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Intervista a Marco Tamburini, l'eterno ragazzino
Palermo, 12 luglio 2004
di
Antonio Terzo

Classe '59, Marco Tamburini ha quest'anno compiuto i primi vent'anni di carriera, senza troppi fronzoli o celebrazioni. E forse più di tutti rappresenta il trait d'union fra i grandi jazzisti italiani della vecchia guardia, quelli che con grandi sforzi hanno cercato di far conoscere questa meravigliosa musica quando i tempi e le attenzioni erano rivolte altrove, ed i giovani musicisti che oggi hanno comunque maturato una certa esperienza, proprio grazie a quelle frequentazioni e a quella palestra di musica e di vita. E Tamburini racconta e si racconta, svelando anche il mistero che si cela dietro lo spot di una nota carta di credito, che secondo molti lo coinvolgerebbe...

A.T.: Proprio quest'anno festeggi i 20 anni di carriera: cominciavi quindi nell'84
M.T.: Sì, professionalmente con il jazz ho cominciato nell'84, ma al di fuori del jazz avevo lavorato già prima, in orchestra per esempio avevo fatto "Domenica in" ed altre trasmissioni nella big band di Hengel Gualdi. Nell'83 feci un programma di Pupi Avati, "Hamburger Serenade", nell'orchestra diretta da Giovanni Tommaso, di cui Mario Raja era aiuto direttore, e poi c'erano musicisti come Roberto Gatto, Piero Odorici, Roberto Rossi, Tiziana Ghiglioni, Paolino Dalla Porta. È stato il primo lavoro professionale per quanto riguarda il jazz e le big band. Prima avevo suonato in orchestra sinfonica, sale da ballo, con Gualdi, Guido Pistocchi.

A.T.: E come hai spento queste 20 candeline?
M.T.: Mah, non ho pensato a festeggiare. Forse un modo per celebrare è stata l'uscita di questo disco, Two days in New York, con Billy Hart, Ray Drummond, George Cables, e quest'estate girerò con Hart, Cameron Brown e Marcello Tonolo, diventati ormai una sorta di mio quartetto fisso, una formazione che si affianca al trio con Christian Escoudé.

A.T.: Sapresti spiegare perché il jazz impiega così tanto tempo per accorgersi dei suoi talenti?
M.T.: Tempo fa me lo chiedevo, oggi non più…! Vado avanti per la mia strada, cerco di lasciare dei documenti discografici, anche se non sono neppure uno che registra tantissimo. Non mi piace infatti pubblicare un cd dopo l'altro, visto che un disco di jazz è difficile che "invecchi", a meno che non sia di maniera. Dato che ci vuol tanto tempo per far uscire un progetto, trovare la distribuzione, cerco allora di farlo maturare. Non vado dietro alle cose, chiedo una volta sola, ma non insisto, invece le etichette si fanno molto desiderare. Purtroppo, specie in Italia, è tutto un mondo di conoscenze… Per tornare alla domanda, io ho sempre fatto quello che faccio adesso, magari per un certo periodo ho affiancato al jazz anche altri generi, cosa che non escludo possa ricapitare, e sfortunatamente, in Italia spesso si ragiona in modo "settario", il che invece non succede all'estero. Tutto dipende da come ci si pone e dall'artista con cui si va a suonare. Tengo però a dire che al di fuori del jazz suono solo cose che mi piacciono: la mia testa è sempre rivolta alla musica, a 360 gradi.

A.T.: Un ricordo legato ai tuoi inizi…
M.T.: Generalmente ti ricordi di chi ti ha dato una "bella mano", per esempio Guido Pistocchi, il quale ancora oggi suona molto bene, specie il mainstream, che è il suo pane. Lo stesso valga per Gualdi, e vorrei ricordare una grande prima tromba, scomparsa qualche anno fa, Alberto Corvini, detto "Al" per l'estero, padre di Mario e Claudio: trombettista e direttore di una big band. Ho avuto l'opportunità di suonare con Franco e Dino Piana, con Oscar Valdambrini: sono bei ricordi.

A.T.: Una delle critiche che in quegli anni iniziali ti è servita di più.
M.T.: Sai, ho sempre il difetto di prestare ascolto a tutto, cercavo di seguire tutto ciò che mi veniva detto. Rispetto ad oggi allora c'era più disciplina, e c'era più rispetto per le persone che avevano più esperienza. Questo oggi manca. Un consiglio di Pistocchi era di cercare un suono "mio", essere me stesso, fuori dal palco e sul palco. Soprattutto le frasi, lo swing, cercare di non barare: la tecnica va bene ma il suono, le frasi non le puoi studiare, e allora occorre dentro tanta conoscenza di sé stessi.

