Intervista a Piero Bassini
Dicembre 2008
di Giuseppe Rubinetti
«BASSINI, Piero
Pianista italiano (Codogno, 11.4.1952). Si è avvicinato alla musica molto giovane
suonando la chitarra, l'organo e il pianoforte. Ha svolto attività professionale
in vari gruppi rock e successivamente nei Rockys Fili, gruppo di rock progressivo
che negli anni '70 si esibiva come supporter
degli Area. Dall'età di 22 anni si è dedicato esclusivamente al jazz, esordendo
nel 1975 in un applaudito concerto di piano
solo al Festival delle Nuove Tendenze del jazz italiano presso l'Università Statale
di Milano. Nel 1980 ha costituito con il contrabbassista
Attilio Zanchi e il batterista
Giampiero Prina
l'Open Form Trio, con cui ha inciso «Old Memories», «Appointment in Milano», «Perpetual
Groove» e «Round Trip» (gli ultimi tre in collaborazione con
Bobby Watson). Seguiranno molti altri album, soprattutto in trio,
come «In the Shadows» (con Michele Bozza,
Giampiero Prina,
Gianni Crechi e
Luis Agudo),
«Nostalgia» (con
Furio Di Castri e Prina), «Intensity» (con Luca Garlaschelli
e Massimo Pintori). In piano solo vanno segnalati «Tonalità» del
1976 e «Lush Life» del
1991.
Nel suo pianismo si ritrovano echi diversi che vanno dal blues al gospel, dal jazz
alla musica contemporanea. Dotato di un tocco brillante e originale e di una notevole
tecnica, Piero
Bassini privilegia i tempi veloci con un caratteristico fraseggio legato
alla mano destra.»
Sfogliando il Dizionario
del jazz, curato da P. Carles, A. Clergeat e L. Comolli,
recentemente pubblicato da Mondadori, questo è quanto si legge a proposito del pianista
lombardo Piero
Bassini. Un riconoscimento doveroso per un musicista che, a partire
dalla metà degli anni '70, ha scritto una pagina
importante nella storia del jazz italiano e che ora trova una giusta collocazione
in quello che probabilmente è lo strumento di consultazione più aggiornato per quanto
riguarda il jazz e il suo universo. E tuttavia in questa sintetica descrizione viene
tralasciato qualcosa: in particolare due incisioni, entrambe distribuite da Splasc(h),
che offrono un saggio della maturità raggiunta da
Bassini.
In
primo luogo, Inner Dance (con Massimo Pintori
e Tito Mangialajo Rantzer): un lavoro composto quasi interamente da
brani originali (ad eccezione di Stella By Starlight) nel quale
Bassini
sviluppa la propria personale cifra stilistica, realizzando un pianismo virtuosistico
ma controllato, sempre lontano da qualsiasi tentazione istrionica. In questo lavoro,
forse non troppo conosciuto, il pianista lombardo conferma ed esalta un approccio
intimistico, dimostrando una capacità inconfondibile di evocare luci e ombre, di
transitare da un fraseggio istintivo e nervoso a regioni più serene e riflessive.
Il secondo album che viene tralasciato dai curatori del dizionario è
Live in Iseo (con Mauro Sereno e
Massimo
Manzi), lavoro sicuramente più conosciuto di Inner Dance, che
ha tra l'altro riscosso un grande consenso dalla critica. Segnalato dalla rivista
Musica Jazz tra i migliori dischi del 2005,
Live in Iseo è un altro importante documento, questa volta dal vivo, della
maturità raggiunta dal pianista, della sua estetica sofisticata, depurata da qualunque
retorica. Ascoltando questi due album, ma anche i precedenti, ricaviamo il ritratto
artistico di un pianista che insegue con determinazione un'espressività incisiva
e priva di orpelli, un ideale di musica in cui possano convivere le anime di
Bud Powell,
Bill Evans,
Oscar Peterson e
Chick Corea.
