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Intervista a Steve Kuhn, Eddie Gomez
e Billy Drummond

Mar del Jazz, 24 luglio 2006 - Mola di Bari
di Adriana Augenti

"Ho fumato per trent'anni, poi ho smesso di colpo il giorno in cui è morto Monk. Conosci Thelonious Monk?"

E' la voce di Steve Kuhn alle mie spalle.

Metto via la sigaretta sorridendo e gli porgo il braccio. Camminiamo così fino al palco, mentre Eddie Gomez passeggia accanto a noi.

Adriana Augenti: Com'è nato questo sodalizio?
Eddie Gomez: Come? E' una cosa che ci chiediamo ogni giorno: perché siamo qui? Credo che questa domanda sia già di per se una buona ragione …

Comincia così, ridendo intorno ad una tavola apparecchiata, la nostra chiacchierata. Dopo pochi minuti lo Steve Kuhn Trio offrirà un suono inequivocabile ed indelebile al pubblico ed al cielo di Mola di Bari.



Steve Kuhn: Conosco Eddie da molti anni. Spesso abbiamo suonato insieme e suonare con lui è sempre stato per me un privilegio, sotto molti punti di vista. Questo non può che essere un bene ed un buon motivo per farlo ancora oggi, credo. Con Billy (ndr. Drummond) ho lavorato per circa 15 anni, anche se lui è più giovane, appartiene ad un'altra generazione: ha iniziato a suonare molto giovane. Eddie ed io siamo più o meno della stessa generazione. Non mi chiedo il "perché": fare musica con questi ragazzi è "facile". Sono dei grandi talenti, e, nella maggior parte dei casi, è più semplice superare qualche difficoltà.

Eddie Gomez: L'idea di suonare insieme mi ha affascinato da subito, nonostante le difficoltà che si possono immaginare. Ognuno di noi è spesso altrove con il proprio gruppo: ad esempio a me capita di essere in Giappone quando gli altri sono in America. Ogni giorno siamo in posto diverso. Fare musica di un certo livello, di qualità, senza avere la possibilità di provare è certo difficile: la scelta di questo gruppo è una sfida in questo senso. Ma quando suono con loro mi sento veramente a mio agio. Credo che Steve intenda questo quando parla della facilità di superare le difficoltà.

A.A.: So che il vostro repertorio, ciò che voi proponete al pubblico, prevede molti standards e qualche brano originale. C'è un motivo in particolare per questa scelta? Non credete che suonare standards possa costituire un limite espressivo da un certo punto di vista?
S.K.:
Sì molti standard! Per me … io sono cresciuto ascoltando molti standards, e suonandone anche parecchi nel corso della mia carriera. La mia scelta è più che altro una sfida: i brani che ho deciso di suonare sono stati eseguiti milioni di volte da molti musicisti, famosi e meno famosi. Però a me piace pensare di essere in grado di riuscire a suonare quei pezzi oggi conferendogli qualcosa di veramente personale. Suono molti standards proprio per non sentirmi limitato, e cerco, con la mia interpretazione, di renderli interessanti tanto per me quanto per Eddie e Billy, di farli uscire dalla scatola in cui qualcuno, forse, li vuole racchiusi.

E.G.: A dire il vero all'inizio Steve mi disse di aver scritto tutti i brani, ed io rimasi sorpreso che fossero tutti sue composizioni … (poi, parlando in italiano) E' uno scherzo!

Billy Drummond: La scelta è impostata su brani che io trovo bellissimi, e c'è un altro fattore da considerare: quando si suona uno standard è anche facile che il pubblico riesca a riconoscerne il tema, ed a meglio valutare capacità e personalità di un musicista, per poi giudicarne (forse) meglio la bravura e la gradevolezza del concerto tutto.

