Intervista a
Robert Glasper
Barletta, 4 luglio 2006
di Adriana Augenti
Lo attendo nella hall dell'Itaca Hotel di Barletta, dove ha passato la
notte assieme al suo trio dopo essersi esibito nel fossato del Castello Svevo per
la rassegna "Art'n Barletta". Mi affaccio all'esterno: tra i tre ragazzi in avvicinamento
non è difficile riconoscerlo.
Classe '78,
Robert Glasper
è nato a Rochester, sull'Ontario, ma ha passato gran parte della sua infanzia
a Houston, per poi trasferirsi a New York.
Ha gli occhi vispi, che ridono, un'andatura beccheggiante ed un sorriso
furbo che pare avvisare: "so il fatto mio".
A
suo nome ha all'attivo due album:
Mood, con la
Fresh Sound new talent, e Canvas,
con la Blue Note, in cui oltre che dell'auspicio della voce di Bilal,
già presente anche in Mood, si avvale per due brani della collaborazione
di Mark Turner.
A parte gli album a suo nome vanta diverse collaborazioni, con Russell
Malone, con
Terence Blanchard, per cui ha suonato l'hammond e il fender rhodes
in Bounce (Blue
Note, 2003),
Mark
Whitfield, Carmen Lundy, con cui si è esibito al leggendario
Ronnie Scott's di Londra, al teatro "Madrid" di Los Angeles …
Anche lui sembra aver capito che sono io quella che lo stava aspettando
e mi viene incontrato, rafforzando, se possibile, il suo sorriso sfrontato.
"Scusami se ti ho fatto aspettare (10 minuti), ma eravamo andati a farci una
passeggiata al mare. Avrei voluto farmi il bagno, ma non avevo con me il mio costume
…"
Oltre ad aver ascoltato i suoi album mi sono anche letta un po' di cose
su di lui, ma …
Adriana Augenti: Come
sei arrivato alla musica?
Robert Glasper:
Perché ho iniziato a suonare? In realtà il mio primo vero interesse è stato lo sport,
diciamo nella fase di crescita. Mia madre era una pianista ed una cantante. Oltre
a cantare in chiesa si esibiva anche in vari locali Blues. In pratica crescevo comunque
circondato dalla musica. dopo il sesto anno di scuola poi, l'interesse per lo sport
ha cominciato a scemare. Ero sempre più affascinato da ciò che faceva mia madre,
e spesso mi sedevo accanto a lei per vederla provare, e per provare. Quando poi
sono arrivato all'High School l'interesse si era fatto evidentemente più serio …
A.A.:
So che hai iniziato a suonare all'età di dodici anni. Ti sei dedicato sempre
e solo al piano?
R.G.:
Beh, a dire il vero ho suonato anche il clarinetto, a scuola a Houston, prima di
entrare nella High School of Performing Arts. Per cinque anni ho studiato
e suonato il clarinetto, ma poi ho capito che non era per me e sono tornato al piano.
A. A.:
Di te si sa che hai suonato diversi
generi, dall'Hip Hop, alla fusion, dall'elettronica all'acid jazz, al jazz … Come
sei arrivato a fare ciò che fai oggi, ciò che ascoltiamo in Mood e in
Canvas?
R.G.:
Io sono arrivato come prima cosa al jazz e solo dopo ho scoperto l'hip hop, per
dirne una, e ci ho provato. D'altronde non credo che sia un percorso molto inusuale.
Anche altri artisti, come
Herbie Hancock, sono partiti dal jazz per poi esplorare altri generi
musicali. Io ho iniziato a suonare in chiesa, jazz: il jazz è per me la "normalità".
A.A.:
Quindi si potrebbe pensare che ti stia stretto essere considerato "solo" un
musicista jazz …
R.G.:
Oh no! E' come dicevi tu: molte persone non sanno che io sono un musicista jazz.
Chi non ha ascoltato i miei lavori ha probabilmente udito il nome di Robert Glasper
associato a quello di Bilal, Q-Tip, Mos Def … ma io ho due
lavori a mio nome, e sono due lavori jazz. Ciò che io voglio suonare, ciò che di
mio voglio far ascoltare alla gente, è jazz …
A.A.:
Da buona tradizione jazzistica anche tu hai partecipato ed organizzato delle
jam session, a Brooklyn se non sbaglio. Che ricordo ne conservi, quanto sono state
importanti?
