Umbria Jazz 2004
di Vittorio Pio
foto di Giancarlo Belfiore
A Umbria Jazz si va per rendersi conto dello stato di salute del jazz anche se una recente indagine condotta dall'Abacus la pone al quinto posto assoluto nel novero delle manifestazioni musicali italiane.
Il cartellone firmato per "edizione 2004" dall'immarcescibile direttore artistico
Carlo Pagnotta è risultato quindi in perfetta coerenza con il nuovo corso generalista, dettato dalla necessità di riempire anche uno spazio molto grande come quello dell'Arena di Santa Giuliana. Quindi la matrice afroamericana è rimasta predominante, con fuoriuscite più o meno lecite nei territori accomunati dalla medesima radice black.
Il primo w-end per esempio, è stato sintomatico: B.B.King e Dr.John
hanno sciacquato i loro panni nel blues catartico che lo scorso anno è stato oggetto di ampie celebrazioni negli Stati Uniti, confermando l'ottimo stato di forma che ha proiettato addirittura quest'ultimo nei piani alti delle classifiche con il suo debutto per la
Blue Note, poi hanno passato il testimone a uno dei picchi artistici di questa trentunesima edizione, ovvero il magnifico concerto di
George Clinton, figura essenziale per comprendere l'evoluzione dei ritmi neri più bollenti e già fondatore di band seminali come
Parliament e Funkadelic. Oltre due ore di ritmi vorticosi dettati da ben ventidue elementi sul palco a citare contemporaneamente in causa James Brown e Miles Davis, il doo woop e l'hip hop, Frank Zappa e Count Basie nella medesima carica visionaria.
Spalleggiato dalle tastiere di Bernie Worrell (fondamentale nella svolta elettrica dei Talkin' Heads di David Byrne),
Clinton era lucido e pieno di spunti strappando un trionfo personale malgrado l'ora tarda, a causa della fin troppo macchiettistica esibizione del resto dei Blues Brothers che lo avevano preceduto.
Poi è toccato al golden trio di Jarrett, presente per la terza volta nell'arco delle ultime cinque edizioni di UJ con l'animo finalmente rilassato dopo i capricci degli anni scorsi. Non c'è stato il tutto esaurito malgrado un indice di gradimento molto alto, propiziato dall'imprevedibile resa dell'italianissima " Un'ora sola ti vorrei", popolare negli Usa come del resto dalle nostre parti a metà degli anni '30. Ancorato su quell'antica melodia. Jarrett ha proseguito in scioltezza mostrando di aver ritrovato completamente le forze, così come lo stesso
Peacock dopo la difficile operazione che ha dovuto subire nel recente passato.
Il solito magnifico pilastro è invece
DeJohnette e così l'interplay che si rinnova fra i tre ha sempre del prodigioso, sopratutto quando il contatto con la tradizione jazz è più evidente, nella ripresa di classici dai repertori di Bud Powell, Frank Sinatra e Sonny Rollins, assai più sfuocato se Jarrett professa il culto della personalità, come ribadito dalla sfuocata sequenza in solitudine che ha chiuso il suo brano "One For Majid", prima dell'aureo bis concesso con una rapsodica versione di "When I Fall In Love".
Se Jarrett continua ad essere un oggetto di discussione, un totale vanto per il festival è stata l'esibizione della
Liberation Music Orchestra di Charlie Haden rinforzata dalla presenza di Carla Bley, comunque indissolubilmente legata alle fortune dell'Ensamble. Il grande impegno sociale che guarda alle imminenti elezioni presidenziali americane con una decisa presa di posizione contro
Bush nella conferenza stampa e alla realizzazione di un disco la cui uscita è prevista per la prossima primavera in un concerto capace di coniugare con emozione ed efficacia inni terzomondismi, composizioni degli stessi leader, pagine sublimi come "Steady Girl" dell'amico Bill Frisell e schegge dai repertori di Dvorak fino all'ovazione finale.
