Intervista a Fabrizio Bosso
agosto 2011
di Nico Conversano
L'imminente uscita discografica di "Enchantment", vedrà l'incontro tra
la brillante tromba di
Fabrizio Bosso
e le sontuose sonorità della London Symphony Orchestra. Un lavoro che già
si preannuncia come uno tra i più importanti e ambiziosi del musicista torinese.
Sebbene Bosso abbia già avuto modo di collaborare con un ensemble esteso, questo
nuovo disco porta con sé il valore aggiunto di celebrare la musica di uno dei più
grandi autori italiani di composizioni classiche e colonne sonore per il cinema:
Nino Rota. Nel centenario dalla nascita, il trombettista omaggia l'universo
sonoro del visionario compositore, arricchendo i suoi celebri temi di lirismo e
swing. Ce ne ha parlato in anteprima in questa intervista, rivelandosi musicista
colto e curioso, improvvisatore appassionato e dalle molteplici ispirazioni.
Iniziamo dalla tua imminente
uscita discografica che presenterà un tributo alla musica di Nino Rota. Un nuovo
lavoro che ti vedrà protagonista insieme alla prestigiosa London Symphony Orchestra.
Puoi raccontarci com'è nato questo progetto?
L'idea nasce dal Maestro Stefano Fonzi, arrangiatore di tutta la musica.
Il Maestro è stato allievo di Morricone ed è autore di diverse colonne sonore. E'
stato lui a farmi questa proposta che mi ha ovviamente entusiasmato fin da subito.
Ha in seguito contattato la London Symphony Orchestra che, dopo aver ascoltato
i suoi precedenti lavori ed aver capito chi fossi, ha accettato di realizzare questo
progetto.
Che tipo di lavoro è stato compiuto sugli arrangiamenti
dei brani?
Ovviamente la tromba ricopre la parte principale nell'arrangiamento orchestrale
scritto da Fonzi. Il Maestro aveva inizialmente pensato ad una esecuzione per sola
tromba ed orchestra, poi ho suggerito di inserire la ritmica per rendere il tutto
un po' più jazz e lasciare più spazio all'improvvisazione. La sezione ritmica sarà
composta da
Claudio Filippini al pianoforte, Rosario Bonaccorso al contrabbasso
e Lorenzo Tucci
alla batteria. Il Maestro Fonzi è stato entusiasta dell'idea e abbiamo proceduto
in questo modo. C'è inoltre molta interazione con l'orchestra con la quale ci palleggiamo
i temi. Il progetto finale consta di sette o otto brani con la ritmica ed un paio
eseguiti per sola tromba e orchestra. Abbiamo lavorato molto prima di entrare in
studio, realizzando provini e suonando su un' orchestra virtuale, per verificare
il risultato finale. Poi abbiamo registrato il tutto con la London Symphony Orchestra
in due giorni di registrazione nei celebri Air Studios di Abbey Road, a Londra.
Scorrendo
la tua discografia ci si accorge di un'incisione risalente al 1995 a nome Gap Band
nella quale, in compagnia di
Pietro Tonolo,
Piero Leveratto ed altri, è già possibile
ascoltarti suonare la musica di Nino Rota.
È una storia un po' particolare. Il trombettista
Marco Tamburini sarebbe dovuto essere il titolare di quella incisione.
L‘idea iniziale era quella di tenere un paio di concerti per rodare il gruppo e,
in seguito, entrare in studio per la registrazione. Tamburini ha però avuto altri
impegni concertistici dell'ultima ora e hanno quindi pensato a me. Ovviamente conoscevo
già la musica di Rota tramite i film, solo suonandola però, ho capito quanto fosse
affine al jazz, e quanto fosse facile adattarla a questa musica. É stato il mio
primo, vero approccio con la musica di Rota.
Qual è secondo te la principale caratteristica musicale
che ha determinato il successo della musica di Rota nel mondo?
Sicuramente la cantabilità dei temi e l'originalità degli stessi. Pur ideando
melodie che rimanevano facilmente in mente, Rota non ha mai scritto niente che fosse
consueto. Temi come quelli di "Romeo e Giulietta" o de "Il Padrino", inoltre, si
prestano molto ad un arricchimento armonico. Durante il lavoro in studio, ho ascoltato
il pianista
Claudio Filippini alterare o modificare qualche accordo delle sue
composizioni e la cosa ha funzionato sempre benissimo. E' qualcosa che si può fare
con tutta la sua musica.
