Con Arve Henriksen ci troviamo di fronte ad uno dei trombettisti
più creativi, innovativi e interessanti del panorama jazz contemporaneo internazionale.
La voce musicale del suo strumento è unica e inconfondibile, e se "Sakuteiki"
omaggiava ed esplorava le sonorità degli strumenti a fiato giapponesi (shakuhachi),
"Chiaroscuro" s'è rivelato essere un assoluto capolavoro di musica contemporanea,
con echi nordeuropei e brani in cui l'autore ci cimenta alla voce con risultati
di rara bellezza.
In questo terzo disco l'artista sembra voler coniugare le sue due anime:
i flauti giapponesi dell'opera da solista e le atmosfere oscure ed elettroniche
dei Supersilent.
Il titolo, "Strjon" ("acqua fluente")
è il nome medioevale dell'odierno "Striyn", il villaggio nativo di Arve, situato
su un fiordo della costa occidentale norvegese: una terra di ghiacci, di pace, di
natura estrema, che permea di sé le composizioni. I titoli stessi rendono manifesta
questa volontà di evocare la natura magnifica che ha accompagnato l'infanzia dell'artista
(montagne, foglie, rocce, ghiacciai, acqua, vento, ecc.) in un percorso che si mostra
più che mai interessante ed originale.
Arve inizia a 16 anni a incidere su audiocassette sequenze elettroniche
improvvisate, poi passa al Dat, quindi al Minidisc, ecc. L'idea dell'album nasce
dalla volontà di recuperare l'ingente materiale raccolto in 20 anni di registrazioni,
inserendolo in un percorso storico dai sapori antichi e moderni al tempo stesso
(a tratti ricorda la mitologia dei vichinghi mediante l'uso dell'elettronica).
Ad aiutarlo e a coordinare la registrazione è Helge Sten, guida
e produttore di questa avventura, alla quale partecipa anche, in paio di brani,
Ståle Storløkken (i tre artisti sono l'anima dei Supersilent, gruppo
molto più elettronico e trasgressivo).
Con lo sfondo costante delle voci della natura del Nord, il disco inizia
con sonorità ruvide ed oscure, quasi a voler evocare l'anima dei Supersilent
(grazie all'influenza di Helge che a tratti si cimenta alla chitarra), che
via via lasciano spazio alla poetica di Henriksen. Verso la metà si distinguono
in modo evidente le tracce registrate con Ståle Storløkken (che alle tastiere
risulta sempre molto originale) e prosegue con echi di musica sacra, barocca, medioevale,
per terminare con un paio di brani di rara bellezza in cui Henriksen ci cimenta
anche alla voce (a tratti angelica, quasi "bianca", a tratti gutturale, quasi "sciamanica").
In conclusione, ci troviamo di fronte a un disco che ha davvero poco di
jazz (se si pensa allo swing o al bebop), ma che ha nell'anima il
Dna del Jazz e della musica contemporanea: la voglia di esplorare, rischiare, improvvisare
e far sognare l'ascoltatore…
Luca Vitali per Jazzitalia
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Data pubblicazione: 11/05/2007
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