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Intervista a Saverio Pepe
giugno 2015
di Nina Molica Franco

Iniziamo proprio dal titolo: perché canto male il jazz?
In realtà il titolo dell'album sarebbe dovuto essere, per via dell'ironia che mi contraddistingue, "Canto male il gezz", poi ho preferito non essere troppo irrispettoso nei confronti dei musicisti che hanno prestato il loro ingegno e la loro arte in questo lavoro.



Canto male il jazz è la tua opera prima. Come nasce l'idea?

Era nell'aria, mi accompagnava da anni ovunque andassi. «Canto male il jazz» è un album che parte dal testo, dalla poesia, dalla filastrocca. La musica è arrivata dopo e, se non avessi conosciuto Valter Sivilotti, compositore e grande mente musicale, forse non sarebbe mai arrivata. Credo che la sensibilità umana e artistica di Valter sia l'incarnazione di quell'anima, a volte giocosa e irriverente, a volte profonda e riflessiva, presente in ogni frase dei testi che scrivo. Volevo che questo lavoro potesse essere l'applicativo di un concetto che è propriamente jazz: mescolare, amalgamare, improvvisare. La scrittura della linea melodica e della sua armonizzazione riservano ricercate dissonanze che rendono l'ambiente sonoro di matrice jazzistica anche quando il brano è, per esempio, un'habanera o uno slow waltz.

Un po' cantautore, un po' entertainer, un po' jazzista. Chi è Saverio Pepe?
Artisticamente nasco come attore direttamente sulle tavole del teatro, avevo 6 anni. Poi il canto, la mia prima band si chiamava The Bluecrackers Band, suonavamo Blues e Rhythm 'n' Blues in giro per i locali. Figli di B.B. King, Eric Clapton, Stevie Ray Vaughan, dei Blues Brothers e dei Committments. Perennemente ispirato al piglio artistico di Renzo Arbore sono approdato alla televisione: presentatore, autore, produttore di programmi in onda nelle emittenti locali partoriti in quei piccoli laboratori spesso fucina di belle idee.  Non ho smesso di cantare neanche quando ero "in onda". Ad un certo punto ho messo da parte il blues. Ho iniziato a mescolare gli ascolti: i cantautori italiani e il jazz della tradizione e da sempre sono alla ricerca dei punti in comune. Gli studi in Conservatorio del canto jazz mi hanno permesso di approfondire alcune tecniche vocali, ma soprattutto di sperimentare nuove soluzioni possibili di commistione fra jazz e cantautorato italiano. Oggi a distanza di anni, posso dire ostentando una certa sicurezza, che sono un raffinato amante del gezzzz: vivo l'ambiente del jazz, ascolto jazz, ho studiato il jazz, sono circondato da musicisti jazz, ma tutto sono tranne che jazzista. Cantautore? Forse.

Quindi qual è la categoria alla quale appartieni?
Cantattore, ecco sento appartenermi molto il concetto di cantattore. È una figura artistica che mi permette di esprimere quello che scrivo oltre che con le corde vocali anche con la mimica e la gestualità. Il mio obiettivo è raccontare. Ricordi la maestra quando eravamo bambini? Per rendere interessante la favola, leggeva, cantava e le espressioni del viso cambiavano assieme all'intonazione della voce quando faceva parlare questo o quel personaggio. Questo accade ascoltando il disco, questo accade assistendo allo spettacolo dal vivo.

Due gli elementi fondamentali: grande attenzione ai testi e lo swing. Cosa nasce prima?
Prima di tutto il testo, la voglia di raccontare, poi la musica. Nell'ottica della sperimentazione di cui parlavo prima, non escludo che il prossimo lavora possa nascere all'incontrario.