Detto della retoricità ai limiti del consentito da parte di Milva nel suo omaggio a Piazzolla e della inconsistenza sul palco di
Michael Bublè, buono solo per chi di musica ne mastica poca, Umbria Jazz 2004 ha vissuto un'altra serata di straordinaria grazia nel concerto tenuto dal formidabile compositore
Burt Bacharach: qualsiasi contingenza economica di un povero mortale potrebbe essere risolta da una sola delle straordinarie canzoni uscite dalla sua penna. Un esempio? "Raindrops Keep Fallin' From My Head", "I Say A Little Prayer", "On My Own", perle di una scaletta che ha fatto venire gli occhi lucidi alla generazione di mezzo. Lui dall'alto dei suoi 76 anni ben portati è ancora lì che suona il pianoforte, l'aspetto del
tombeur de femmes malandrino cui tocca cantare anche quel tema di "Alfie" poi portato al grande successo da Sonny Rollins. Un concerto memorabile che per alcuni versi ha ricordato l'incontro tra
Sting e Gil Evans nel 1987.
E se i Manhattan Transfer sono stati perfetti per quanto algidi,
James Brown è apparso meno brillante rispetto alla passata edizione, del resto da un uomo che ha vissuto così intensamente come lui non ci si possono aspettare sempre dei miracoli. Passo indietro anche da parte di Dee Dee Bridgewater, che forse sapendo di essere la più brava fra tutte le varie
Norah Jones e Diana Krall che oggi circolano, ha pensato di vivere di rendita non preparando al meglio questo progetto
Latin Soundscapes. La pronuncia spagnola è un po' scarsina e temi apparentemente facili come "Quizas, Quizas, Quizas", hanno finito con il delinearne tutti i limiti.
Sul palco anche il sopravvalutato David Sanchez ed
Ignacio Berroa, formidabile ultimo batterista della United Nations Orchestra
di Dizzy Gillespie, alla cui memoria è stata dedicata in finale una scoppiettante resa di "A Night In Tunisia". Nonostante questo ruggito, Miss Dee Dee dovrà applicarsi ancora.
Tra le giovani promesse del soul una buona impressione ha suscitato Alicia Keys, una che in America è già un fenomeno grazie ai 5 Grammys portati a casa per "Songs In A Minor", il suo disco d'esordio. Da sola al piano la Keys ha regalato la parte migliore di se, ricordando Aretha Franklin, sogno che sembra destinato a rimanere impossibile per Umbria Jazz. Nei break con il gruppo i ridondanti arrangiamenti e le trite mossettine sexy hanno finito con il confondere le acque mentre l'implacabile servizio di sicurezza personale si aggirava fra la platea sequestrando ogni mezzo di illecita registrazione con azioni ai limiti della ferocia. La ragazza si farà comunque.
Un altro destinato a un brillante futuro è di certo
Francesco Cafiso, che abbastanza misteriosamente sembra spadroneggiare la sintassi del bop nonostante le origini siciliane che non sono propriamente la cinquantaduesima strada di New York. A Perugia ha suonato tutti i pomeriggi dopo i bei film di Bruce Ricker, seguiti da un ristretto numero di "carbonari", beato di poter vedere sullo schermo immagini inedite di Eric Dolphy (addirittura in una misteriosa per quanto eccitante collaborazione con John Cage!) Bill Evans e Charles Mingus tra gli altri, con un buon seguito di pubblico suonando veloce gloriosi anthem di Charlie Parker. Le sue doti sono indubbie, forse i dolori arriveranno tra poco quando dovrà elaborare uno stile personale, in tal caso sarebbe consigliabile più che un soggiorno all'estero la militanza al fianco di qualcuno dei nostri jazzisti con maggiore esperienza. Ma per il momento è giusto non sovraccaricarlo di responsabilità perché la musica rimane prima di tutto un piacere.
Per restare nel paradigma, grande emozione ha suscitato il ritorno in Italia di
Jackie McLean, dopo una serie quasi infinita di acciacchi fisici: "Mc Attack" era tra i preferiti di
Miles Davis e Bud Powell e a guardarlo sul palco anche nelle sue tribolate settantadue primavere si capisce il perché. Il lessico è intatto e quello che manca in carica interpretativa viene sostituito dalle finezze che la sua lunga militanza gli suggerisce. Il figlio
Renè aveva uno sguardo sospeso tra l'ammirazione e la commozione ogni volta che finiva un solo: il quasi doveroso rimando a Monk, con la delicata resa di
'Round Midnight resterà negli anni a tutela di chi nei giorni ruggenti del jazz c'era per davvero.