R.G.:
Le jam session … ne avevo ogni settimana. C'era un jazz caffè, ora chiuso, all'angolo
di casa mia, bastava che attraversassi la strada. Ci andavo il lunedì per le jam
vere e proprie, mentre ogni giovedì suonavo in trio. E' molto importante per un
pianista avere un posto dove suonare in trio, non ci sono molti posti che te lo
permettono. A me lo proposero loro, ed io non esitai ad accettare: è stato un ottimo
modo di fare pratica e di conoscere altra gente, altri musicisti. Ad esempio la
mia collaborazione con Bilal si può dire che sia cominciata così. Le jam
session sono importanti perché la gente ti ascolta, ed a volte è gente che può fare
qualcosa per te, specie se hai voglia di muoverti, di far ascoltare la tua musica
anche altrove: "Io vengo da … e lì ho questo locale. Mi piacerebbe averti lì,
ti lascio il mio numero se ti interessa" o "Posso avere il tuo numero?".
Però come tutte le cose non preordinate ha anche i suoi lati negativi. Non sempre
ti capita di suonare con musicisti validi, e per quanto l'idea di base non sia quella
di suonare per intrattenere il pubblico una "suonata" con musicisti così così non
è certo gratificante né produttiva. Inoltre a volte non hai la possibilità di scegliere
cosa suonare, e devi suonare ciò che decidono gli altri. A me, ad esempio, è capitato
spesso di suonare in una jam con Bilal come ho detto, ma anche con Russell
Malone, un grande musicista, con cui ho suonato spesso e con cui mi sono anche
divertito molto. Però succedeva che io avessi voglia di suonare un brano e che loro
non ne avessero voglia e …
A.A.:
Il primo album in cui compari è stato
Raw di
Mark
Whitfield, se non sbaglio, del 2000.
Tu però vanti molte altre collaborazioni illustri, tra studio ed esibizioni:
Roy Hargrove, Russell Malone,
Terence Blanchard,
Carmen Lundy … cosa pensi delle tue esibizioni con altri musicisti, cosa
ti hanno dato?
R.G.:
(ridendo) Vedo che sei preparata, Raw è davvero il mio primo album
… Le mie collaborazioni con gli altri musicisti? Le ho adorate! Con ogni musicista
io ho suonato in un modo diverso, ma sempre come me stesso, e per me è stato davvero
importante scoprire di poterlo fare. Ognuno di loro, ogni musicista, ha un suo proprio
stile, sente la sua musica in determinato modo, singolare rispetto agli altri. Sarebbe
stato frustante dover suonare sempre alla stessa maniera, specie se con un sound
"imposto". Io invece ho avuto la possibilità di pormi nei loro confronti e nei confronti
della loro musica come io volevo: mi sono chiesto rispetto ad ognuno cosa volessi
e cosa potessi dare con la mia musica per poter rendere il tutto ancora più speciale,
ed ho suonato non come Tizio o come Caio, ho suonato come me.
A.A.:
Come te! Veniamo alle tue scelte dunque: il piano trio! Un azzardo oggi come
oggi: la letteratura jazzistica ha già scritto ed approfondito molto, trattandosi
di una delle formazioni più esplorate ed approfondite della storia del jazz. Facile,
dunque, il rischio di paragoni, facile che ci si accosti all'ascolto pensando "Un
altro trio piano-basso-batteria! Cosa potrà mai dirmi che già non so, cosa farmi
ascoltare che non ho già ascoltato?" …
R.G.:
Ho scelto il piano trio perché trovo che sia la formazione più comunicativa per
molti motivi, compreso il numero di musicisti. E' più facile, su un palcoscenico,
che tre persone riescano a colloquiare tra loro più discorsivamente che cinque,
ad esempio: riesci a gestire i passaggi più velocemente, e quindi riesci ad arrivare
più velocemente al punto dove vorresti giungesse la tua musica.
I
paragoni e i dubbi di chi mi ascolta non mi spaventano: voglio esprimermi con la
mia musica e la formazione piano-basso-batteria è quella che mi sembra più appropriata
…
A.A.:
Allora perché Mark Turner?