A.T.: Un tempo l'ambizione di un musicista italiano era quella di incontrare "gli Americani" di cui si ascoltavano i dischi, collaborarci, incidere: oggi si riesce a suonare parecchio, s'organizzano tanti festival e rassegne, gli "Americani" li abbiamo spesso per casa ed è molto più facile di prima raggiungere gli Stati Uniti ed esibirsi là. Qual è dunque oggi, per un jazzista, il desiderio più profondo? Che obiettivi ha un musicista jazz del nuovo millennio?
photo from Official Web SiteM.T.: Forse fare dei progetti e cercare di divulgarli, girare il mondo con un proprio progetto, la propria musica. Bisognerebbe dare spazio non solo alle mode, ma a tutti i generi musicali, anche all'interno dello stesso jazz, dove pure sono vari linguaggi differenti.

A.T.: Ci si vive?
M.T.: Sì, penso di sì…

A.T.: Sei fra quei pochi jazzisti che non disdegnano le sortite nella musica pop: Jovanotti, Capossela, Casale, Zero dei primi anni '70.
M.T.: Sono le mie prime collaborazioni. Ultimamente comunque avviene meno, sia perché oggi si usano anche meno i fiati, poi perché tecnicamente, strumentalmente ci siamo anche evoluti e quindi ci sono tanti altri musicisti che suonano bene. Di solito mi chiamano per costituire delle "sezioni" o per scrivere qualche arrangiamento o per fare dei soli. In questa maniera mi sono trovato a suonare nell'ultimo compact di Raf, a scrivere gli arrangiamenti del disco di Jovanotti che sta per uscire, ad eseguire un assolo nel cd di Francesco Renga. Vengo chiamato per fare ciò che so fare, un modo per ripagarmi di anni di studio… E quindi non disdegno, mi piace ed in certi casi ho fatto anche delle esperienze che mi hanno aiutato per altro, perché vado dove ho gli spazi in cui mi diverto.

A.T.: Il penultimo cd è Amigavel (2003), in duo con Marcello Tonolo: come vi siete conosciuti?
M.T.: Marcello lo conosco da più di vent'anni, da quando mi chiamò a suonare nella Keptorchestra, lì incontrai il fratello Pietro, tenorista, con il quale poi ho suonato diverse volte. Marcello è stato il primo pianista ad affiancarmi in una serata a mio nome, quando ho deciso di formare un quartetto, e successivamente ho inciso un disco con lui, Alfred Kramer e Piero Leveratto. Ci troviamo sia caratterialmente che musicalmente, due cose che vanno spesso insieme.

A.T.: Come avete deciso, a distanza di anni, di dar vita a questo duo e a questo disco…
M.T.: Avevamo una serata in un club di Feltre, ce n'era stata qualche altra prima, quindi s'era già messo su un repertorio, e mi piaceva l'idea di fare un disco in duo. M'avevan detto che l'acustica in quel club era buona, c'era un discreto piano, e così ho portato microfoni e registratore ed alla fine ho registrato e conservato il master: vi si ascoltano suoni migliori che in certi studi, e da lì è venuta l'idea di stampare un live. Dal punto di vista musicale il risultato era buono, abbiamo scelto quali pezzi fossero migliori fra le varie serate, ma è stato tutto casuale e tutto è andato a meraviglia.

A.T.: Nel presentare a Terni il brano che dà titolo ad Amigavel, hai specificato trattarsi di una composizione di Maurizio "Bicio" Caldura. Vorresti raccontare del tuo rapporto con lui, giusto per ricordarlo a chi magari non ha avuto l'opportunità di conoscerlo?
M.T.: Bicio è scomparso molti anni fa e ci tengo a parlarne, è stato un grande amico per me, tanto quanto Marcello Tonolo. Sono ancora molto legato a sua moglie che viene spesso ai concerti ad ascoltarmi. Ricordo le serate, le notti passate a casa sua, che per un po' è stata come casa mia. A Bicio devo tanto, m'ha presentato Paul Jeffrey, m'ha portato al Gruppo Diversity per questi scambi fra scuola Italiana e scuola Americana e lì ho avuto l'opportunità di incontrare Ray Drummond, Billy Hart, tutti musicisti con i quali poi ho suonato molto. Lì ho conosciuto pure Mimmo Cafiero, che deve anche lui tanto a Bicio, gli ha fatto conoscere Jeffrey… È una persona alla quale dobbiamo tutti molto, dal punto di vista musicale ha scritto bellissime cose, sia per orchestra che per big band, era uno studioso, suonava molto bene anche il pianoforte. Per me è stata una grande perdita.