Incontro
Piero Bassini a Codogno, provincia di Lodi, dove il pianista vive
dalla nascita. L'intervista che segue è ricavata da una conversazione spontanea,
informale, non premeditata. Durante il nostro incontro,
Bassini
parla della situazione del jazz in Italia, dei suoi problemi, dell'«assolutismo
del mercato» e di quella che lui definisce una «mentalità di tipo feudale»
a suo parere molto diffusa negli ambienti jazzistici nazionali. Discutiamo di jazz,
ma anche di musica classica, di Mozart. Il pianista parla del suo amore per
la musica, della sua passione civile, ma anche del suo pessimismo, della sua sfiducia
nei confronti della società. Dice anche qualcosa a proposito di
Giovanni
Allevi, unanimemente considerato una specie di genio, il cui successo
per Bassini
dovrebbe venire in realtà interpretato come «un segno del degrado che investe
la cultura musicale italiana». Poi il discorso torna sul jazz. Accidentalmente
chiediamo un'opinione sui cosiddetti new standard, su un jazz che si confronta
con un repertorio tratto dalla musica leggera, pop e rock. È a questo punto che
Bassini
comincia a scuotere la testa. Accendiamo il registratore e…
Disapprovi queste operazioni?
Intendiamoci: non è da escludere la buona fede di chi decide di sperimentare una
cosa nuova. Questo da un lato. Dall'altro c'è la consapevolezza che, se sei alfabetizzato,
se hai familiarità con uno strumento, se hai dimestichezza con la musica classica
e suoni il jazz, questo vuol dire che sei anche capace di riconoscere in un brano
di musica leggera una struttura facile, infantile, elementare. E questo vuol dire
che, nella maggior parte dei casi, sai già in partenza il risultato che puoi ottenere.
Un risultato che, con tutta la buona volontà, risentirà sempre e comunque dei limiti
di quella struttura. È un po' come voler andare a duecento all'ora con una Fiat
Cinquecento mezza scassata. Quindi, senza voler denigrare gratuitamente, direi che
si tratta di progetti unicamente finalizzati a rendere più commerciale la musica
jazz, a riempire le sale e i teatri, ma limitati dal punto di vista musicale. Per
quanto ci possa essere sotto la buona fede di chi intende sperimentare nuove musiche
o rendere il jazz più accessibile, il risultato fa spesso pensare ad un intento
prettamente commerciale.
Probabilmente queste operazioni riflettono la condizione
del jazz in Italia, di una musica che, per sopravvivere, è disposta a svendersi.
Che ne pensi?
Penso
che viviamo in un paese in cui la cultura (e quindi la musica classica e jazz) è
diventata la Cenerentola della situazione. Voglio dire: in televisione, per fare
un esempio, sei fortunato se riesci a sentire un grande classico alle tre di notte
su Rai Tre. Il fatto che, a differenza di altre realtà, in Italia non si sia ancora
istituzionalizzata la cultura, che non si siano ancora trovate delle maniere per
tutelare il nostro vivente patrimonio musicale, quando ci sono personaggi dello
spettacolo che guadagnano in una sera quanto basterebbe per finanziare l'intera
edizione di un festival, ti fa capire tutte le difficoltà in cui si muovono i musicisti
jazz nel nostro paese. Quindi: più che condannare episodi magari troppo commerciali
o deboli dal punto di vista artistico, conviene spostare l'attenzione sulla reale
situazione della musica jazz nel nostro paese. E poi, di qui, si capiscono meglio
anche determinati fenomeni. Sia chiaro: non vorrei che si pensasse che per me il
jazz debba essere una musica "di nicchia". La stessa distinzione tra musica "per
tutti" e musica "di nicchia" è sempre una distinzione pericolosa e deleteria. Una
musica, potenzialmente, deve essere sempre accessibile a tutti. Se il jazz è di
nicchia, questo probabilmente dipende da uno scarso livello di alfabetizzazione
musicale. Inoltre l'accusa spesso rivolta al jazz di essere una musica elitaria
è ipocrita nella misura in cui serve a nascondere, dietro il presunto autocompiacimento
intellettuale di una minoranza, la realtà dei fatti: ossia, l'ignoranza e la mancanza
di sensibilità musicale proprie di questo paese. Cose che, ancora una volta, dipendono
dalla mancata tutela e da una scarsa promozione musicale. Se tutto è dominato dal
mercato, dallo share e dalla pubblicità, è logico che a nessuno interessa promuovere
una musica che, volente o nolente, è minoritaria; e questo perché si andrebbe incontro
a risultati disastrosi da un punto vista commerciale. Ma se la musica e la cultura
in generale restano affidate ad una logica di mercato, la situazione che si crea
è quella del gatto che si morde la coda. Nessuno promuove la cultura, perché nessuno
la capisce e, quindi, nessuno è disposto a "comprarla". La conseguenza però è che,
in questo modo, la popolazione sarà sempre più analfabeta, sempre più incapace di
apprezzare un linguaggio culturalmente complesso, e la promozione culturale sarà
destinata a essere sempre meno conveniente dal punto di vista economico. Stando
così le cose, il jazz, ma anche la classica, rischiano di scomparire, o di trasformarsi,
appunto, in fenomeni di nicchia.
