Torino Jazz Festival 2015 Torino, 28 maggio-2 giugno 2015 di Vincenzo Fugaldi
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La quarta edizione del festival torinese diretto da Stefano
Zenni è iniziata con l'atteso progetto "Sonic Genome" di
Anthony
Braxton. L'artista ha concepito la sua ricerca del codice genetico,
dell'essenza profonda della musica come un percorso di otto ore all'interno delle
sale del restaurato Museo Egizio. Coadiuvato da una settantina di musicisti e con
l'aiuto di alcuni tra i suoi fedeli collaboratori (per citarne alcuni: Mary Halvorson,
Taylor Ho Bynum, James Fei), Braxton ha ideato l'opera come un percorso
dalla complessa architettura all'interno degli spazi espositivi, manifestando la
sua nota passione per i numeri e per le figure geometriche. I musicisti, dapprima
tutti insieme, poi divisi in gruppi e sottogruppi, si muovevano all'interno del
museo secondo schemi predeterminati - e una programmata teatralità - eseguendo le
complesse partiture del leader, dai molteplici riferimenti contemporanei, o improvvisando
sotto la guida dei collaboratori di questo. Lo stesso Braxton ha diretto alcuni
dei momenti più suggestivi, ed era presente in seconda fila nel suggestivo finale,
nel quale tutti i musicisti sono arrivati progressivamente nell'ampio spazio delle
biglietterie schierandosi su più file, nell'ultima coerente presa di possesso degli
spazi di uno dei più bei musei d'Europa.
Riferire del festival è impresa ardua, data la vastità
del programma, che si articolava in sezioni: il main festival, presso l'enorme
palco di Piazza San Carlo e altri spazi cittadini; il fringe, in vari luoghi
tra Piazza Vittorio e il Po; gli special events; i film al Cinema Massimo;
le presentazioni di libri al Circolo dei lettori.
Il tema proposto dal direttore artistico a
Danilo
Rea era legato al centenario della nascita di Billy Strayhorn, musicista
non semplice da affrontare per un'interpretazione esclusivamente pianistica. Naturalmente
a Rea è stato suggerito di partire dal fedele collaboratore di Ellington per poi
seguire la propria sensibilità improvvisativa, e così è stato: partendo dal suadente
Lotus Blossom (e tornandovi nel finale), Rea ha percorso con un virtuosismo
forse più marcato del solito parte del songbook strayhorniano, passando tra le altre
composizioni per Day-dream, Satin Doll, Blood Count, per poi
confluire sul repertorio di De Andrè e dei Beatles.
Quando si scriverà la storia del jazz di questo decennio, i nomi di punta saranno
probabilmente Henry Threadgill e Steve Coleman, artisti dalla lunga
storia musicale, ma questi saranno quasi certamente affiancati dal più giovane
Steve Lehman, classe 1978. Lehman ha portato a Torino il suo ormai celebre
ottetto (Jonathan Finlayson-tromba, Mark Shim-tenore, Tim Albright-trombone,
Chris Dingman-vibrafono, Dan Peck-tuba, Matt Brewer-contrabbasso,
Tyshawn Sorey-batteria), forse la testimonianza più evidente dell'attualità
del jazz. Partendo dalle metriche sghembe di As Things Change, il gruppo
presenta una tavolozza di suoni ampia, dalla ritmica caratterizzata dalla irruenta
creatività di Sorey e dai suoni bruniti e complementari di Brewer e Peck, al ruolo
armonico e di colore del vibrafono, alla front line dei fiati, con assoli
di estrema urgenza espressiva, lucidi e aderenti al contesto compositivo, con una
menzione speciale per Finlayson, altro trentenne tra i principali protagonisti del
jazz contemporaneo, e per l'asciutto fraseggio del leader, debitore di quello di
Jackie McLean. Sostanzialmente Lehman ha fatto propria la lezione di Threadgill
e Steve Coleman, in una sintesi personale molto avanzata, che spinge il jazz verso
il futuro.
La prima delle produzioni originali del festival era la Passione secondo Matteo
di James Newton. Come spiegato dallo stesso compositore durante l'incontro
tenutosi al Circolo dei Lettori, egli, da credente, ha voluto cimentarsi con l'ostica
impresa per celebrare la parola del Vangelo, costruendo un tessuto sonoro di sostegno
alla parola stessa che non ha mai travalicato la funzione assegnatagli, affidato
a soli, coro da camera e orchestra da camera. L'ispirazione è venuta dal film omonimo
di Pasolini, che utilizzava, tra i brani della colonna sonora, lo spiritual Sometimes
I feel like a motherlesschild. E la versione di questo splendido canto
della schiavitù, che nel film commentava la crocifissione, risultava il momento
maggiormente efficace del concerto, con un'introduzione di violino e il tema affidato
al flauto.
Un Fabrizio
Bosso visibilmente scosso dalla tragedia dell'amico
Marco Tamburini (musicista ricordato in ripetuti momenti durante
il festival) ha donato alla sua città una rielaborazione con aggiunte della celebre
colonna sonora di Riz Ortolani del film Il sorpasso, utilizzando la proiezione
di un montaggio di parte dello stesso. Era accompagnato da
Luca Mannutza
al pianoforte, Luca Bulgarelli al contrabbasso e
Lorenzo Tucci
alla batteria. I quattro hanno interpretato al meglio le swinganti e intramontabili
musiche del film, intervallate da parti in cui si ascoltavano le voci dei protagonisti,
concludendo con una interpretazione di Nuovo Cinema Paradiso di toccante
lirismo. Prima del concerto, Bosso aveva dedicato all'amico scomparso una Body
And Soul di particolare intensità, insieme a Randy Brecker, musicista
che aveva suonato sullo stesso palco in precedenza con un'ampia compagine orchestrale,
la Monday Orchestra.
