Ad ogni suo disco ha sempre qualcosa da dire
Marco
Tamburini, musicista continuamente pronto a confrontarsi con quanto
di meglio offra il panorama jazzistico, anche di là dall'oceano, trovando nuovi
compagni e nuovi habitat per la sua musica, e mostrandosi in tal modo particolarmente
"open-minded": dopo Feather Touch (2001)
con un quartetto tutto italiano, Amigavel (2003)
in duo con il pianista Marcello Tonolo e
Two days in New York (2004)
registrato nella Grande Mela con un eccezionale quintetto di all stars (Gary
Bartz al contralto,
Paul Jeffrey
al tenore,
George Cables al piano, Ray Drummond al contrabbasso e
Billy Hart alla batteria), eccolo sfornare, giusto all'inizio di quest'anno,
un altro pregevole album, Frenico.
Ed anche qui si affida ad una sessione ritmica d'oltreoceano per due terzi, con
Cameron Brown al contrabbasso e l'amico Billy Hart alla
batteria – due veterani che definire straordinari sarebbe oltremodo riduttivo –,
completata dal fedelissimo Tonolo al piano. E qua e là fanno capolino anche
voci strumentali e laringèe di ospiti non molto noti ai più, ma ugualmente ben assortiti.
In questo cd il fiatista cesenate si qualifica per la bellezza degli arrangiamenti
e per il personale timbro dei suoi pistoni. Abbrivio con
Cheeck to cheeck, e la
tromba, sordinata, imprime fin da subito la sua impronta ad introdurre ed interpretare
questo evergreen accessibile a chiunque, anche non necessariamente jazzofilo.
E la fiducia dell'ascoltatore è guadagnata per la pacatezza che il brano instilla,
con la sua semplice riambientazione, culminando nel misurato assolo di piano. Seduttiva
la combinazione della pervasiva ed articolata vocalità di Alessia Obino con
i fiati – oltre al titolare, questa volta al flicorno e artefice di un guizzante
e pregnante assolo, presenzia anche il sax tenore di Michele Polga
– in questa Dream di
Marcello Tonolo, la quale, seppur con sonorità assolutamente acustiche, riesce
ad evocare atmosfere "fusion" davvero avvolgenti, grazie allo stesso tenorista –
suono corposo e preciso sul tema, arrotolato ed aperto in improvvisazione – nonché
alla minuziosa filigrana ritmo-armonica tracciata dai due americani. La rilassatezza
del tema di Frenico
si rivela oltre il primo minuto e mezzo (superato l'unisono prolusivo di tutti gli
strumenti, invero un po' farraginoso nella sua larghezza), dando modo al tenorsax
di Stefano Bedetti e poi ancora al flicorno del leader di improvvisare
sulle molli linee melodiche, al piacevole retrogusto degli zefiri in controtempo
del sapientissimo Hart (lo scriviamo senza pretendere di aggiungere nulla
a quanto il "dinosauro" non abbia già fatto), fino all'intermezzo solistico di toccante
maestria e moderno concept che Brown trapunta sugli stessi. Arrangiamento
da organico orchestrale, firmato da Brown, piantato proprio sul solidissimo
pedale del suo contrabbasso, sopra il quale gli inserimenti solistici – particolarmente
scorrevole la tromba di
Tamburini
– abbandonano volentieri le connotazioni meloarmoniche per esplorare i risvolti
più spinti delle griglie originali di
Seven come eleven. Fanno
da contrappeso alle istanze individuali le intriganti figurazioni in sezione operate
dalla restante parte della formazione, la quale per l'occasione ha in forza entrambi
i tenoristi – il primo, più aggressivo, pare Bedetti; il secondo, più raccolto,
invece Polga – il cui garrulo dialogo finale prelude alla coda: rullante
secco e asciutto di Hart, cui si sovrappongono, diafani ed eterei, i vari
piatti, in un'ossimorica tracimazione di ritmi, suoni e vibrazioni.
Dal silenzio affiora la tromba, seguita dalle ance, per una composizione,
Warm, senza né piano
né contrabbasso, firmata
Tamburini-Hart,
che risalta lo straordinario feel esistente fra il nostro ed il maestro americano:
un interludio, nato in duo per scaricare la tensione in una pausa di registrazione,
tutto da ascoltare negli intrecci dei fiati (il sax è di Polga) giustapposti
su un ritmo dal colore – e dal calore! – caraibico, sorprendente e solare. Una inusitata
dizione di When the Saints go marching
in lontanissima dalle pittoresche versioni cui siamo abituati, che se
rinuncia – volontariamente – al carattere "festaiolo", dall'altro lato guadagna
umore e profondità del tutto nuovi, una malinconia – forse indotta dalla liquida
sordina – non inferiore all'originale, pur restando attaccata all'andamento marciante
inferto dalle stoccate di un Hart d'eccellente verve esecutiva, e
ad un'armonizzazione frutto della collaborazione di Tamburini con una forte dose
di Brown – specie nell'iniziale disegno metrico – ed inequivocabili smerigliature
di Tonolo. Break in introduttivo affidato alle inesauribili batterie
di Hart, per una toccante Poinciana la
cui dolcezza è preziosamente espressa a cominciare dall'assolo del trombettista,
di grande linearità, seguito dal roccioso e penetrante sax di Bedetti, quindi
da un fantasioso Tonolo e, di sponda, dal curvilineo contrappunto di Brown:
non ci si stanca mai d'ascoltarli. Per bilanciare, l'ultimo brano si apre con un
riflessivo recitato del contrabbassista che immette in
Lullaby for George Don and Danny,
sua composizione in ricordo di tre grandi del jazz – segnatamente il sassofonista
George Adams, il pianista Don Pullen ed il drummer Danny Richmond,
a fianco di Brown sia nel quartetto a nome dei primi due, sia nella formazione
capeggiata da Pharoah Sanders –, cullata sulla delicata voce del flicorno
e sospinta, ancora una volta, dalle cadenze di Hart e dal sensibile piano
di Tonolo.
E se davvero d'ispirazione per questo lavoro è stato quel "phren"
d'etimologia greca che richiama passioni d'impeto partorite dalla pancia in contrapposizione
ad elaborate sofisticatezze ragionate dalla mente, allora questo album non soltanto
mostra tutta la maturità e l'esperienza musicali di Tamburini – compositore, arrangiatore,
musicista, strumentista, e tutto ciò da jazzista – ma si colloca pure fra le sue
uscite migliori. Almeno fino alla prossima.
Antonio Terzo per Jazzitalia
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Data pubblicazione: 22/08/2006
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