Ma davanti a questa situazione, davanti al dato di fatto
che la musica "di massa" – quella che vende e che riempie le sale – è tendenzialmente
portata ad appiattirsi su di un livello qualitativamente basso, come si deve comportare
un musicista che si ritrovi abbandonato nella giungla del mercato? Voglio dire:
è meglio che il jazz preservi la propria identità anche a costo di rinchiudersi
in una nicchia, o deve piuttosto tentare di convivere con la logica del mercato
discografico cercando magari di assecondare le esigenze di un pubblico non alfabetizzato?
Il jazz è il jazz, come la musica classica è la musica classica. I cosiddetti linguaggi
"culturali" sono quello che sono. Voglio dire: Beethoven ha scritto nove sinfonie;
se le capisci, se ti dai da fare per comprenderle, probabilmente ne apprezzerai
la grandezza. Altrimenti, sono affari tuoi, peggio per te. Il punto è che un grande
linguaggio, se non vuole rinunciare alle proprie ambizioni, non ammette delle scelte
di compromesso. Ripeto: sapendo che la situazione oggi è dominata dal mercato che
regna incontrastato, non spetta al jazz scendere a troppi compromessi; questo vorrebbe
dire condannarlo all'estinzione, farlo morire nella ricerca di un consenso impossibile.
La soluzione è la tutela di un bene culturale, la sua istituzionalizzazione. In
Italia si dovrebbe fare come in Francia o in Germania, dove lo stato si fa carico
di preservare la produzione culturale, finanziando e sponsorizzando i festival jazzistici,
quelli di musica classica o di musica contemporanea, per evitare che si avveri il
principio puramente quantitativo del mercato. Voglio dire: siamo nella situazione
in cui la maggior parte della gente fa fatica, non dico ad apprezzare, ma a sopportare
un concerto tonalissimo di Mozart, scritto più di duecento anni fa! Questo
la dice lunga sul grado di preparazione e di sensibilità culturale. Se lo stato
non intervenisse a sostenere questi linguaggi cosiddetti "alti" o "di nicchia",
probabilmente tutto verrebbe affossato in un oceano di canzonette. Immagina la situazione
di linguaggi più complessi, molto più difficili e astrusi, di musiche da tempo incamminate
verso l'atonalità …
Quello che stai dicendo è che, nella realtà odierna, il
jazz, che era nato anche con un atteggiamento di rifiuto nei confronti della musica
"bianca" europea, si ritrova in qualche modo alleato con la musica classica proprio
nel comune rischio di estinzione?
Allora, andiamo con calma. Il jazz non è nato come un rifiuto della musica occidentale.
Anzi: è stato fin da subito legato alla tradizione occidentale. Il jazz che cos'è?
È una musica nata dall'incontro di elementi tribali africani con le tessiture armoniche
e melodiche di matrice europea. Questo è, tra l'altro, il significato della definizione
di musica afro-americana. Una musica sicuramente di origini umili, tant'è che inizialmente
veniva suonata nei bordelli; ma che col tempo si è evoluta, si è raffinata, appropriandosi
del sistema temperato europeo e reinventando quella tradizione al punto da creare
qualcosa di nuovo, qualcosa di specifico e mai sentito. Insomma il jazz è sicuramente
figlio della tradizione musicale bianca, ma, allo stesso tempo, è anche irriducibile
a quella tradizione. Ad esempio, il jazz si basa su di una concezione armonica decisamente
innovativa; è una musica che esige una continua modulazione, un continuo alternarsi
di tonalità maggiori e minori. A differenza della musica europea, al cui interno
le composizioni si definiscono anzitutto a partire dalla tonalità (per esempio,
un concerto in la maggiore di Mozart, una sonata in do minore di Beethoven), nel
jazz esiste soltanto un tema iniziale che però funziona più che altro come una traccia,
come un'indicazione; al di là del tema, l'uso della tonalità è profondamente rivoluzionato.
