Intervista a Enrico Rava di Marco Losavio e Alceste Ayroldi
Enrico Rava inizia la
sua carriera di musicista a , dove suona con Maurizio Lama, Franco Mondini...erano
i tempi dello Swing Club gestito dalla Ninni. In quegli anni a Torino giunsero
molti musicisti e cominciava a delinearsi una certa avanguardia in cui lo stesso
Rava ne fu artefice e così si ritrovò a suonare anche con i
Detroit Free Ensamble, con Don Moye che aveva 18 anni...Poi andò a New York...
E.R.: Non ho deciso di andare a New York
bensì vi sono stato portato da Steve Lacy, nel '67.
Prima di New York siamo stati a Buenos Aires e dopo un anno di Argentina, mentre bassista e batterista,
Johnny Dyani e Louis T. Moholo, sono rientrati a Londra, Steve ed io siamo
invece andati a NY e lì ho deciso di rimanerci, vi ho fatto tutte le pratiche necessarie, la carta verde...Non è stato duro anzi, è stato tutto molto facile perchè sono arrivato con Steve che mi ha fatto molta pubblicità in quel giro che era il giro dell'avanguardia di allora pertanto mi sono trovato immediatamente a suonare con i grandi di quel circuito. Avevo rapporti quotidiani, di amicizia, con tutti i grandi di quel genere da Albert Ayler a Charlie Haden...suonavo nei loro gruppi, suonavo nella
Jazz Composer Orchestra. Chiaramente era un tipo di lavoro che non rendeva chissà che cifre, ma rendeva da sopravvivere...da musicista...da musicista povero, però andando nei locali a sentire musica si riusciva a non pagare magari perchè si conosceva la cassiera...Poi c'è stata una svolta in quel senso lì. Nel '72 ho fatto una piccola tournèe in Italia e mi sono reso conto che quei 4/5 anni a NY mi avevano fruttato moltissimo fuori dagli USA, in Europa in Giappone. Io non avevo idea di ciò ma quando ho telefonato al fratello di Maurizio Lama per chiedergli di organizzare una piccola tournèe, dopo una settimana mi ha ritelefonato e mi ha detto "Vieni, portati un gruppo
dall'America, non ci sono problemi" ed infatti siamo venuti ed è andata benissimo qui in Italia, abbiamo suonato in Francia ed è andata benissimo, mi ha cominciato a cercare l'ECM e lì c'è stata una svolta
assoluta del mio modo di vivere, ho cominciato ad essere un musicista che sta bene.
M.L.:
Ma quando hai deciso di fare il
musicista?
E.R.:
Ho deciso più o meno a 23 anni, è stato Gato Barbieri a darmi una spinta decisiva. Quando sono andato a NY io sono andato a vivere proprio a casa di Gato...NY è stata molto importante anche dal punto di vista pratico perchè in quegli anni un concertino anche con 50 persone rimbalzava sui giornali di tutto il mondo
come Jazz Magazine in Francia. Il fatto che io uscissi regolarmente nel referendum del
Downbeat in quegli anni su cui poi nel '76 ho avuto un'intervista di 4 pagine, mi hanno fatto la copertina, poi l'anno successivo di nuovo e ciò mi è servito tantissimo. Dal punto di vista del piacere mio personale mi è servito ancora di più, mi ha fatto stare molto bene.
Io ho vissuto il jazz a Torino da appassionato e poi mi sono ritrovato a NY, avevo Ornette Coleman che mi chiamava per fare le prove...i primi tempi stentavo a crederci, anche mentre camminavo per strada, vedevo i
taxi gialli e tutti questi personaggi che per noi italiani che venivamo da un'Italia molto pre-sessantottina, quindi molto grigia con molto
Vaticano, era una cosa strna...e solo vedere la gente come era vestita per strada, questi neri, i capelloni....era uno spettacolo e ci ho messo un po' per abituarmi. Purtroppo poi mi sono abituato ma i primi tempi era un vero divertimento 24 ore al giorno. Poi erano i tempi in cui suonavano ancora i grandi nei club. Nei club ho sentito
Monk, Miles, Jackie McLean quando era al suo massimo, Freddie Hubbard quando suonava benissimo,
Lee Morgan, tutti, Albert Ayler, Cecil Taylor, il gruppo di Archie Shepp, quello bello coi due tromboni...e uno usciva la sera ed aveva l'imbarazzo della scelta. E' però una cosa che è durata poco perchè poi verso metà degli anni '70 è cambiata la scena, è diventato tutto molto più commerciale, è venuto fuori il jazz rock.