A.T.: Nel disco Feather Touch ti sei avvalso di una formazione tutta italiana (Roberto Rossi, Marcello Tonolo, Paolo Ghetti, Stefano Paolini); ­adesso in Two days in New York, l'ultimo cd, vanti la presenza di una all stars band: Gary Bartz al sax alto, Two Days in New YorkPaul Jeffrey al tenore, Ray Drummond al contrabbasso, Billy Hart alla batteria ed il pianista George Cables, al quale si alterna l'amico di sempre, Marcello Tonolo.
M.T.: Con il quintetto italiano avevo suonato parecchio in tour, e quindi i tempi erano maturi per un disco, così abbiamo inciso. Invece quattro anni fa a Narni ho conosciuto Andrea Nanni – produttore e manager di musicisti soul – e Silvano Menichelli – quest'anno direttore artistico del Black Festival di Narni – che m'han chiesto con chi mi sarebbe piaciuto fare un disco. Io ho fatto i nomi dei musicisti che più mi piacevano, dal profondo del cuore, e loro m'han risposto "Va bene". Sai, io non credo più a niente, più gli anni passano… New York: Sala d'incisioneAlla fine Nanni e Menichelli hanno prodotto il progetto e Paul Jeffrey, che conosce personalmente quei musicisti, suoi amici, m'ha dato una mano a contattarli: non so come si siano accordati, ma siamo arrivati in studio ed in due mezze giornate abbiam fatto tutto, perfino con dei brani in più, ci siam divertiti. Quando m'han detto che saremmo partiti nel giro di due settimane, avevo pronto solo qualche pezzo, perché di solito non scrivo "su commissione" ma solo se sento di scrivere: ho scritto tutto quanto in quella settimana. Per registrare non abbiamo avuto alcun problema: abbiamo provato un brano di mia composizione, a loro è piaciuto, e han capito che tutto avrebbe funzionato. Feather TouchCon Gary Bartz avevo già suonato, con Billy Hart invece mai, ma mi conosceva perché gli aveva parlato di me Eddie Henderson, grandissimo trombettista che mi ha dato tantissime "dritte" aiutandomi molto a progredire, uno dei fondamentali per me. Insomma dopo quattro note abbiam capito che sarebbe andata…bene! La Caligola Records l'ha pubblicato e adesso si gira per promuoverlo. In Two days in New York Marcello suona un solo brano, mentre esegue altri pezzi rimasti fuori, un "terzetto" dedicato a Thelonious Monk (Monk's mood, We see ed un altro) che ho deciso di non inserire perché altrimenti il disco sarebbe venuto lungo. Però può darsi che in futuro la Caligola decida di preparare un tributo a Monk, e comunque, dato che Monk è un musicista che adoro, magari domani ideerò io qualcosa su di lui e allora potrei usare quel materiale lì. Quando ho cominciato a portare in giro Two days…, Drummond però era impegnato, credo ­ in Giappone, quindi ho chiamato Cameron Brown che conosco da tempo, e con Tonolo al piano ho formato questo quartetto con cui ogni anno giro per due settimane circa. A settembre registrerò un altro disco con questa stessa formazione, probabilmente ancora per Caligola.

A.T.: Cinque brani sono tuoi…
M.T.: Sì, uno è di Marcello, Night over, un inedito, poi Una mas di Kenny Dorham, We'll be together again di Karl Fisher…

A.T.: E poi concludi con Vecchio frack di Modugno, non certo una novità, dato che anche Feather Touch conteneva un brano di Gorny Kramer.
M.T.: Infatti era un po' che avevo quest'intenzione. L'avevo suonata tante volte, ma mai registrata, e data la versatilità del disco, ci stava bene un brano italiano. Estate ha fatto il giro del mondo, anche se purtroppo Vecchio frack l'ho suonato io e non uno dei più famosi trombettisti del mondo, come meriterebbe…No, vabbeh, è un bellissimo pezzo al pari di Estate e quindi meritava un omaggio.