E
però queste due anime del linguaggio jazzistico, quella bianca-europea e quella
nera-africana, nella storia continuano a confliggere, a contendersi il ruolo principale.
Mi sbaglio? Voglio dire: nella storia del jazz si vede un continua oscillazione
tra chi tenta di assimilare il jazz alla tradizione europea e chi invece usa questo
linguaggio al fine di affermare e ricercare un'identità più specificamente nera.
È un conflitto irrisolto?
Come dicevo, la fusione di elementi tratti dalla tradizione europea e di elementi
africani è proprio ciò che caratterizza l'origine del linguaggio jazzistico. Ma,
allo stesso tempo, questo impasto riflette in qualche modo la reale condizione delle
popolazioni africane negli Stati Uniti. Non più semplicemente africani, ma africani
immersi in una realtà occidentale. Le due anime del jazz, quella bianca-europea
e quella nera-africana, fuse da un punto di vista musicale, rappresentano allo stesso
tempo la condizione reale degli afro-americani, di un popolo che cerca la propria
identità in una terra che è, da un lato, una terra straniera, ma che dall'altro
è comunque diventata la sua nuova patria. L'identità culturale che emerge dal linguaggio
jazzistico è quella afro-americana. Quella di un popolo originariamente africano
che viene forzatamente trapiantato in una terra occidentale. Ma anche quella di
una cultura occidentale, di matrice europea, che entra in relazione con un'identità
e una cultura di provenienza africana. Prendi ad esempio
Bill Evans:
un grandissimo pianista bianco, con una formazione classica e una cultura per così
dire europea, che è intervenuto nella storia del jazz, inventando l'armonizzazione
funzionale, e innovando il linguaggio jazzistico a partire però da una struttura
che era già stata ampiamente codificata dai neri. Forse è stato uno dei musicisti
bianchi più apprezzati e stimati dai neri. Il fatto che, ad esempio, fosse l'unico
musicista bianco a suonare in Kind Of Blue
la dice lunga sulla grande stima che avevano per lui grandi jazzisti della statura
di Miles Davis o
John Coltrane.
In ogni caso, tutta la parabola evolutiva del jazz – dal dixieland allo swing, al
be-bop, all'hard-bop, al cool jazz – non sarebbe stata possibile se all'interno
di questo idioma, all'interno di questo incontro tra tradizione europea e musica
africana, non ci fosse stato un potenziale molto forte, un humus molto ricco di
possibilità, ma anche la volontà di riscatto di una razza considerata, anche soltanto
fino a pochi anni fa, una razza inferiore. Ebbene questa cosiddetta razza inferiore
alla fine ha inventato un linguaggio, inizialmente snobbato dagli accademici europei
che, però, col passar del tempo e anche con il contributo e della tradizione musicale
europea, si è evoluto fino a diventare uno dei linguaggi musicali più importanti
del secolo. Una musica bistrattata fin dalle origini, probabilmente anche a causa
di quel significato politico, di quella volontà di riscatto che in essa veniva riconosciuta.
E infatti, quando poi hanno capito che questi quattro neri disgraziati – cioè
Charlie Parker, Dizzy Gillespie, Max Roach e
Bud Powell
– avevano creato qualcosa di sconvolgente e inaudito, che cosa hanno fatto? Hanno
inventato il rock and roll.
Consideri il rock and roll come una reazione al jazz, una
specie di controriforma musicale?
Esattamente, come una reazione della società bianca americana, finalizzata non solo
a soffocare un linguaggio musicale travolgente, ma anche ad arginare il "pericolo"
di un'affermazione dei neri, a contenere la minaccia di una cultura afro-americana
che aveva in sé dei significati di protesta contro il primato e la violenza dei
bianchi americani. Voglio dire: se, per assurdo, il jazz lo avessero inventato a
Salisburgo, pensi che sarebbe stato così osteggiato? È evidente che un linguaggio
del genere, con questo potenziale, con una ricchezza e una simile forza evolutiva,
non sarebbe mai stato bistrattato, se in esso non fosse stato riconosciuto un qualche
significato politico, una minaccia per una società che tendeva ad opprimere i neri
e a contrastarne ogni forma di emancipazione. E, infatti, è proprio con Parker,
Gillespie, Powell e Roach che il jazz ha attraversato un periodo
fondamentale di trasformazione e di elevazione culturale.