E' arrivata un'onda che ha contribuito al taglio di tutti i fondi per la cultura....e infatti nel '78 sono tornato in Italia con tanti dubbi ma fortunatamente mi sono trovato così bene, anche in Europa, che non ho avuto più il desiderio di ritornare in America.
Per un periodo ho continuato a mantenere la validità dei documenti ma poi è diventato un problema perchè quando si ha la carta verde si devono pagare le tasse in America, non ci si può assentare per più di dodici mesi...insomma alla fine diventava troppo complicato e così ho rinunciato. Comunque ci vado spesso a suonare negli Stati Uniti...
M.L.:
Dall'avanguardia a fine esecutore di ballad, un percorso inaspettato...spesso
è stato il contrario se penso a lacy stesso o a Coltrane...
E.R.:
E' stato il percorso più normale e coerente...a volte è il contrario,
è vero, come per Steve (Lacy) che è partito dal Dixie, nel caso di Coltrane...magari è morto troppo presto altrimenti sarebbe tornato a suonare ballad che è la cosa che faceva meglio. Nel mio caso io sono uno con un fortissimo senso melodico ed anche quando suonavo avanguardia, facevo
free, io ero uno che cercava sempre di suonare delle melodie e forse questo è il motivo per cui pur essendo nella situazione in cui c'erano decine di altri trombettisti bravissimi, io lavoravo e avevo questa particolarità che probabilmente risultava attraente ai musicisti americani.
M.L.:
Forse derivava dall'essere italiano, dalla nostra cultura melodica...
E.R.:
Probabile...sicuramente, anche se non siamo gli unici ad avere questo senso melodico. Se si vedono gli altri europei sono molto pragmatici. Ma per la melodia e il calore siamo migliori. Infatti, se devo essere sincero, oggi i musicisti con cui mi diverto di più sono gli italiani. Mi diverto più a suonare con musicisti italiani che con quasi qualunque americano bravissimo. Recentemente ho suonato con alcuni americani bravissimi e rimpiangevo ad esempio
Rosario (Bonaccorso), dicevo "peccato che non c'è Roberto (Gatto)"...perchè
Roberto è uno che suona la batteria meravigliosamente...ha un controllo assoluto
dello strumento ma la fa anche cantare...Credo che oggi i nostri musicisti
italiani siano tra i più quotati in Europa, basti pensare che ovunque uno vada
in Europa trova sempre un italiano che suona, da
Fresu a
Boltro a
Bosso,
Di Battista,
Giuliani,
Pieranunzi,
Bollani sono d'appertutto nei festival europei. Gli unici europei che suonano fuori dal loro paese sono gli italiani. E' difficile trovare un tedesco al festival di
Marçiac, mentre invece io c'ero, c'era anche
Di Battista, c'era Riccardo Fassi. E' difficile trovare francesi ad un festival tedesco invece ci sono gli italiani. Al festival di Montreaux in Canada c'erano almeno dodici gruppi italiani. Per non parlare poi di questi ultimi, questo ragazzino fenomenale che è uscito adesso,
Cafiso, che è veramente straordinario, è un caso. A 15 anni neanche Parker suonava così, neanche Armstrong. Quindi se ha delle mancanze per ora gliele possiamo anche far passare senza problemi perchè a 15 anni, in generale, sono tutti in giro fuori a fare i "deficienti"...(risate)...e invece questo suona in modo pazzesco con una conoscenza di cose che non conosce...perchè non è uno colto di jazz. Io sono un grande appassionato e conoscitore di jazz, con migliaia di dischi, un sacco di storie e potrei anche scrivere un libro mentre Francesco no...quindi non è solo il suonar bene, lui queste conoscenze le ha dentro, non so da dove gli sono arrivate.
E' una cosa che gli è successa naturalmente. Daltronde se si volessero fare dei paragoni viene in mente, che so,
Glenn Gould che a dieci anni suonava il piano o Mozart che a tre anni si esibiva e uno si chiede da dove viene questa capacità.