Un altro splendido veterano è Hank Jones pianista insigne che forse non è un beniamino del pubblico come
Ahmad Jamal ma che in quanto a gusto e sensibilità non ha niente da invidiare ad alcuno. Insieme a Joe Lovano nell'affascinante territorio delle ballads, l'unico sopravissuto alla gloriosa dinastia di famiglia è stato superbo sia in fase di accompagnamento che negli spot in solitario. Diverso nell'approccio, assai più ritmico e irregolare,
il set di
Jahmal ha riscosso un consenso al limite del credibile nell'austero mondo del jazz, con vertici di pura estasi nella furibonda cavalcata di "Poinciana", vero marchio di fabbrica.
Scintille anche dal doppio confronto tra gli estri chitarristici di Pat Martino e la ritrovata ispirazione di John Scofield che adesso suona trasversale ma senza troppi effetti al seguito, con le spalle coperte da
Bill Stewart e Steve Swallow,
una ritmica con i fiocchi che ha inchiodato la platea del Morlacchi fino alle prime luci dell'alba.
Ottimo anche l'esordio di Rosa Passos, una cantante brasiliana di cui è follemente innamorato (sempre dal punto di vista artistico) un'icona come Ron Carter e che ogni sera al Teatro del Pavone, rinnovava il suo personale omaggio a Joao Gilberto, Tom Jobim e Veloso, doppiando la carezzevole voce con l'ausilio della chitarra acustica.
Sempre tra i sudamericani piuttosto ordinario il set di
Ivan Lins mentre UJ ha salutato da autentico fuoriclasse (anche dal punto di vista umano)
Guinga, un artista malinconico che avrebbe potuto essere protagonista di una pellicola di Truffaut, per la naturalezza con cui ha suonato fino alle lacrime pensando alla figlia lontana, coinvolgendo così tutta la platea e un musicista di grande sensibilità come Gabriele Mirabassi che gli stava al fianco. Il concerto faceva parte della serie a cura dell'Egea, l'etichetta perugina che persegue con volontà e coerenza questa via mediterranea al jazz, con altri bei concerti di Bebo Ferra, Marco Zurzolo ed Enrico Pieranunzi con il suo nuovo progetto orchestrale.
Del super-quartetto guidato da
Hancock e
Shorter troverete ampio spazio in altra parte del sito, una certa delusione è invece arrivata dal quintetto di
Kurt Rosenwinkel che malgrado gli eccellenti solisti di cui poteva disporre (Brad Mehldau e
Joshua Redman tra gli altri), non ha invece offerto una prestazione altrettanto convincente riguardo ai contenuti.
Tutt'altra forza invece nei set di Marc Ribot e i Bad Plus, la cui dirompente visionarietà ha permesso persino un accostamento tra i Queen di "We Are The Champions" e Stevie Wonder.
Il finale piuttosto che al pianismo acrobatico di Hiromi e Michel Camilo, è tutto appannaggio dell'infinita classe di un signore che si avvicina alla soglia degli ottant'anni ben sapendo che una nota in meno ha più valore di un arpeggio supersonico: è ancora il maestro Renato Sellani, il cui tocco limpido è da ritenersi un vero privilegio per chi lo ascolta.
27/08/2011 | Umbria Jazz 2011: "I jazzisti italiani hanno reso omaggio alla celebrazione dei 150 anni dall'Unità di Italia eseguendo e reinterpretando l'Inno di Mameli che a seconda dei musicisti è stato reso malinconico e intenso, inconsueto, giocoso, dissacrante, swingante con armonizzazione libera, in "crescendo" drammatico, in forma iniziale d'intensa "ballad", in fascinosa progressione dinamica da "sospesa" a frenetica e swingante, jazzistico allo stato puro, destrutturato...Speriamo che questi "Inni nazionali in Jazz" siano pubblicati e non rimangano celati perchè vale davvero la pena ascoltarli e riascoltarli." (di Daniela Floris, foto di Daniela Crevena) |
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Data pubblicazione: 02/11/2004
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