Archie Shepp
ha definito Charlie Parker il Mozart degli afro-americani. E aveva ragione:
Parker è il genio per antonomasia della storia del jazz. Lui, insieme a Gillespie,
Powell e Roach, ha trasformato radicalmente il linguaggio jazzistico; ha portato
quella che ai tempi era principalmente una musica da ballo e d'intrattenimento a
diventare una forma di espressione artistica autonoma. L'improvvisazione, ad esempio,
prima consisteva soltanto in un'aggiunta di fioriture al tema principale; con Parker
l'improvvisazione acquisisce un altro significato e diventa centrale. Insomma, quella
che era una musica che serviva fondamentalmente a far divertire la gente diventa,
in questo periodo, una musica concertistica, una musica non più da ballare ma da
ascoltare. Parker ha ribaltato la morfologia del linguaggio, e il jazz, da quel
momento in poi, viene ascoltato non più in piedi, ma seduti, con lo stesso rituale
della musica classica.
Ma perché questo avrebbe dovuto scatenare una reazione?
Probabilmente perché questo a qualcuno non andava giù. Il fatto che il jazz si potesse
trasformare in una musica con la "M" maiuscola, al pari della musica europea, voleva
dire riconoscere ai neri una dignità che andava oltre la sfera strettamente artistica
o musicale. E infatti, da quel momento in poi, è iniziato il massacro. Il jazz,
che veniva suonato nelle grandi sale, si è rintanato negli scantinati, nei club.
È questa l'origine dei jazz club ancora oggi diffusi, cosa credi? Non si deve pensare
ai jazz club come a dei posti raffinati, colti, pieni di gente snob. Forse lo sono
oggi. In realtà il jazz veniva suonato nei club, che al tempo erano poco più che
degli scantinati, per il semplice motivo che non lo si poteva suonare nelle sale
o nei teatri. Il jazz, finché era una musica da ballo e d'intrattenimento, veniva
accettato e suonato in bellissime ed enormi sale; nel momento in cui si eleva e
diventa un linguaggio culturale, finisce invece per rappresentare una minaccia,
perché pretende un riconoscimento che la società non è disposta a concedere. Il
jazz club è il simbolo di una musica che non veniva approvata dalla società, una
musica che rappresentava la volontà di riscatto e di riconoscimento dei neri, e
che il razzismo di quel mondo ha ricacciato in scantinati pieni di fumo e di gente
ubriaca.
Insomma, il jazz ha avuto storicamente un forte significato
civile. Ha ancora senso oggi attribuirgli questo significato?
Adesso la situazione è cambiata. Il jazz è stato riconosciuto ed è diventato una
musica "accademica". Nei conservatori di tutto il mondo si insegna la musica jazz.
Pensi che questo sia un bene? Qualcuno potrebbe obiettare
che nell'accademismo invece rischi di perdersi la spontaneità del jazz, quello spirito
originario che lo ha da sempre caratterizzato.
Da un lato questo è sicuramente un rischio. Ma penso che, se hai qualcosa da dire,
se hai delle idee valide, questo non ti dovrebbe creare dei problemi. Anzi: se hai
alle spalle un'accademia che ti mette a disposizione degli strumenti culturali,
che ti permette di padroneggiare il linguaggio in una maniera più consapevole, è
tanto di guadagnato. Dipende tutto da quello che hai tu da spendere, dalla tua capacità
di servirti di quello che ti può venire messo a disposizione dall'insegnamento scolastico
o accademico. In ogni caso, possiamo dire che finalmente il jazz è stato riconosciuto
come un grande linguaggio. Un linguaggio che ha la profondità, la complessità e
tutti gli attributi per poter avere un riconoscimento di carattere culturale. E
anche in Italia oggi molti conservatori prevedono dei corsi di musica jazz: si insegnano
gli standard, si insegna l'armonizzazione funzionale, si studia Ellington, Parker,
Bud Powell,
Bill Evans,
come si studia Beethoven, Mozart, Bach, e via dicendo. Questo
è sicuramente un bene.