I bambini che a dieci anni fanno dei calcoli matematici trascendentali...poi magari a ventanni non è più cresciuto però per ora abbiamo questo ragazzo che a gennaio, quando ero al Blue Note a New York e lui
era ospite del gruppo di Marsalis al Lincoln Center, ha fatto due soli al termine dei quali c'è stata una standing ovation, la gente si è alzata in piedi e ha applaudito. C'era Clark Terry che piangeva e
Percy Heath che a ottan'tanni è andato da lui e gli ha dato la mano ringraziandolo per le emozioni che gli aveva fatto provare. Quindi è un segno, vuol dire che c'è qualcosa che sta succedendo...
A.A.: Ci tieni molto ai giovani, hai messo in piedi il progetto
Rava Under 21...
E.R.: Ieri sera sono stato infatti all'inaugurazione a Porto San Giorgio, abbiamo suonato benissimo, la gente ha gradito molto...
M.L.:
Non credi che si possa correre il rischio di guardare più al fenomeno e poco alla persona...probabilmente voi, quelli che poi di fatto rappresentate in un certo qual modo il jazz italiano, dovreste tutelarlo un po' di più...
E.R.:
Sai, quando Cafiso è uscito aveva dodici anni e lo facevano già suonare nei festival. Io ero inizialmente contrario, perchè a dodici anni si è con i propri coetanei a giocare ma quando l'ho sentito ho capito che era un caso particolare, speciale...
M.L.:
Se prendessi la tromba in questo istante, qual è il primo pezzo che suoneresti?
E.R.:
Mi viene in mente...My Funny Valentine...
M.L.:
Perchè?
E.R.:
Non lo so...mi è venuto in mente quello...ma non credo che lo suonerò stasera...(ndr. l'ha suonato!)
M.L.:
Il proprio suono, quando lo si
ha, è l'elemento che identifica ogni musicista. Come si fa ad avere un proprio
suono, va cercato o si deve aspettare che arrivi?
E.R.:
Il suono è la propria voce, è la voce della propria anima. O uno riesce a mettersi in contatto con se stesso o niente. Ci sono grandi musicisti che non riescono comunque a mettersi in contatto con se stessi pertanto riproducono il suono di altri. Magari sono grandissimi, c'è tutta una schiera di nuovi trombettisti americani ipertecnici che però non hanno un loro suono. Normalmente un po' è lo studio dello strumento classico che porta a non trovare più il proprio suono perchè si ha un'idea astratta di quello che dovrebbe essere il suono puro dello strumento. Nel jazz di prima, parliamo degli anni
'20, praticamente non c'era nessuno che non avesse un proprio suono. Se uno sente
Bix ha un suono completamente diverso da quello di Armstrong il quale ce l'ha completamente diverso da quello di
George Mitchell che era il trombettista di Jelly Roll Morton...erano quasi tutti autodidatti e questa è anche un po' la caratteristica del jazz che era un po' una via dimezzo col folklore e come quasi tutte le musiche etniche, i musicisti hanno la loro tecnica che addirittura nascondono. Per esempio tra i musicisti africani c'è un flautista che ha una tecnica particolare che non consente di vedere cosa fa. E nel jazz era così, ad esempio
Freddy Keppard, che era uno dei grandi, il primo diretto discendente del capostipite che era
Buddy Bolden, suonava con il fazzoletto per non far vedere la sua diteggiatura e non ha fatto dischi per non permettere di essere
copiato, poi alla fine li ha fatti anche per soldi ma già non suonava più come agli inizi. Infatti non abbiamo un documento che ci faccia capire come suonasse Freddy
Keppard di cui tutti ci dicono meraviglie ma che dai dischi non c'è nulla di speciale poichè nel suo periodo d'oro non ha inciso
appunto per non essere copiato. Oggi è esattamente il contrario, tutti copiano e tutti si fanno copiare. Si creano dei modelli e più ci si avvicina a questo modello meglio è, un po' come i Giapponesi che hanno un concettto artistico lievemente differente dal nostro. Noi abbiamo un concetto dell'arte originale, mentre in Giappone c'è un modello come ad esempio il grande pittore
Hiroshige chi più si avvicina a lui più è considerato. E noi stiamo un po' diventando come i giapponesi e queste scuole che ci sono, come il Berklee, tendono un po' ad appiattire il tutto, anche se servono molto...
M.L.:
Di cosa ha bisogno la musica jazz in Italia?