R.G.:
Mark lo adoro. Ho suonato con lui in un'altra formazione. Fra l'altro abbiamo suonato
insieme in giro per New York, lui al sassofono ed io al piano, e ci è capitato di
suonare alcuni miei pezzi. In quelle occasioni mi diceva spesso che gli piaceva
suonare la mia musica, ed a me piaceva come lui suonava la mia musica. Quando sono
passato alla Blue Note loro mi hanno chiesto se avessi voluto qualche special
guest per il mio album ed io non esitato a rispondere che mi sarebbe piaciuto, oltre
Bilal, anche un sassofono, e ad indicare Mark come risposta
A.A.:
A quanto ho capito non ti infastidiscono i paragoni dunque. Quindi quando si
dice che hai un sound xxx-like tu …
R.G.:
Sono stato paragonato a diversi musicisti in diversi momenti: qualcuno ha detto
che suonavo come
McCoy Tyner, qualcun altro come
Brad Mehldau,
o come Chick Corea
… (ridendo) probabilmente, alla fin fine, suono come tutti loro, ma ciò che per
me conta, ciò che io realmente voglio, è suonare come me stesso …
A.A.:
Ma esiste qualcuno per cui ti piacerebbe che si dicesse "Robert Glasper suona
come …"? C'è qualche musicista che ti ha ispirato maggiormente, qualcuno a cui ti
sei ispirato maggiormente?
R.G.:
mmm … no! Non è vero, c'è, ma preferisco non dirlo. Specialmente alla radio mi fanno
questa domanda in continuazione, ed io ho sempre l'incubo dei titoloni che recitano
"Robert Glasper imita …". Non perché debba farlo tu, ma preferisco che chi
ascolta la mia musica senta e dica ciò che gli trasmette senza pregiudizi.
A.A.:
Poco fa hai introdotto appena il tuo rapporto con la Blu Note, ed io vorrei approfondirlo.
Tu hai registrato il tuo primo lavoro,
Mood, per un'etichetta
indipendente, la ‘Fresh Sound new talent', dopo di che, a distanza di poco più di
un anno dalla sua pubblicazione (Moods è uscito nel 2003,
Canvas nel 2005) sei stato chiamato dalla Blue
Note, sicuramente una delle etichette più prestigiose che ci siano. Cosa hai pensato
quando ti hanno cercato?
R.G.:
Ho provato due sensazioni praticamente contemporanee: da un lato grande gioia, felicità
e meraviglia, dall'altro paura ed incertezza, insicurezza di essere all'altezza.
Ho iniziato a chiedermi se ero bravo abbastanza, a passare ore in studio cestinando
un'infinità di accordi. Però la gioia è stata grande, anche perché penso di poter
crescere e migliorare anche grazie alla Blue Note, e poi credo sinceramente
che loro mi abbiano scelto per la mia musica.
A.A.:
Tu hai presentato Canvas
al Village Vanguard. Cosa hai provato ad essere lì, su quel palco?
R.G.:
E' stato molto bello, indimenticabile. C'è stato ogni sera il tutto esaurito.
La gente era entusiasta, e l'emozione che si prova ad essere su "quel" palco è indescrivibile
…
A.A.:
Cosa ci dici dei tuoi "compagni di viaggio", Damion Reid e Vincente
Archer e … e Robert Hurst?
R.G.:
Ho conosciuto Damion tramite un mio amico, ed abbiamo suonato un pezzo insieme
in una jam … dopo quel pezzo io ho lasciato la stanza facendogli credere che non
mi fosse piaciuto suonare con lui, poi sono rientrato e gli ho detto che stavo scherzando.
Abbiamo frequentato la scuola insieme per un anno, ed abbiamo cominciato a suonare
spesso. Da lì a pianificare il nostro lavoro il passo è stato breve. Vincente
… Vincente l'ho conosciuto in Italia, ad Umbria Jazz, circa cinque o
sei anni fa credo. Io ero lì con Russell Malone e Vincent suonava con
Donald Harrison. Chiaccherando mi raccontò di aver fatto il college a Boston.
Io avevo (ho) molti amici a Boston ed iniziammo a parlare di Tizio e di Caio e di
… Alla fine mi disse che sarebbe passato da New York e che ci si sarebbe fermato
per un po', un mese circa. Ci scambiammo i numeri di telefono e ci incontrammo lì.
Suonammo insieme di giovedì, uno di quei famosi giovedì di cui ti ho parlato, con
il trio di Damion, ed il risultato fu per noi tutti stupefacente. E' da allora che
va avanti questa relazione, con tutte le difficoltà che derivano dal fatto di essere
lontani e di avere tutti quanti noi anche altre band. Con Bob ho registrato
Mood. L'adoro e suonare
con lui è bellissimo, una grande esperienza: Bob è uno dei più sorprendenti e bravi
musicisti che conosca. Però non abbiamo mai avuto modo di suonare insieme spesso.
Con Vincente ho lavorato molto di più. Inoltre lui appartiene alla mia generazione,
ascoltiamo lo stesso genere di musica, come l'hip hop ad esempio, e quando suoniamo
posso dirgli che quel determinato passaggio lo vorrei fare nello stile di quel brano
fatto da … so che lui sa di cosa parlo. A volte, ad esempio, ci capita di prendere
le linee melodiche di base per un brano da un pezzo hip hop, e poi di lavorarci
sopra. C'è un feeling diverso rispetto a quello che avevo con Bob. Come potrei dire?
