Umbria Jazz Winter #26 Orvieto, 28 dicembre 2018 - 1 gennaio 2019 di Aldo Gianolio
foto di Alessandra Cotugno
click sulle foto per ingrandire
È stata applicata la solita azzeccata formula anche per l'edizione
numero 26 di Umbria Jazz Winter, a Orvieto: centosettanta musicisti, molti dei quali
artist in residence, un centinaio di concerti quasi sempre tutti esauriti,
sia quelli principali nelle consolidate sedi del Teatro Mancinelli, del Museo Emilio
Greco e delle Sale del Palazzo del Capitano del Popolo (Expo e 400), sia quelli
di musica varia gratuita del Palazzo dei Sette (dove si è esibito, fra gli altri,
l'eccellente
Nick
the NightflyQuintet che ha presentato il recente CD "Be Yourself")
e dei ristoranti San Francesco e Il Malandrino (in quest'ultimo ogni notte, sino
alle ore piccole, si sono svolte jam session affiancando l'ottima resident band
composta da Piero
Odorici e Daniele Scannapieco ai sax, Andrea Pozza
al piano, Aldo Zunino al contrabbasso e Anthony Pinciotti alla batteria).
Inoltre ogni giorno i Funk Off hanno sfilato per le vie del centro della
Città con il loro festoso e spettacolare mix di funky e tradizioni musicali di New
Orleans, si sono tenuti i concerti gospel del New Direction Gospel Choir del Tennessee
che al teatro Mancinelli e nel Duomo dopo la Messa di Capodanno. Da non dimenticarsi
anche la vetrina offerta ai giovani jazzisti vincitori del Conad Jazz Contest e
del Berklee/Umbria Jazz Clinics Group Award, tenutisi nella edizione estiva del
festival.
I concerti principali, che abbiamo seguito solo fino al 30 dicembre (escludendo
quindi The Big Easy Trio di Mauro Ottolini, il duo di
Fabrizio Bosso
e Julian Mazzariello, il piano solo di Ethan Iverson, il quintetto
di Giovanni Guidi, il duo di
Paolo Fresu
e Danilo Rea e lo spettacolo Viva/De Andrè), si sarebbero dovuti
incentrare, oltre che su alcuni dei più rinomati artisti italiani, su due pianisti
americani fra i maggiori della storia, mettendo a confronto due generazioni distanti
fra loro, la classe 1929 di Barry Harris (uno dei padri del be bop) e la
classe 1943 di Ethan Iverson (fondatore e componente per decenni dei
Bad Plus);
ma Harris è stato male, ricoverato in ospedale, e ha dovuto dare forfait (venendo
sostituito nelle varie performance previste in cartellone dallo stesso Iverson e
da Dado
Moroni).
I concerti più impegnativi sono stati
quelli (ripetuti) con l'Umbria Jazz Orchestra che, sotto la direzione di Iverson,
ha eseguito suoi arrangiamenti di brani del repertorio di
Bud Powell
nel progetto "Bud
Powell In The 21 Century". Sul palco anche una sezione ritmica energica
e al contempo elegante con Ben Street al contrabbasso e Lewis Nash
alla batteria, e due solisti, in aggiunta allo stesso Iverson al piano, di grande
valore: Dayna Stephens al sassofono tenore e Ingrid Jensen alla tromba,
oltre che alcuni solisti della medesima orchestra, come Giovanni Hoffer a
cui è stata affidata l'intera interpretazione di "I'll Keep Loving You" da lui (e
dall'arrangiamento di Iverson) trasformata in un sofisticato Concerto per Corno
francese.
Lo stile di Iverson, al piano, risente delle influenze di Fred Hersch,
Keith Jarrett
e Red Garland, attualizzate recuperando un certo pianismo colto contemporaneo (Schnittke,
Copland, Rzewski); ognuno dei suoi elaborati arrangiamenti costituisce un tessuto
fitto e denso, suddiviso in tante coloriture a tinte forti o sfumate a pastello,
facendo indovinare svariate ascendenze, da Gil Evans a Gerald Wilson, da Klaus Ogerman
a alcuni compositori colti occidentali (Jason Eckhardt, Thomas Adès), baluginando
nei temi originali la profondità di un linguaggio stratificato storicamente che
così viene intelligentemente recuperato alla contemporaneità.