photo from Official Web SiteA.T.: Sei considerato uno dei didatti più in gamba del jazz italiano. Se dovessi trasmettere a tuo figlio l'essenza della musica jazz, cosa gli diresti?
M.T.: Melodia è ritmo e ritmo è melodia. Cercherei di farlo divertire con il jazz. Certo, prima di improvvisare bisogna avere la padronanza dello strumento e quindi tutto dipende anche dallo strumento che vorrebbe suonare, ma appena avrà imparato i rudimenti… Ci sono strumenti, come la tromba, per cui bisogna aspettare più a lungo rispetto al pianoforte prima di suonare una melodia ed avere un bel suono. Mio figlio vorrebbe suonare la batteria, ma gli ho già detto che comunque alla batteria dovrà abbinare il pianoforte, che è alla base di tutto. Io ho cominciato tardi, per conto mio, ad affrontare il pianoforte, perché è fondamentale conoscere l'armonia. È importante suonare di getto quello che si sente, ma quando studi devi applicare le scale ed il ritmo sull'armonia, perché una scala senza ritmo è niente. Nel jazz i due strumenti obbligatori per me dovrebbero allora essere batteria e pianoforte, anche se per la batteria purtroppo non ho più tempo…

A.T.: E invece ai tuoi allievi, a parte note e pause, assoli ed interplay, cosa cerchi di trasmettere?
M.T.: Per suonare tutta la musica, non solo il jazz, bisogna cercare di conoscere prima di tutto sé stessi, attraverso lo studio, l'esperienza. Qualunque genere di musica se non la vivi non puoi suonarla, specie il jazz: se non lo vivi con chi lo suona, negli ambienti del jazz, se non vai a fare le jam, allora non puoi suonarlo, è un linguaggio che devi acquisire, è un "parlare" con gli altri.

A.T.: Il nume tutelare del jazz americano, il trombettista Wynton Marsalis, ritiene che il jazz faccia parte della storia e della cultura americana, una sorta di "musica classica dell'America" da trattare con lo stesso rispetto e reverenza che si devono alla grande tradizione europea. Ma in Italia, paese con tutt'altre radici, che posto dovrebbe occupare il jazz?
M.T.: Il jazz è uno dei pochi generi che dà l'opportunità di esprimerti nel momento stesso in cui lo suoni su un palco e non sai cosa può succedere. Dice giusto Marsalis, però è anche vero che il jazz lo ascolti ormai in tutto il mondo, e ha subìto tantissime influenze. Forse è una questione di termini, perché son sicuro che Marsalis sia molto più aperto di quanto non appaia da quelle affermazioni. Se lo chiami a fare un disco hip-hop viene e suona pure da dio. Tiene molto alla tradizione, ha seguito quel filone lì, ma ha tanta voglia di suonare, e a quel che so è andato gratuitamente a tenere delle lezioni per i ragazzi del Conservatorio di Bologna e la sera suonava in club, con chi capitava e faceva così tardi che per tre gironi ha chiuso lui il locale…! È anche vero che, bene o male, di Marsalis si parla, mentre di tanti altri validi trombettisti invece no: per esempio Booker Little, coetaneo di Freddie Hubbard… Si parla sempre dei soliti!

A.T.: Ultime due curiosità: l'ultimo cd che hai acquistato…?
M.T.: Jamie Cullum, fresco, giovane, poi Roy Hargrove… Sai è difficile rispondere, perché compro un po' di jazz, un po' classica, un po' di tutto… Bill Evans in trio "Waltz for Debbie" l'ho ricomprato di recente, un altro che ascolto spesso è "Interplay"…

A.T.: E infine il mistero dello spot della nota carta di credito: il trombettista sei tu o no?
M.T.: No, affatto: hanno preso uno che è una copia di me quando avevo i capelli un po' più lunghi… Mi piacerebbe conoscerlo, non so neppure se sia un trombettista! Magari chiamavan direttamente me, provavo a vedere se ero telegenico!

A.T.: Progetti futuri?
M.T.: Tantissimi. Il Crossover Quartet, con Kàlmàn Olàh al pianoforte, Janos Egri al contrabbasso e Piero Borri alla batteria, che è comunque un progetto stabile. Poi il trio con il chitarrista Christian Escoudé e Ferenc Bokany al contrabbasso, con un repertorio di brani originali composti da Escoudé, me ma anche di Tom Harrel. Sempre con Escoudé ho un trio insieme a Furio Di Castri al contrabbasso con cui andiamo in giro un po' per l'Italia, ed infine ancora con Christian, il progetto che coinvolge il maestro Gaetano Randazzo a dirigere un'Orchestra d'archi: quindi tromba, chitarra e archi, molto insolito!

 














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Data pubblicazione: 02/01/2005

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