Non pensi che però questo possa aver cambiato il modo di
fare jazz? Nel momento in cui il jazz non è più una musica di protesta, non è più
legata ad esempio alla necessità di riscatto dei neri, e viene riconosciuta anche
accademicamente …
Ci sono tutti i presupposti perché il jazz sia ancora una musica di protesta; e
questo perché il mondo non è migliorato. Anzitutto, la stessa esistenza del jazz,
come quella di tutti i linguaggi culturali, implica un rifiuto di quella legge per
la quale ha diritto ad esistere solo ciò che si legittima in termini quantitativi
e di mercato. Ma, soprattutto, il jazz è strutturalmente una musica rivoluzionaria.
Da un lato il jazz ha avuto il riconoscimento culturale che gli spettava, ma dall'altro
continua ad essere una musica fondamentalmente libera, una musica che ha in sé,
fin dalla sua nascita, la rivendicazione di un diritto di resistenza, anche oggi.
Al di là della vicenda storica degli afro-americani, a cui il jazz è comunque legato,
questa attitudine alla protesta sopravvive, nonostante tutti i riconoscimenti culturali
e accademici che ha ricevuto. Dipende da noi, da chi la suona, valorizzare il jazz
in questa direzione. Adesso siamo in un momento in cui il mondo in generale è fermo,
in tutti i sensi. E questo si ripercuote in qualche modo anche sul jazz. Prendiamo,
ad esempio, un grande, un grandissimo come
Keith
Jarrett, un musicista strepitoso, con una padronanza tecnica formidabile:
vediamo però che sembra essersi seduto.
Jarrett,
che dal punto di vista strumentale è ineccepibile, dal punto di vista della proposta
e dell'innovazione sembra non spingere più come una volta. Lo ascolti che fa gli
standard, e dici: «suonassi io un decimo di come suona lui, ci metterei la firma».
Però, allo stesso tempo, proprio in ragione della sua statura, ti senti in diritto
di pretendere qualcosa di più, perché gli riconosci la responsabilità, la pretesa
e il dovere di fare cultura, di osare e di innovare un linguaggio che ultimamente
si è un po' fermato. Purtroppo anche lui negli ultimi anni sembra essersi affidato
ad una formula, che sicuramente riempie i teatri e fa vendere migliaia di biglietti,
ma che, appunto, non dice molto dal punto di visto della proposta e dell'innovazione.
C'è però sicuramente un effetto positivo in questo. Ed è quello di avvicinare i
giovani al jazz, di introdurre delle persone totalmente digiune ad una musica che
vale la pena di essere scoperta e conosciuta.
Vuoi dirci qualcosa del panorama jazzistico italiano? Quali
sono i musicisti che ti piacciono?
Be'… mi piace molto
Piero Bassini,
Piero Bassini,
Piero Bassini.
E poi c'era anche un altro pianista … come si chiamava? Ah già:
Piero Bassini.
Un po' di autopromozione non fa mai male, giusto? Ovviamente sto scherzando. Di
musicisti italiani validissimi ce ne sono molti. C'è
Enrico
Pieranunzi,
Antonio Faraò
che è bravissimo. Diciamo che
Faraò
e Flavio
Boltro sono i veri fuoriclasse del jazz italiano. E, tra l'altro, il
caso di Faraò
mostra molto chiaramente cosa non funziona nella realtà italiana, la mancanza totale
di un qualsivoglia criterio meritocratico. Cioè la situazione è quella per cui,
se sei amico dell'amico dell'amico dell'amico, allora suoni a Umbria jazz; se non
hai amici tra gli amici, allora scordati di suonare.