Dado Moroni,
che ha sostituito Harris nei frangenti in cui doveva suonare in trio (con Ben
Street e Lewis Nash), si è calato alla perfezione nella parte, attualizzando
il bop che con Harris sarebbe stato più legato ai canoni ortodossi, perché Moroni
traduce con una tecnica straordinaria (che non si avverte, tanto è naturale) un
grande "sapere" della storia e degli stili del jazz, che gli fa "attualizzare" il
bop di Powell sia recuperando quello che è venuto dopo (il modale di Mc Coy Tyner),
sia quello che c'è stato prima (lo stride di James P. Johnson). Moroni mescola tutto
con sapiente disinvoltura in un debordante linguaggio personale pieno di swing,
uno swing teso e moderno, pieno inoltre di groove e sorprese ritmiche, intrecci
contrappuntati e complicate progressioni armoniche.
Degli italiani, in cartellone quattro fra i massimi trombettisti oggi in attività:
Enrico Rava
(classe 1939), Paolo Fresu (1962),
Flavio Boltro
(1961) e Fabrizio
Bosso (1973), la cui bravura (confermata ancora una volta a Orvieto)
li colloca ai vertici del jazz mondiale.
I quattro sono stilisticamente accomunati da un linguaggio derivativo del bop, accomodato
attraverso le esperienze, le personalità e i caratteri musicali personali, sempre
comunque esprimendo un solismo lineare e appassionato dal forte impatto emotivo.
Rava e Fresu hanno entrambi come modelli di riferimento Miles Davis e
Chet Baker:
Rava che li media attraverso la sua frequentazione del free jazz, soprattutto la
lezione di Lester Bowie, espressi in un sistema compatto di moduli diversamente
aggregati con un atteggiamento diretto e schietto e un pathos intenso, lirico e
appassionato (prediligendo il suono aperto della campana, senza sordine); Fresu
invece portando all'estremo il bel suono che riempie di risonanze sentimentali,
un suono limpido, privo di vibrato, spesso ammorbidito dall'uso di una sordina Harmon,
su cui si innesta un fraseggio rilassato, ma inesorabile nel procedere esatto e
chiaro pur nella sua complicatezza, con enfasi del registro medio e riferimenti
a Kenny Wheeler e Clark Terry, raggiungendo compiutamente una sua propria compostezza classica
in improvvisazioni mai melodicamente spigolose, quasi cantabili, tutte con il gusto
vivace della soluzione inattesa, senza discostarsi da una diffusa grazia melodica.
Bosso e Boltro invece sono influenzati da Davis solo in minima parte, trovando invece
la massima ispirazione in Clifford Brown e nei suoi diretti succedanei, come Lee
Morgan, Donald Byrd e Freddie Hubbard, impostando così uno stile possente, dall'attacco
perentorio, dalla sonorità calda e squillante e da un fraseggio agilissimo, sovente
spettacolare e che spesso sconfina nel virtuosismo, però mai fine a sé stesso (e
all'occorrenza sa diventare estremamente idilliaco e pastoso, soprattutto nelle
ballad).
Rava si è esibito in un quartetto di tutte stelle guidato dal contrabbassista
Giovanni Tommaso (che per l'occasione ha celebrato i suoi sessant'anni di carriera),
con Danilo Rea al pianoforte e
Roberto
Gatto alla batteria, insieme interpretando più o meno famosi temi da
colonne sonore (di Rota, Morricone, Bacalov), chiamando lo spettacolo "La dolce
vita". Le performance hanno dato corso a un jazz perfettamente equilibrato dove
i musicisti si sono trovati a meraviglia riuscendo a conferire una continua forza
espressiva in una specie di rapita souplesse: tutti bravissimi e sciolti, con Rava
in primo piano per la bellezza della sonorità ferma, morbida nei toni medi, penetrante
negli alti e ricca di pathos (suonando il flicorno, non la tromba), per le linee
melodiche chiare e avvincenti che fanno trasparire una costante tensione alla ricerca,
per lui ancor oggi indefessa, di qualcosa di inedito.
