Già dall'esposizione del tema del blues di Larry Young
Backup
gli appassionati del suono Blue Note possono stare tranquilli: con
Vito Di Modugno si trovano a
casa, su territorio familiare. Una familiarità, una sicurezza che però non
significa banalità, superficialità. E se, come crediamo, questo CD vanta dei
pregi tali da farlo distinguere nella vasta produzione discografica italiana,
essi risiedono senza dubbio nella particolare cura data alla produzione e
all'organizzazione della seduta, nonché all'alta qualità tecnica dell'incisione.
Musica di alta qualità, quella di
Organ Grooves, che esige delle sonorità
di livello altrettanto elevato.
Partiamo dalla scelta del repertorio, una oculata selezione di
standard legati indissolubilmente a celeberrime interpretazioni -
Bernie's Tune,
Bye Bye Blackbird,
l'ellingtoniana
Don't Get Around Much Anymore
-
mescolata con saggezza a brani originali di alto livello compositivo (i quattro
pezzi firmati dallo stesso Di Modugno) e, per finire, a inconsueti, sorprendenti
ripescaggi dal ricco catalogo Blue Note, che costituiscono, per così dire, uno
dei veri colpi da maestro dell'album.
E' giusto, intanto, segnalare che Vito Di Modugno è un compositore di
temi jazz di rilievo:
Nick Waltz,
ad esempio, possiede una bella linea melodica, plastica e assolutamente non
banale, che meriterebbe di essere ulteriormente approfondita in altri contesti
strumentali e magari entrare a far parte del repertorio corrente. In nessuno dei
brani del leader si respira quell'aria di noiosa incombenza che troppo spesso
spinge tanti jazzisti a trattare gli originals come se fossero semplici
pretesti per passare il prima possibile all'improvvisazione. C'è una cura del
particolare, nelle composizioni di Di Modugno, non poi così frequente nel
settore.
Allo stesso modo, è giusto rimarcare che la scelta di alcuni brani –
Backup di
Larry Young, ESP di Duke Pearson,
Out of the Night
di Joe Henderson, I Mean You di Thelonious Monk - si rivela elemento fondamentale nel
successo del disco. Sparse tra decine e decine di album della gloriosa casa
discografica di Alfred Lion, esistono grandi quantità di composizioni di alto
livello che attendono soltanto di essere riscoperte (oltre, è vero, alle
altrettanto grandi quantità di brani che dimorano in pianta stabile nel
repertorio del jazzista).
Out of the Night,
il blues ad accordi alterati che nella sua forma originale conclude il disco di
esordio del ventiseienne Joe Henderson (Page One, 1963), è la perfetta illustrazione di quanto andiamo dicendo. Lo
stesso vale per il già citato Backup, che giunge dritto da Into Somethin' (1964) grande e sottovalutato album dell'ugualmente grande e
sottovalutato Larry Young, inciso in compagnia di Sam Rivers, Grant Green ed
Elvin Jones. Geniale, poi, ci è parsa la scelta di ESP, altro brano di annata
1964 tratto, stavolta, dal memorabile
Wahoo!, disco
del sestetto di Duke Pearson con, tra gli altri, Donald Byrd e (ancora) Joe
Henderson.
Piccola parentesi. Il nome di Joe Henderson è già apparso un paio di
volte, in queste note, e lo ritroveremo anche più avanti. Non è un caso. Più
passa il tempo, più si fa largo tra musicisti e ascoltatori la forza innovativa
e l'influenza, sia compositiva che strumentale, del sassofonista dell'Ohio.
Henderson è una figura gigantesca ma, allo stesso tempo, una personalità così
complessa da richiedere una risistemazione critica del pantheon sassofonistico
degli ultimi decenni. Meno male, comunque, che il pubblico certe cose le capisce
da solo.
Torniamo a noi. Gran parte della riuscita di Organ Grooves risiede da un lato nella scelta dei musicisti, ovvero quanto
di meglio possa offrire il panorama italiano (e non solo), dall'altro
nell'abilità del produttore e del leader di averli saputi combinare in front
line sempre diverse con l'accoppiata organo-batteria come unica costante.
Trii con chitarra, trii con fisarmonica, quartetti con tromba e sax tenore, con
chitarra e sax tenore, quintetti: tutte le possibilità combinatorie sono state
esplorate senza riserve, e l'enorme varietà di situazioni offerta dal disco
finisce per rivelarsi uno dei suoi assi nella manica.
Ma nessuna strategia organizzativa sarebbe in grado di funzionare se
non fosse adeguatamente sostenuta e interpretata da un cast artistico di
prim'ordine, come quello convocato per Organ Grooves. Su
Fabrizio Bosso, ormai, resta poco
da dire: dopo i suoi strabilianti esordi di qualche tempo fa, nei quali la
Red Record ha giocato
una non piccola parte, il trombettista ha dimostrato notevole intelligenza nel
saper evitare le trappole del "ragazzo prodigio" e del virtuoso a tutti i costi,
indirizzandosi invece – senza esitazioni – sulla faticosa strada di una
progressiva e inesorabile maturazione stilistica.
Stefano D'Anna è un nostro vecchio pallino, un musicista che meriterebbe
un'attenzione maggiore da parte di tutti, pubblico, critica e discografici; un
improvvisatore meticoloso ed implacabile che ha saputo sintetizzare al meglio le
inevitabili influenze del grande sassofonismo storico in uno stile sì imbevuto
di decine di voci diverse, ma allo stesso tempo pulsante d'originalità. Allo
stesso modo, Sandro Gibellini dovrebbe mettere da parte quella che, a chi
non lo conosce, può apparire come una naturale ritrosia, per riuscire a farsi
apprezzare per il grande chitarrista che è. Nel suo caso, è persino banale
parlare di conferma.
Massimo Manzi è l'anima di questo disco, il suo motore; elemento
essenziale per la sua riuscita, inarrestabile batterista dotato di una
inesauribile gamma di soluzioni da proporre al solista di turno. Giocasse a
calcio, sarebbe un rifinitore cui nessuna squadra potrebbe permettersi di
rinunciare.
Poi c'è la famiglia Di Modugno. Vito, tastierista, organista,
bassista elettrico, didatta di talento: solista esuberante, compositore di
qualità, catalizzatore di energie positive. Organ Grooves non può essere
altro, per lui, che un punto di partenza, un trampolino di lancio verso un più
vasto riconoscimento delle sue qualità di jazzista che crede nella tradizione
ma, allo stesso tempo, è in grado di rivisitarla in tanti modi diversi. Pino, il
padre, fisarmonicista di lunga esperienza e di carriera più che trentennale, è
forse la più bella sorpresa di questo disco, coinvolto com'è stato in
un'atmosfera e un linguaggio da lui non frequentati quotidianamente. Che abbia
saputo cavarsela alla grande, tanto da mettere a Sergio Veschi qualcosa di più
di una pulce nell'orecchio, è segno evidente della veridicità del vecchio detto:
Jazz is where you find it. In una parola, te lo devi andare a cercare. E le
sorprese sono spesso dietro l'angolo.
Luca Conti
Alcune foto ritratte durante la
registrazione del 25 settembre 2002:
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Data pubblicazione: 05/10/2002
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