quante lingue canti?
Ho molta facilità con le lingue, diversi anni fa incisi un disco in cui addirittura
cantavo canzoni popolari svedesi! Ancora canto solo pochi pezzi in portoghese. Parlo
invece lo spagnolo, lingua in cui mi capita a volte di cantare, e pure il francese.
Anzi, forse nel prossimo disco ci sarà proprio un brano in francese!
Per concludere l'intervista, vuoi raccontarci un aneddoto
legato ad un tuo concerto?
Per me fu bellissimo uno dei primi concerti che feci nel
1999 al Jazz Gallery, a New York, che
è davvero molto piccolo e dunque i musicisti vedono benissimo chi c'è ad ascoltarli.
Cantavo con Ronnie Mathews, un grande musicista e grandissima persona con
cui ho condiviso molte cose e che mi manca molto [è scomparso nel giugno 2008,
ndr], Walter Booker e Jimmy Cobb. Avevo già iniziato a cantare
quando vidi entrare, spinto su una carrozzella,
Lionel
Hampton. Mi emozionai molto, e poi quando alla fine ci presentammo lui
mi disse che aveva un festival, il
Lionel Hampton
Festival, in Idaho, al quale mi invitò dicendo «Voglio che tu venga e che
tu canti "The Midnight Sun", abbiamo una house rhythm section con Hank Jones
al piano, John Clayton, Russell Malone e Jeff Hamilton!».
E infatti l'anno dopo, cioè nel 2000, sono andata
lì ed ho conosciuto Hank, che è stato per me importantissimo. Only in New York…
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Data pubblicazione: 07/10/2012
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