E.R.:
Secondo me la musica jazz in Italia non funziona male...in Italia forse c'è più attività jazzistica rispetto al resto d'Europa. La differenza con la Francia è che lì, ad esempio, la musica è più istituzionalizzata. Il bello della Francia è che, essendo istituzionalizzata, non c'è pericolo che domani mattina cambia assessore a cui magari piace il tennis e non il jazz e quindi non da più una lira per la musica però nello stesso tempo la situazione è anche un po' più piatta. Ho molti amici musicisti francesi e
italiani che vivono in Francia, passano molto tempo a scrivere lettere perchè la burocrazia per ottenere questi vantaggi non è semplice...Da noi in Italia la situazione è un po' selvaggia, se vogliamo...Ma quello che veramente
serve in Italia è un'istruzione per lo meno minima nelle scuole, dalle elementari fino alla maturità. In questo gli Americani sono più attenti, in questo modo a 15/16 anni se uno vuole decidere di fare il musicista ha già una base, sa leggere la musica, magari suona uno strumento...Ma questa sarebbe l'unica cosa
che secondo me potrebbe servire perchè per il resto sono anche contrario che lo Stato si occupi troppo delle nostre cose
in quanto in genere nel momento in cui se ne occupa le cose peggiorano, si creano delle complicazioni. Delle cose stanno funzionando, ci sono dei sindaci come
Veltroni che amano il jazz. A Roma Veltroni è stato magnifico, ha creato un grosso pubblico, ogni tanto hanno fatto magari degli errori, come un'attività...esagerata...con il rischio di creare saturazione ma nell'insime non possiamo che ringraziarlo perchè
ha creato a Roma non solo lavoro, che è importante, ma un pubblico, che è fondamentale. D'estate c'è un concerto al giorno e sono sempre pieni, i giornali ne parlano e si crea così un circolo virtuoso...però istituzionalizzare le cose non mi piace, mi piace essere libero e sapere di non dover dare nulla in cambio...
M.L.:
La televisone potrebbe fare qualcosa?
E.R.:
Eh sì, la televisione è potentissima ma non possiamo farci più di tanto perchè comunque la televisione fa poi quello che vuole. Purtroppo ci sono dei direttori che ritengono che la musica non sia televisiva. E non è solo il jazz che manca, ma oramai anche la musica classica, quella sinfonica. Una volta li facevano, ricordo che Canale 5 comprava i concerti dalla BBC fatti in Inghilterra girati benissimo con la camera che andava esattamente sulla sezione di violini quando stavano suonando e non come capita normalmente che al momento del solo cambiano inquadratura...erano bellissimi e tutto ciò è sparito perchè nella mente di questi direttori che io ho avuto occasione di conoscere la musica non è televisiva...e questa è una grande...str...ma che ci vogliamo fare? Non possiamo forzare...non credo che un'istituzione possa obbligare più di tanto...loro si basano sull'auditel...comunque viviamo bene ugualmente...ci sono i dischi...ci sono altre cose che mi preoccupano come ad esempio il fatto che la Fnac francese ha deciso di non avere più di 300 titoli di jazz nei propri magazzini e ciò vuol dire che tutti i dischi che vendono meno di un certo tot risulteranno introvabili e questo è molto triste anche perchè la Fnac non è solo Francia ma anche Italia.
M.L.:
Al nome di Enrico Rava è spesso
associata la definizione "le note necessarie"...se non erro fu Joao Gilberto
a
dirti: "suona solo le note necessarie". Come si fa ad individuarle?
E.R.:
Le note necessarie sono quelle che rimangono quando si sono eliminate quelle non necessarie. Bisogna lavorare per individuarle...bisogna tendere ad asciugare e non è facile perchè si tende sempre a suonarsi addosso, tutti tendiamo a suonarci addosso...meno Joao Gilberto...!
15/08/2010 | Südtirol Jazz Festival Altoadige: "Il festival altoatesino prosegue nella sua tendenza all'ampliamento territoriale e quest'anno, oltre al capoluogo Bolzano, ha portato le note del jazz in rifugi e cantine, nelle banche, a Bressanone, Brunico, Merano e in Val Venosta. Uno dei maggiori pregi di questa mastodontica iniziativa, che coinvolge in dieci intense giornate centinaia di artisti, è quello, importantissimo, di far conoscere in Italia nuovi talenti europei. La posizione di frontiera e il bilinguismo rendono l'Altoadige il luogo ideale per svolgere questo fondamentale servizio..." (Vincenzo Fugaldi) |
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Data pubblicazione: 08/12/2004
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