Faraò,
che è bravissimo e che in Italia è quasi sconosciuto, suona a Berlino, a Barcellona,
a Parigi; vince il primo premio al concorso internazionale
Martial Solal,
e ci si chiede se in Italia siamo diventati tutti sordi. Poi invece abbiamo
Enrico Rava
che per ventisette volte è nominato miglior musicista italiano: forse c'è qualche
problema. Precisiamo:
Enrico Rava
ha portato avanti molti progetti interessanti, ha registrato per Manfred Eicher
e questo è già una garanzia; ma che il jazz italiano sia
Enrico Rava,
Paolo Fresu,
Stefano
Bollani, e nessun altro, mi sembra abbastanza riduttivo nei confronti
dei restanti duecentocinquanta musicisti italiani. Non vorrei che questa sembrasse
partigianeria solo per il fatto che io appartengo ai restanti duecentocinquanta.
Il punto è, come ho mostrato con l'esempio di
Faraò,
che in Italia c'è qualcosa che non va: non si riescono a valorizzare i talenti e
non si riesce a dare spazio a quei musicisti, magari anche più bravi dei soliti
noti, che però non godono della stessa riconoscibilità. Questo ci riporta ancora
una volta a quello che dicevamo all'inizio sulla mancanza di promozione e di tutela
del nostro patrimonio artistico-musicale. In Italia si ragiona solo in termini di
mercato, ma il mercato – sembrerò impopolare – non è necessariamente meritocratico.
La mancanza di supporti per così dire istituzionali crea una situazione per cui,
oltre ad essere bravo, devi anche essere il manager di te stesso. Ed essere il manager
di te stesso non significa soltanto che devi saperti vendere al pubblico come se
fossi un dentifricio o una nuova marca di assorbenti da pubblicizzare – cosa già
abbastanza difficile e penosa –, ma vuol dire anche che devi essere in grado di
coltivare delle relazioni, delle amicizie, per restare all'interno del circuito:
non è detto che tutti debbano esserne capaci o averne voglia. Voglio dire: se sei
bravissimo, preparato, innovativo, ma non sei capace di promuoverti a trecentosessanta
gradi, rischi anche di morire di fame nel cortile di casa tua. Un sistema di promozione
culturale sano ed efficiente dovrebbe poterti risparmiare queste fatiche, e lasciare
spazio soltanto alla tua reale proposta musicale.
Quest'anno a Umbria jazz hanno suonato anche i R.E.M..
Pensi che sia stata una scelta sensata?
Voglio dire: i R.E.M. sono anche bravi, simpatici. Per carità, non li voglio denigrare.
Solo mi si spieghi cosa c'entra un gruppo rock all'interno della principale manifestazione
jazzistica italiana! Se io andassi a suonare con il mio trio ad un festival di musica
rock, probabilmente verrei cacciato a calci nel sedere. Il punto è che non solo
i musicisti italiani non vengono sufficientemente tutelati, non solo ai festival
si tende sempre a privilegiare gli americani indipendentemente dalla qualità della
loro musica; in più succede che, per ragioni puramente pubblicitarie, si invitino
ai festival jazz dei musicisti che con il jazz non c'entrano nulla: oltre al danno,
la beffa! Qualche anno fa, sempre ad Umbria jazz, è stato invitato persino Elton
John. Ma che senso ha? Faccio inoltre presente che, con quello che è costato
il suo cachet, si potevano far suonare tutti i migliori jazzisti italiani per chissà
quanti anni.
Parlaci di te, della tua musica. Come sei arrivato ad elaborare
il tuo stile personale?
Be'... io posso dire di essermi formato al Capolinea di Milano. Un posto che era
veramente un'istituzione, un tempio del jazz.
Franco D'Andrea,
Enrico
Pieranunzi, Giovanni Tommaso: in questo posto trovavi praticamente
il jazz italiano. Addirittura potevi trovare musicisti della levatura di
Chick Corea
che cenavano dopo il concerto. Purtroppo questo posto non esiste più. Ma è qui che
sono cresciuto. Ma in quei tempi il jazz italiano era un'altra cosa: suonavi ai
festival, registravi, venivi riconosciuto. Dovevi lavorare seriamente per essere
considerato; ma, se riuscivi a dimostrare quello che valevi, ti apprezzavano molto
più di oggi. Oggi a un giovane musicista, preparato, talentuoso e originale, consiglierei
di andarsene, di cambiare paese. La situazione è molto peggiorata.
Nonostante l'enorme numero di festival jazz in tutta Italia?
Nonostante la nascita di luoghi come, ad esempio, la Casa del jazz di Roma?