Molti altri sono i tributi che ti hanno visto protagonista
negli ultimi anni: da quelli a grandi della musica italiana come De Andrè,
Domenico Modugno e recentemente Celentano, a quelli per Don Cherry,
nel tuo recente "Complete Communion", o "About a Silent Way", per l'omonimo capolavoro
di Miles Davis. C'è qualche artista al quale ti piacerebbe dedicare un omaggio?
Ce ne sarebbero tanti. Pescando nel mondo del pop, ad esempio, mi piacerebbe
fare qualcosa per Stevie Wonder o Sting, artisti che adoro. Amo molto
anche la musica brasiliana e se devo pensare a dei nomi citerei gente come Chico
Buarque,
Caetano Veloso o Nana Caimmy. Lei è un'altra artista a
cui sono molto affezionato. Avrei voluto invitarla nell'ultimo disco che abbiamo
registrato con la formazione "Latin Mood", insieme a
Javier
Girotto, ma non era semplice coinvolgerla.
Ultimamente hai avuto modo di suonare in duo con il
pianista classico Nazzareno Carusi. Qual è il tuo rapporto odierno con la
classica, una musica che ha segnato i tuoi inizi musicali ma che hai presto abbandonato?
Ho suonato poco in ambito classico. Fino ai 15 anni circa ho collaborato con
l'Orchestra della Rai di Torino e vari gruppi di ottoni. In realtà sono cresciuto
con i dischi delle grandi Orchestre di Duke Ellington e Count Basie,
la musica di Clifford Brown e
Louis Armstrong.
Mio padre era un trombettista dilettante ma ha sempre suonato nelle orchestre. A
otto anni già mi portava a suonare nelle big band ed è quindi stata questa la musica
che ho frequentato di più sin da ragazzino. Ad un certo punto però, mi sono allontanato
dal mondo della classica, sia in fase di studio che lavorando da concertista. I
corsi che ho fatto a Saluzzo con Pierre Thibaud, prima tromba dell'Opera
di Parigi, sono stati utilissimi, ma sentivo una certa rigidità che non mi andava
più a genio, quindi mi sono lasciato prendere più dal jazz. Queste incursioni però,
mi fanno molto bene e mi rendono felice. Certo potevo realizzarle solo con un pianista
come Nazzareno Carusi, che ha un'apertura mentale pazzesca. Un pianista classico
che ha la testa solo dentro quel mondo lì, non avrebbe potuto affrontare un concerto
del genere. Carusi non è un improvvisatore ma è un musicista che sa ascoltare.
Ci sono dei compositori che prediligi o delle opere
per tromba e orchestra a cui sei affezionato?
Hindemith
sicuramente. Poi amo riascoltare concerti classici come quelli di Johann Hummel
o Joseph Haydn. Stravinsky è sicuramente un altro compositore
che prediligo a livello operistico: mi piace l'uso che fa della tromba. Altri sono
Gustav Mahler, compositore dal suono possente, o certi concerti del primo
novecento scritti da compositori francesi come Andrè Jolivet o Henri Tomasi.
Seguo un po' meno la musica contemporanea. Mi affascina per la presenza di trombettisti
straordinari, capaci di vere acrobazie con lo strumento, ma a livello epidermico
non mi prende molto.
Restando in ambito pianistico, sono numerose le incisioni
che ti hanno visto suonare in duo al fianco di pianisti jazz come
Franco D'Andrea,
Renato Sellani
o Antonello
Salis. Con quale pianista jazz del passato ti sarebbe piaciuto fare un duetto,
tra quelli che non ci sono più?
Sicuramente mi sarebbe piaciuto suonare con Hank Jones. Ho avuto la fortuna
di assistere ad un suo concerto con Joe Lovano al festival Jazz Baltica qualche
anno fa. Aveva un suono straordinario. Mi è anche capitato di assistere ad un duetto
fantastico del pianista John Lewis con Wynton Marsalis. Peccato sia
venuto a mancare qualche mese dopo quel concerto tenutosi a Perugia.