Il medesimo spazio che aveva ospitato Lehman, l'auditorium del grattacielo Intesa
Sanpaolo, ha accolto, in prima assoluta per l'Italia, il duo costituito da Bojan
Z al pianoforte e piano elettrico e Nils Vogram al trombone. Alternando
valide composizioni di entrambi (N° 9, TNT, Greedy (In goods we
trust), Multi Don Kulti, Think Thrice del pianista; Moving
in, Split the difference, Sanctuary, The Essence di Vogram),
hanno mostrato una compiuta interazione, tecniche sfolgoranti, cura timbrica, tutto
in funzione di un discorso musicale maturo ed essenziale, rigoroso ma comunicativo,
caldo ma razionale. Se Bojan Z (che in Italia potrebbe benissimo utilizzare il cognome
intero, per niente difficile da pronunciare: Zulfikarpašic) vanta una mirabile carica
ritmica ma riesce anche a essere lirico e delicato all'occorrenza, anche il trombonista
mostra duttilità e capacità di aderire a ogni contesto. Non resta che attendere
una testimonianza discografica di questo mirabile duo, che ben testimonia il buon
grado di salute del jazz europeo.
La scomparsa di Mulgrew Miller nel 2013 non ha certo giovato al Golden Striker
Trio del mitico contrabbassista Ron Carter, gruppo che conserva della
formazione originale, risalente al 2003, il chitarrista Russel Malone e gli
affianca oggi il pianista Donald Vega. Sin dall'iniziale celebre brano di
Oscar Pettiford, Laverne Walk, il trio, che in passato non necessitava affatto
di un ulteriore supporto ritmico, qui stentava a trovare il giusto drive,
nonostante la sempre caratteristica cavata del leader. E le cose non miglioravano
sensibilmente neanche nei brani lenti, come Candle Light o My Funny Valentine.
Definire il genere musicale suonato dai giapponesi Shibusa Shirazu è alquanto
difficile: il loro spettacolo multimediale è fatto apposta per gettar giù a spallate
i muri di confine tra i generi musicali, ma anche tra le varie arti: danza, pittura,
mimo, performance. Uno scatenato, irriverente ed energico sberleffo musicale che
mescola (dal 1989!) kitsch, free jazz, ritmi e fanfare balcaniche, Sun Ra Arkestra
ma anche altre esperienze orchestrali come l'ultima Gil Evans Orchestra, punk rock,
ballerine coloratissime, mimi stralunati, danzatori butoh, un gigantesco dragone
che vola sul pubblico, in una sintesi che riesce miracolosamente a coniugare qualità
musicale e spettacolo, grazie alla perizia dei musicisti ma anche all'efficacissima
progettualità complessiva. Nonostante la pioggia che dopo circa novanta minuti di
concerto è caduta copiosamente sul pubblico di Piazza San Carlo, questo è rimasto
sotto il palco sino alla conclusione delle due ore di trascinante spettacolo.
Altra produzione originale del festival, in occasione del centenario della nascita
di Strayhorn, è stata l'incontro tra la Lydian Sound Orchestra diretta da
Riccardo Brazzale e David Murray. Forte della presenza di musicisti
di qualità come Mattia Cigalini,
Robert Bonisolo,
Paolo Birro,
solo per citarne alcuni, la competente orchestra italiana, grazie anche ai sapienti
arrangiamenti di Brazzale, ha fornito una prestazione di grande qualità, dapprima
da sola e poi sostenendo il tenore di un Murray visibilmente entusiasta, che ha
messo a servizio del progetto il suo stupefacente suono e il fraseggio torrenziale,
entrando, dopo una prima serie di brani eseguiti dalla sola orchestra come Caravan
e Sophisticated Lady (e un omaggio a
Marco Tamburini) sulle note, tra gli altri, di Chelsea Bridge,
Wig Wise, Mood Indigo, Take The A Train, Star Crossed Lovers.
Va riferito anche degli altri spettacoli ospitati dal grande palcoscenico di Piazza
San Carlo: il vivace sestetto di Hugh Masekela, che ormai settantaseienne
mostra ancora una bella grinta sul palcoscenico e un buon timbro alla tromba, spalleggiato
da validi colleghi sudafricani; il Quarteto Afrocubano di
Omar
Sosa, con il fido flauto e il sax di Leandro Saint-hill, per
una musica spinta sempre più sul côté commerciale, ma con vari momenti gradevoli;
i docenti – e alcuni allievi – della Masterclass della Juilliard Jazz School a Torino,
con il trombonista James Burton III ed
Emanuele
Cisi, in una carrellata di brani mainstream; il nuovo progetto
del vocalist John De Leo, che ha presentato il suo nuovo cd "Il grande Abarasse",
con una formazione articolata con archi e la presenza di due jazzisti di valore
come Piero Bittolo Bon e Beppe Scardino, in una sintesi ben riuscita
e convincente; gli scatenatissimi quattro del Tinissima Quartet (Bearzatti,
Falzone, Gallo e De Rossi) che, in attesa della imminente nuova
fatica discografica, hanno riproposto le fulminanti musiche del loro "Monk'n'Roll";
Nicky Nicolai e
Stefano
Di Battista insieme alla Torino Jazz Orchestra per un applaudito omaggio
a Mina; e infine la attesa "The Original Blues Brothers Band", che della
formazione originale presenta oggi solo il chitarrista Steve Cropper e il
sassofonista Lou Marini, che ha infiammato ancora la piazza San Carlo stracolma
con una carrellata dei suoi intramontabili successi.