A.A.: Beh, allora visto che di standards e di personale interpretazione stiamo parlando, prima di un vostro concerto, di una vostra esibizione, quanto è preparato, scritto se vogliamo, e quanto spazio è lasciato libero ad ognuno di voi?
S.K.: mmm … fondamentalmente nulla è preparato, e per le ragioni di cui abbiamo appena parlato. Neanche le base line. Di solito mi limito a segnalare il titolo del brano. Tutto il resto avviene sul palco, quando iniziamo un chorus ad esempio, ed ognuno di noi apre la sua "personalizzazione", spronando con la stessa gli altri a seguirlo ed al contempo a fare lo stesso.

A.A.: Tre grandi musicisti. Ognuno di voi ha vissuto un periodo molto importante della storia del jazz, e ne ha fatto parte in modo incisivo. Nelle formazioni storiche che vi vedono protagonisti l'elemento dell'improvvisazione è sempre stato molto forte e presente. Che cosa rappresenta questo per voi oggi?
S.K.: Molto forte soprattutto. L'improvvisazione è l'essenza della musica jazz. In altre parole, nel jazz si suona in modo diverso ogni volta, e non si sa quasi mai cosa sta per accadere: è sempre una sfida. A volte un lavoro può essere o semplicemente sembrare meglio di un altro, ma un musicista cercherà sempre di suonare in un modo anche solo un po' diverso. Per me l'improvvisazione è "creare nel momento", ora. Il passato è passato ed il futuro non è ancora arrivato. Il momento, momento, momento … creare "nel" momento, questo è per me l'improvvisazione.

E.G.: Sono sostanzialmente d'accordo con Steve. Viviamo in maniera molto piena: probabilmente ogni punto, ogni momento, ogni cosa di cui veniamo a conoscenza ha un significato … l'improvvisazione è la recettività di tutto questo.

B.D.: L'improvvisazione? Creare il momento e catturalo, riuscire a catturarlo …

A.A.: Cosa è cambiato oggi, in quest'oggi che vi vede suonare insieme, rispetto, ad esempio, al quartetto di John Coltrane degli inizi degli anni '60, al trio di Bill Evans, al sestetto di Horace Silver o del gruppo di Sonny Rollins?
S.K: Per me il jazz che noi abbiamo conosciuto, con cui siamo cresciuti ascoltandolo … Io non vedo niente di nuovo, di veramente differente dopo Ornette Coleman. Certo, ci sono fondamentalmente ottimi musicisti anche oggi, ma tutti quanti suonano sulla base di materiale già costituito. Non c'è nulla di realmente nuovo secondo me, nulla che possa neanche lontanamente essere paragonato a Miles, John Coltrane, Ornette, Charlie Parker … Chi, dimmi tu chi secondo te ha fatto delle nuove scoperte nella musica jazz dopo questi grandi? Io non conosco la risposta a questa domanda. Secondo me tutto ciò che stiamo facendo oggi è semplicemente provare a personalizzare la musica con cui siamo cresciuti e cercare di suonarne la nostra personale visione. Però non c'è nulla di realmente nuovo, non scopriamo nulla. E' solo come "presentiamo" la musica e l'interpretazione individuale di ognuno ad essere, forse, differente, ma non ritengo che ci sia qualcosa di veramente nuovo, diverso, nella musica di oggi.

B.D.: Per quanto mi riguarda, quando ho suonato in quelle formazioni che tu hai nominato, quella di Silver o quella di Rollins, ero molto giovane ed avevo poche esperienze. Sarebbe bello poter suonare con quei ragazzi ora sai, vent'anni dopo, con più confidenza, un po' più d'esperienza e una diversa posizione, visto che la mia attuale posizione è differente e migliore, almeno credo. Per il resto penso di essere d'accordo con Steve. Non credo che la musica abbia o debba necessariamente avere qualcosa di meglio. Intendo … Miles Davis e il suo quintetto degli anni sessanta, John Coltrane e il suo quartetto, qualche altro gruppo come questi … Non credo che ci sia qualcosa di meglio ora: è una sorta di culmine per la musica. Io per primo sono ancora nella fase di ricerca successiva a quel materiale, ma non ho ancora ascoltato nessuno che sia riuscito realmente ad ottenere quello che hanno ottenuto loro. Ci sono un sacco di ottimi musicisti, di grande livello, che potrebbero avere un carattere simile, ma per me … quando voglio ascoltare MUSICA quello è ciò che metto su.