La tua partecipazione all'ultimo festival di San Remo
quale accompagnatore del pianista e cantante Raphael Gualazzi, unite alle
tue più longeve collaborazioni con
Sergio Cammariere
e
Mario Biondi, confermano
i tuoi felici sodalizi con i cantanti e ne fanno una delle attività che più di frequente
ti vedono impegnato. Cosa prediligi di più in questo tipo di collaborazioni e come
cambia il tuo approccio musicale in funzione di questo particolare contesto musicale?
Non cambia più di tanto. Accetto di farle proprio perché non devo snaturare il
mio modo di suonare. Se vengo chiamato da un cantante o da un musicista penso sia
perché cerchi il mio tipo di suono. Così come è successo nel disco di Raphael
Gualazzi: quando sono stato in studio, ho eseguito un solo con la sordina plunger
che a me è venuto spontaneo, ma che inizialmente non era previsto. Poi Raphael l'ha
ascoltato e gli è piaciuto molto. E' normale poi che accompagnare un cantante richieda
una certa sensibilità. Non avrebbe senso farlo nello stesso modo in cui affronterei
un omaggio a Don Cherry. Eseguire un solo in maniera più cantabile significa
rispettare la melodia originale. Sono tutte cose che mi piace fare. Ascolto di tutto
e odio i jazzisti "talebani" che suonano solo hard bop o free. Il jazz ha un sacco
di sfaccettature.
Il tuo frequente uso di sordine e tecniche trombettistiche
come il growl o il wah wah, creano un forte collegamento con la tradizione jazzistica
dei primordi come quella di New Orleans e con i primi, grandi esponenti dello strumento
come Armstrong, Gillespie o Cootey Williams. Qual è il tuo
rapporto con la tradizione?
Andare avanti è importante, però conoscere le radici è fondamentale. Il lavoro
che da anni sta facendo il trombettista Wynton Marsalis in questo senso,
è notevole. Anche se c'è stato un periodo in cui era diventato forse eccessivamente
conservatore, la sua idea è sempre stata quella di suonare la musica degli anni
trenta e quaranta, arricchendola di una visione moderna. É un po' quello che cerco
di fare anch'io: suonare in stile, ma in maniera contemporanea. Mi può capitare
di suonare "Honeysuckle Rose", un brano molto "traditional",
ma senza usare le note fondamentali. Se ci pensiamo, già Armstrong ai suoi tempi
era di una modernità sconvolgente, nonostante qualcuno lo consideri legato ad uno
stile datato. In realtà era avanti anni luce. É qualcosa che ho scoperto solo dopo.
La
recente uscita del disco "Libero" in esclusiva per il mercato giapponese, conferma
la calorosa accoglienza che il paese del Sol Levante da tempo riserva a te e più
in generale ai jazzisti italiani. Quale trattamento ti viene riservato quando sei
di passaggio in Giappone, e secondo te cosa rende il jazz italiano così appetibile
ai giapponesi?
Lavorare là è fantastico. Per l'efficienza che c'è in tutto: dall'ospitalità
alla cura del suono. Puoi veramente andare là e pensare solo a suonare la tua musica.
La gente è calorosissima ed ha un grande rispetto per i musicisti. La differenza
tra noi e loro è che se i giapponesi si appassionano ad un musicista, ne fanno un
idolo. Per loro, tra me,
Roberto
Gatto o, ad esempio, Sting, non c'è nessuna differenza. Tu diventi
ugualmente importante per loro aldilà del tuo livello o genere musicale. Poi hanno
questo feticismo che li porta a recuperare assolutamente il Cd e di conseguenza
non scaricano dal web. Le prime volte io ero imbarazzato perché arrivavano dei fan
con 10, 15 Cd da autografare, con incisioni di collaborazioni assurde o lavori che
non ricordavo nemmeno di aver fatto. Loro vogliono avere tutto dell'artista che
amano.
Ad accompagnarti spesso in queste tue incursioni nella
Terra del Sol Levante c'è la tua formazione più famosa, gli High Five. Da
tempo manca un'incisione a nome di questo gruppo. State preparando qualcosa a riguardo?