Fresu invece si è presentato con "Mare Nostrum", che è il titolo di due CD
usciti per l'Act nel 2007 e nel 2016 (sta uscendo il terzo), con
Richard Galliano
alla fisarmonica (bandoneon) e Jan Lundgren al contrabbasso: titolo programmatico
di un jazz che si è spostato verso le atmosfere tranquille e gli accenti smorzati
delle musiche sorte nei calmi territori vicini al mare (uno per ogni componente),
dove Fresu esalta ancora di più il suo senso lirico unendolo alla sensibilità tutta
francese di Galliano e la lucida cristallinità nordica di Lundgren in una fitta
conversazione a tre, perfettamente equilibrata.
Boltro ha proposto il BBB trio, composto oltre che da lui, da Mauro Battisti
al contrabbasso e Mattia Barbieri alla batteria (le tre B corrispondono alle
iniziali dei cognomi): la mancanza del piano (o comunque di uno strumento armonico)
concede più libertà al trombettista che quindi spazia con grande foga, mantenendo
le basi stilistiche prima esposte, con un solismo ancora più moderno, dall'approccio
irriverente, a tratti audace, sia nei ritmi serrati che dilatati, diventando fondamentale
la perfetta reciproca interazione ritmica e dando una colorazione particolare (conforme
alla contemporaneità) con l'uso sapiente (ma parco) delle elettroniche, che all'occorrenza
contribuiscono a creare una matassa avvinghiante di suoni allucinati.
Se Boltro aggiorna il bop con istanze stilistiche contemporanee, Bosso lo
fa invece guardandosi indietro, trovando in questo piena e totale comunanza di intenti
con Mauro Ottolini, trombonista, arrangiatore e ideatore dello spettacolo
"Storyville Story", in cui vengono proposti celebri brani del repertorio del jazz
tradizionale e classico. Entrambi rendono moderne le intonazioni hot tipiche del
jazz della tradizione (riprendono stilemi di Rex Stewart e Cootie Williams, Bosso,
di Kid Ory, Vick Dickenson e J.C. Higghinbotham, Ottolini, e usano pure sordine
plunger e wa-wa), avvalendosi dell'apporto di eccellenti musicisti:
Paolo Birro
al piano, Glauco Benedetti al contrabbasso, Paolo Mappa alla batteria
e la cantante Vanessa Tagliabue York, che si è superata in una interpretazione
splendida di "Swing Brother Swing", un pezzo del repertorio di Billie Holiday
che lo registrò in studio per la Vocalion nel 1939 e di cui esiste anche una meravigliosa
registrazione da una trasmissione radio effettuata al Savoy Ballroom di New York
nel 1937 con l'orchestra di Count Basie. Oltre al fasto gioioso che il gruppo trasmette,
rimane impressa nella memoria la tecnica portentosa di entrambi i solisti della
front line nel loro espletare un suono forte e brillante, una intonazione
perfetta, un attacco bruciante, una dinamica fluidità del fraseggio impostato modernamente
ad ampi intervalli.
Oltre al quartetto di Tommaso, un altro gruppo si è ispirato al cinema e alle sue
colonne sonore per costruire un jazz che si allontanasse un po' dalle forme fisse
tramandate dal bop, un gruppo formato da
Rosario Giuliani
al sax alto,
Luciano Biondini alla fisarmonica,
Enzo
Pietropaoli al contrabbasso e Michele Rabbia alla batteria: un
eccellente cast, lo si definirebbe, rimanendo in tema, se fossero attori. Nel loro
"Cinema Italia" le strutture non sono più le canoniche del mainstream, e anche lo
svolgimento è diverso e gli stili dei musicisti non sono omogenei: Giuliani è un
formidabile hard bopper alla Cannonball Adderley (ma più avanzato), Biondini si
rifà alla musica popolare (glielo impone lo strumento), Pietropaoli ha la cavata
classica buona per ogni genere e stile, Rabbia è un raffinato batterista sui generis,
più percussionista (di ogni tipo di percussione) che drummer, eterodosso nel suo
approccio. Ma nell'eleganza degli arrangiamenti i quattro inglobano le dissimili
finezze, colorazioni, tensioni e andamenti in un tutt'uno perfettamente coeso.
Per finire da segnalare l'ottima prova di un giovane sassofonista, Claudio Jr.
De Rosa (classe 1992), che col suo quartetto (dove anche compone e arrangia)
ha dato vita a un jazz fresco e swingante che ha come modelli Joe Henderson, Dexter
Gordon e Booker Ervin, perfettamente metabolizzati in uno stile personale.