E.G.: Ecco, io penso esista sempre questa dinamica di... del provare a trovare qualcosa di nuovo. E questo è il genere di cosa che in un certo qual modo cerchiamo di fare tutti noi con la musica; ma in questo contesto, in quello che facciamo, noi... beh, penso che generalmente nell'arte, il mondo stesso dell'arte si sia scontrato con un muro. E' davvero difficile inventare qualcosa di nuovo che sia davvero significativo, anche se questo non implica affatto il non provarci. A me piace trovare qualcosa di nuovo, almeno nell'espressione, sai, ma in un certo senso penso che Steve abbia assolutamente ragione. In generale penso che nel mondo (musicale) ... non ci sia granché da scoprire. Però c'è un sacco di nuova tecnologia, davvero meravigliosa …

A.A.: Nell'età della tecnologia e della tecnica assistiamo sempre più spesso a giovani (e non solo giovani) musicisti che si dedicano ad uno studio esasperato e meticoloso, spesso a discapito della melodia e dei suoni …
S.K.: E' una questione di cuore. Se la musica non la senti col cuore tutta la tecnica del mondo, tutte le cognizioni che puoi aver acquisito, non significano nulla. Potranno essere un valido esercizio, sì, ma solo quello. Devi suonare dal cuore e cercare di catturare il pubblico emotivamente. Per me questa è la cosa più importante nella mia musica, nella musica tutta. Non ha importanza quanto "veloce" suoni, quanto hai studiato e quanto hai imparato: quando fai musica tutto ciò devi sintetizzarlo. Devi imparare l' "arte", questo sì, ma dopo devi cercare di renderla tua attraverso la passione. Se poi vuoi anche che la tua musica venga ascoltata devi essere consapevole che molte persone non capiscono sempre che tecnica adoperi tu per suonare, non percepiscono le tue composizioni in senso stretto: loro interagiscono con l'emozione...

A.A.: Quindi tecnica da "dimenticare", passione sincera e … nessuna possibilità di un " nuovo"?
E.G.: Se vuoi ascoltare l'Opera, devi tuttora includere tra i tuoi ascolti Puccini, Wagner e Verdi, e puoi introdurre forse qualche nuovo lavoro … forse. Così per la musica classica: devi tuttora impegnarti a suonare Beethoven, e Ravel, e dovrai eseguire ancora … dovrai conoscere i classici, e poi potrai anche cimentarti in qualche nuovo lavoro. Però la verità è che la gente che ascolta la musica lo fa per ascoltare la sua essenza, l'essenza di tutto ciò. Ci sono persone che sono fin troppo concentrate sulla musica contemporanea, classica o jazz che sia, perché inseguono anche in quella il progresso, sono alla ricerca di un' "evoluzione". Ma la verità è che non esiste molto di tutto questo, come ha detto Steve. Non molto è propriamente nuovo. Dovremmo tornare al nocciolo del discorso di prima, quello da cui forse siamo partiti. Oggi noi abbiamo davvero abbattuto un muro: abbiamo automobili grandiose, macchinari sofisticati, stiamo facendo molte meravigliose scoperte in campo medico… E' tutto quanto questo che realmente interessa alla gente, che la stimola (alla ricerca). Ed infatti è ciò che sta succedendo. Il jazz, la poesia, l'opera … sono un museo. Beninteso, tutto ciò è grandioso: la gente torna o si dirige alla musica, alla poesia, all'arte, e queste, con buone speranze, sono sempre in vita. Una nuova essenza è …io non so dove sia, dove possa essere…