Sono tutte cose positive. Ma bisogna guardare alla mentalità che domina nell'ambiente
jazzistico. Ad esempio, i milanesi suonano solo a Milano, i torinesi a Torino, i
romani a Roma: c'è come una chiusura campanilistica, una mentalità di tipo feudale.
C'è un individualismo endemico: è questa la ragione per cui consiglierei ad un giovane
di andarsene. Tutti si sentono i primi della classe. In realtà dovrebbe esserci
un atteggiamento più solidale. Siamo, per fare un numero, trecento jazzisti in Italia?
Bene, uniamoci, aiutiamoci, cominciamo a farci riconoscere nella nostra identità
artistica e professionale, stabiliamo dei minimi sindacali per gli ingaggi, chiediamo
che ai festival nazionali ci sia una presenza importante di musicisti italiani,
di giovani. Insomma: tuteliamoci! Questa è la mia opinione. Ma perché questo non
è accaduto? Per un individualismo diffuso, per il narcisismo di chi ormai ha assicurati
trecento concerti all'anno, per uno spirito generale di competizione. Se si fosse
consolidata invece un'altra mentalità, se tra musicisti ci si fosse riconosciuti
come appartenenti ad una stessa categoria, probabilmente oggi anche per un giovane
sarebbe più facile sentirsi tutelato e, quindi, emergere. Giusto i conservatori,
che in passato sono stati tanto ostili al jazz, rappresentano un progresso nella
situazione del jazz italiano. Se c'è una cosa che, rispetto ai tempi della mia formazione,
è migliorata in Italia, questa cosa sono i conservatori. E però anche qui c'è un
paradosso. Perché, da un lato, è migliorata la qualità e la preparazione dei musicisti;
è radicalmente aumentato il loro numero, così come l'offerta di buona musica. L'altra
faccia della medaglia è che, a fronte di questo miglioramento, nei festival e nelle
manifestazioni, rispetto al passato, viene forse lasciato meno spazio ai musicisti
italiani. Questo è davvero insopportabile!
Piero Bassini, ormai sei un musicista maturo e apprezzato,
un pezzo di storia del jazz italiano. Hai alle spalle numerose incisioni e importanti
collaborazioni. Ultimamente ti è anche stata dedicata una voce all'interno del Dizionario
del jazz edito da Mondadori. Ora parlaci dei tuoi progetti per il futuro.
Dopo la pubblicazione di uno dei miei ultimi lavori, Live in Iseo, che è
stato molto apprezzato, qualcuno ha scritto: «Gaslini, D'Andrea, Pieranunzi e
Bassini: i quattro pilastri del piano jazz italiano». Qualcuno però mi spieghi
perché, tra questi quattro pilastri, l'unico che fa fatica a trovare degli ingaggi
sia proprio Piero
Bassini. Mi piacerebbe che qualcuno rispondesse a questa domanda. Da
un po' di tempo ho anche un piccolo problema alla mano destra che mi dà qualche
noia. Speriamo che almeno questo passi in fretta. Ma tu mi chiedevi quali fossero
i miei progetti per il futuro, giusto?
Sì …
A Dio piacendo, suonare.
18/08/2011 | Gent Jazz Festival - X edizione: Dieci candeline per il Gent Jazz Festival, la rassegna jazzistica che si tiene nel ridente borgo medievale a meno di 60Km da Bruxelles, in Belgio, nella sede rinnovata del Bijloke Music Centre. Michel Portal, Sonny Rollins, Al Foster, Dave Holland, Al Di Meola, B.B. King, Terence Blanchard, Chick Corea...Questa decima edizione conferma il Gent Jazz come festival che, pur muovendosi nel contesto del jazz americano ed internazionale, riesce a coglierne le molteplici sfaccettature, proponendo i migliori nomi presenti sulla scena. (Antonio Terzo) |
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COMMENTI | Inserito il 9/3/2009 alle 11.38.47 da "alomood" Commento: Piero sei un grandissimo pianista, il tuo suono e' inconfondibile, spero di ascoltarti presto! Alessandro | | Inserito il 9/3/2009 alle 21.28.48 da "maxcampa" Commento: parole sante!sono pienamente d'accordo con te sei un grande saluti swinganti da max umile batterista di jazz | |
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Data pubblicazione: 08/03/2009
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