E' un diverso modo di "sentire" …
A.A.:
Grande feeling quindi! Ti senti leader di questo trio?
R.G.:
mmm … Sì! Sai, forse altri ti risponderebbero "Noooo!". Il fatto è che la direzione
che i brani devono seguire parte dal mio piano. Dopo, una volta partiti, ognuno
di noi guida il pezzo, il tema, col suo strumento. Però sono io a dare l'avvio al
tutto, gli altri mi seguono. Mi sento leader non nel senso di comando, ma
perché sono io ad orientare la melodia. Poi può anche capitare che Vincente suoni
qualcosa ed io lo affianchi, o che succeda con Damion … però io posso dire "basta!".
A.A.:
Canvas, con Archer
e Reid, è un album di brani originali, di cui tu sei il compositore,
a parte "Riot", un omaggio ad
Herbie Hancock. Quante restrizioni e quanti spazi liberi lasci nei tuoi
brani?
R.G.:
Oh pochissimi vincoli! A volte mi capita di dire a Damion, o a Vincente,
"su questo pezzo non suonare troppo" o "cerca di farlo più semplice che
puoi", ma la maggior parte delle volte io indico loro la linea di base e lascio
che ci costruiscano sopra col loro strumento, a secondo di ciò che sentono. Mi piace
lavorare con questi ragazzi perché mi piace ciò che sentono, e quello che preferisco
e dire loro "suona ciò che vuoi su questo, suona ciò che senti!"
A.A.:
Quando componi, quando scrivi i tuoi brani, segui qualche forma standard, hai
in testa semplicemente un tema, o …?
R.G.:
Non ho un metodo particolare per comporre. Amo le melodie, ed amo canticchiare per
dirne una. A volte mi capita che mi venga in testa qualcosa mentre sono per strada:
prendo il mio registratore portatile (il mio telefonino) e canticchio la melodia
nel microfono. Poi una volta tornato a casa lo riascolto e lo suono e ne viene fuori
il brano. Quasi tutto Canvas
l'ho composto così. Altre volte invece mi siedo al piano e comincio a delineare
degli accordi, e la melodia si modella su una serie di accordi che si susseguono.
A.A.:
Pensi di poter tracciare una linea separatrice tra i tuoi due lavori?
R.G.:
Sinceramente ritengo che entrambi esprimano uno "stato d'animo", un "mood" …
A dire il vero il mood inglese è difficilmente traducibile, definendo,
oltre al significato proprio della parola, il sentimento che vuol comunicare.
Sono passati più di quaranta minuti, tra risate, chiacchiere, pettegolezzi
… Per fortuna, forse, qualche domanda "pertinente" siamo anche riusciti a fargliela.
Guardiamo entrambi l'orologio e ridiamo di nuovo. Andando via dall'Itaca Hotel mi
scopro a canticchiare "Mood", con ancora nella testa la sua voce che intona
"Canvas" a labbra strette per mostrarmi come registra sul suo telefonino
…
Robert
Glasper, 27 anni, cresciuto a Houston, Texas, fu educato musicalmente
dalla madre, pianista in chiesa per accompagnare i cori gospel ed in club
per suonare jazz. Robert stesso a 12 anni suonava il piano in chiesa, esperienza
da lui riconosciuta come decisiva nella formazione artistica e spirituale.
Seguirono buoni studi prima alla Houston High School for the Performing
Arts (dove era passato anche Jason Moran) poi alla New School University
di Manhattan. Fu in quel periodo che Robert cominciò a suonare ad alti livelli:
fra i suoi compagni d’arte, Christian McBride, Russell Malone,
Kenny Garrett, Nicholas Payton, Roy Hargrove, Terence
Blanchard, Carmen Lundy e perfino, sul versante del pop, Carly
Simon. La partnership con Bilal portò Glassper a guardare anche
all’hip hop. Nel
2003
uscì il primo cd di Robert,
Mood,
per una piccola etichetta indipendente. Infine, ed è storia di oggi,
Canvas
ed il debutto in Blue Note, nello stesso tempo in cui per lui si sono aperte
le porte dei locali di New York più importanti: Secondo molti critici, il
suo debutto merita la stessa attenzione che si presta ai trii pianistici
contemporanei più stimati come quelli di Jason Moran, Brad Mehldau,
Bill Charlap.
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Data pubblicazione: 22/10/2006
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