In piazza ad attendere lo Steve Kuhn trio c'è poco pubblico: una cricca di veri appassionati, qualcuno che si è trovato lì per caso e si è incuriosito, qualcun altro che probabilmente non aveva di meglio da fare. Mi viene voglia di girarmi verso qualche passante e chiedergli: "Ma lei lo sa cosa sta per succedere lassù, su quel palco? Sa chi sta per esibirsi?". Lascio perdere! E' evidente che non in molti lo sanno. Lì per lì mi viene da pensare "peggio per loro!", ma non è semplicemente così …

Le note di "There's no greater love" ci accolgono genuine, e mettono subito a proprio agio quanti del pubblico sembrano poco interessati al concerto. E' però col secondo brano, "Like Someone In Love", che i maestri catturano definitivamente l'attenzione di quanti sono lì per assistere alla performance di tre tra i più grandi jazzisti che la storia recente ha conosciuto. Come a leggere nel pubblico stesso, i primi due brani scorrono con semplicità, senza virtuosismi particolari, con pochi e concentrati soli. Poi l'energia aumenta, e già dal terzo brano il timbro del contrabbasso, struttura portante per tutto l'arco della serata, ci coinvolge su "Ladies in Mercedes" di Steve Swallow: un personalissimo e trascinante ritmo, presto seguito dal vigore della batteria di Drummond.

"The Jitterbug Waltz", eseguita quasi con un alternarsi di soli tra Kuhn e Gomez, si apre e si chiude esprimendo tutta la personalità del grande pianista che, dall'alto dei suoi 68 anni, non tralascia di palarci a sua voce di un'idea di colui che è stato il vero pioniere e grande maestro nell'uso dell'organo oltre che uno dei più grandi pianisti in stile Harlem : Thomas "Fats" Waller (New York, 21 maggio 1904 - 15 dicembre 1943).

Sembra che ogni musicista abbia scelto un brano per narrarsi, per narrarci. Le note si susseguono così, in un dialogo tra i tre fatto di sguardi reciproci, suoni e voci in cui anche noi siamo chiamati a partecipare. E così, su un brano di Kenny Dorham, spetta a Billy Drummond disegnare caratteri ed accenti del racconto. Poi è la volta di uno dei due brani originali della serata, "Love letter (to my father)", un messaggio senza parole che Eddie Gomez ha dedicato al padre scomparso. Le corde del contrabbasso iniziano ad essere accarezzate dall'archetto e nell'aria si avverte quel sentimento di malinconia che solo questo gioco di suoni riesce a creare. Poco dopo, sul medesimo brano, il piano di kuhn cambia l'atmosfera, svincolando gli accordi dalla tonalità, e Gomez passa al pizzicato, per poi tornare all'arco sul finale.

Notevolissimo l'interplay su "Stella by starlight" - che Kuhn dedica alla madre - in particolar modo tra piano e basso, che ormai parlano all'unisono. L'intesa si sposta tra piano e batteria per l'altro brano originale della serata, "Ocean in the sky", di kuhn. Il leader in questo caso lascia ampio spazio al batterista, che ne approfitta per un uso accentuato della gran cassa, quasi costringendo il pianista ad una heavy right hand. Interpretazione personale anche di un brano originale quindi, forse a discapito della liricità e delle caratteristiche del pezzo autentico, ma non certo della solidità del suono.

Nel bis il piano-trio espone un tema di H. Mancini, "Slow hot wind", dimostrando, ancora una volta nel corso della serata, che ritmica e melodie sono in grado di narrare tanto la linea armonica quanto un linguaggio solistico "collettivo".

Steve Kuhn, Eddie Gomez e Billy Drummond hanno inciso un unico lavoro insieme, *Waltz Red Side*, registrato nel 2002 e pubblicato dalla Venus Record, etichetta giapponese. Non sanno se ne faranno altri. Quando glielo si chiede tutti demandano al leader, e questi è volutamente vago nelle risposte. Ciò che è certo è questi tre ragazzi si divertono molto a suonare insieme ed il loro racconto risente di un dialogo sonoro con pochi pari.







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Data pubblicazione: 08/12/2006

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