Una schiera di jazzisti al tuo fianco in questo progetto, in cui hanno creduto, nonostante tu confessi di cantare male il jazz… cosa li ha convinti ?
Per concretizzare questa mia idea di contaminare la canzone d'autore partendo dai generi ereditati dalla musica colta europea messi a sistema con il jazz, occorrevano musicisti la cui estrazione artistica avesse matrice differente. É stata proprio l'idea di contaminazione che parte dalla conoscenza sia del linguaggio jazz che dei racconti dei cantautori a convincere tutti i musicisti. Il primo ad essere annoverato nella squadra è stato Giovanni Scasciamacchia, amico, batterista e compositore. Lui mi ha presentato Alfonso Deidda con il quale aveva collaborato in passato. Alfonso, che ha accettato di curare anche gli arrangiamenti, è un polistrumentista figlio e fratello d'arte, il suo suono è di raffinatissima gradevolezza e adoro il suo timing. Al contrabbasso c'è Aldo Vigorito, perfetto nell'intonazione sia nel pizzicato che con l'archetto. Ha afferito il suo contributo con il suo modo misurato e mai ridondante di suonare. La sezione fiati è curata da Marco Tamburini, tromba e flicorno (al quale è dedicato l'intero lavoro essendo questo album l'ultimo uscito con la collaborazione sua) assieme Daniele Scannapieco (sax soprano e tenore). Le loro esperienze nel jazz e nel pop li proponevano come soluzione ideale per questo tipo di lavoro. Marco ha curato l'arrangiamento delle parti in sezione. La sua tromba è diventata compagna d'ironia del testo in molti passaggi. Sempre energico, in stile bebop, il fraseggio proposto nei soli di Daniele. A tratti sembra che Charlie Parker riviva in questo disco. Alla chitarra c'è Guido Di Leone che accompagna sempre con grande senso dello swing ma che amabilmente si destreggia quando il pezzo parrebbe imporre un tocco elegante di saudade. Antonio Ippolito e l'educato bandoneòn colorano il tango, la taranta e l'habanera. Nel brano "Venosa" la soprano è Nunzia De Giorgi, corista assieme a Gianni Grilli e Claudio Mola, che ha suonato le tamorre. Insomma, un parterre ricco e variegatissimo.

Il tuo album apre ad un pubblico vasto, dall'appassionato di jazz all'amante del cantautorato. A chi ti rivolgi?
Mi rivolgo a tutti gli appassionati delle cose belle della vita, del buon gusto, dell'ironia, della profondità delle cose. È un lavoro che non si ferma in superficie, per comprenderlo fino in fondo bisogna andare in profondità: rifugge la mediocrità.

Come un cantastorie d'altri tempi narri fatti, descrivi persone, sentimenti. A cosa si ispirano i testi e da dove nascono?
Le mie canzoni sono racconti, ognuno lancia un messaggio con il quale confrontarsi. Ogni pezzo, anche quello più scanzonato, nasconde la possibilità di una riflessione con la quale essere o no d'accordo. Il ruolo dell'artista è quello di esprimere un punto di vista, possibilmente diverso, delle cose e offrirlo al suo pubblico. Alcuni concetti espressi sono miei, appartengono alle mie esperienze, altri sono frutto della mia fantasia. Ho provato ad immaginare una situazione che non ho mai vissuto, l'ho descritta come se mi fosse appartenuta per davvero e ho provato a dedurne considerazioni che avrei fatto se mi fossi trovato realmente a vivere quell'esperienza. In ogni canzone c'è un pezzo di vita: chiunque, in un brano o nell'altro, credo possa trovare un pezzo di sé.

Chi sono i tuoi punti di riferimento e di ispirazione?
Il mio padre putativo è sicuramente Buscaglione. A distanza di 70 anni dalle proposte dello zio Fred ognuno degli appassionati ha preso una direzione, la mia è una di queste. Nello spettacolo live un altro mentore spirituale è sicuramente Giorgio Gaber.

Buoni propositi. Cosa ti aspetti da Canto male il jazz?
"Canto male il jazz" è l'inizio di un percorso di vita e musicale. Mi aspetto, esattamente come accade per i figli, di vederlo crescere sano verso un futuro che possa portarlo ad avere tanti fratelli e sorelle circondati da tante persone che gli vogliano bene. Partirà una tournée live con uno spettacolo-concerto musical-teatrale scritto da me e da Lorenzo Nicoletti con la collaborazione di Stefania Leone. Tutti e 14 i brani sono stati abilmente ordinati in una sequenza che ne consente un racconto divertente e di riflessione: come sono io.







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Data pubblicazione: 19/07/2015

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