Abbiamo registrato alcuni album in esclusiva per il mercato giapponese, entrambi
per l'etichetta Blue Note. Uno è uscito in Italia, e solo in seguito è stato pubblicato
lì. E'andato benissimo e ha venduto più di 20.000 copie. Poi abbiamo realizzato
un disco live registrato al Blue Note di Tokyo, che risale a due anni fa, intitolato
"Jazz for Fun"ed un altro, "Split Kick", registrato in Italia ma pubblicato solo
in Giappone, circa un anno fa. In realtà la nostra è stata più una pausa concertistica
che discografica, dovuta prevalentemente ad una serie di impegni dei vari componenti.
Abbiamo però ripreso da poco a tenere concerti. Proprio ultimamente ne abbiamo tenuti
alcuni e direi che potremmo presto tornare in studio di registrazione.
Le influenze latine rappresentano un'altra forte componente
della tua musica. Lo testimoniano le tue collaborazioni con
Javier Girotto
per il gruppo "Latin Mood" o belle composizioni originali come "Rumba per Kampei".
Nonostante le numerose frequentazioni da parte di molti musicisti, credi che il
latin jazz sia uno stile che possa ancora riservare sorprese?
Assolutamente, sì. E'una musica divertentissima. Suonare con Girotto e
Mangalavite mi ha insegnato a divertirmi sul palco. L'idea di un certo tipo
di jazz è spesso associata prevalentemente a due atteggiamenti da palco: quello
del quintetto classico di Miles Davis, eleganti e seri in volto, o quello
del free jazz, votato al "cazzeggio" totale. Girotto e Mangalavite possiedono invece
quel tipico spirito sudamericano che li porta a divertirsi, qualunque sia la situazione
in cui ci si trovi, anche la più disastrosa, come a volte ci è capitato. Vivono
la musica e si divertono, trovano sempre un motivo per farlo. Mi ha fatto bene suonare
con loro, perché mi ha portato ad affrontare il palco e il pubblico in maniera differente,
anche nei miei concerti personali. Suonare più spensieratamente non significa farlo
in maniera meno rispettosa. In questo momento, la musica latina e brasiliana sono
quelle che mi fanno stare meglio. Quando ho bisogno di rilassarmi e star bene, è
questa la musica che ascolto.
Progetti nel tuo prossimo futuro?
Abbiamo appena messo su un trio chiamato "Spiritual" con
Alberto Marsico
all'organo hammond e
Alessandro
Minetto alla batteria, entrambi musicisti torinesi. Da un anno e mezzo
mi capitava di tenere dei concerti con loro, ci divertivamo molto e così ci è venuta
l'idea di andare in studio e realizzare un disco di brani gospel, rivisitati e corretti
in chiave jazz. Credo ne sia venuto fuori un disco molto valido, che pubblicheremo
al più presto. Per il momento continuerò a tenere concerti con questa formazione
che sinora ha ottenuto un buon riscontro dal pubblico.
27/08/2011 | Umbria Jazz 2011: "I jazzisti italiani hanno reso omaggio alla celebrazione dei 150 anni dall'Unità di Italia eseguendo e reinterpretando l'Inno di Mameli che a seconda dei musicisti è stato reso malinconico e intenso, inconsueto, giocoso, dissacrante, swingante con armonizzazione libera, in "crescendo" drammatico, in forma iniziale d'intensa "ballad", in fascinosa progressione dinamica da "sospesa" a frenetica e swingante, jazzistico allo stato puro, destrutturato...Speriamo che questi "Inni nazionali in Jazz" siano pubblicati e non rimangano celati perchè vale davvero la pena ascoltarli e riascoltarli." (di Daniela Floris, foto di Daniela Crevena) |
16/07/2011 | Vittoria Jazz Festival - Music & Cerasuolo Wine: "Alla quarta edizione, il festival di Vittoria si conferma come uno dei più importanti eventi musicali organizzati sul territorio siciliano. La formula prescelta dal direttore artistico è quella di dilatare nel tempo gli incontri musicali, concentrandoli in quattro fine settimana della tarda primavera, valorizzando uno dei quartieri più suggestivi della città, la restaurata Piazza Enriquez, e coinvolgendo, grazie a concerti e jam session notturne, una quantità di pubblico davvero rilevante, composto in parte da giovani e giovanissimi, portatori di un entusiasmo che fa davvero ben sperare sul futuro del jazz, almeno in questa parte della Sicilia." (Vincenzo Fugaldi) |
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Data pubblicazione: 09/10/2011
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