«Quattro anni fa a Narni ho conosciuto Andrea Nanni e Silvano Menichelli
che m'han chiesto con chi avrei voluto registrare un disco. Ho fatto i nomi dei musicisti che più mi piacevano, dal profondo del cuore… Alla fine hanno prodotto il progetto, e Paul Jeffrey, che conosce personalmente quei musicisti suoi amici, m'ha dato una mano a contattarli: non so come si siano accordati, ma siamo arrivati in studio ed in due mezze giornate abbiam fatto tutto, perfino dei brani in più, ci siam divertiti. Quando m'han detto che saremmo partiti nel giro di due settimane, avevo pronto solo qualche pezzo, perché di solito non scrivo "su commissione" ma solo se sento di scrivere: invece, ho scritto tutto quanto in quella settimana. Per registrare, abbiamo provato un brano di mia composizione, a loro è piaciuto, e han capito che tutto avrebbe funzionato».
Con queste parole cariche d'emozione, ma anche di rispetto, quello che si deve verso chi ha dato un importante contributo alla storia del jazz internazionale, in un'intervista rilasciata qualche tempo fa Marco Tamburini parlava di questo suo Two Days in New York e dei musicisti che in esso lo accompagnano – George Cables al piano, Ray Drummond al contrabbasso e Billy Hart alla batteria –, composto sull'entusiasmo determinato dalla straordinaria occasione di poter beneficiare di una così pregiata accolita di jazzisti.
Un intrigante sincopato dal retrogusto funky per l'apertura di Last Minute, ondulazioni modali che viaggiano su un pedale ripetuto, ispiratissima la sordina del titolare che, supportato dalla "sua" ritmica delle meraviglie, raggiunge sfumature di particolare suggestività: lineare il solo di Cables, spunti romantici per
Tamburini, fluente il
drumming solistico di Hart. Two Days in New York,
title-track del cd, mostra tutta l'intensità di cui è capace il sensibile flicornista cesenate, molto articolato il suo assolo, elegante sostenuto dai sobri piatti di
Hart e dall'incedere elastico, sommesso ma prezioso, del contrabbasso, che insieme ai block chords del piano infonde una connotazione metropolitana al pezzo, con
Hart che adesso taglia il tempo al
rimshot.
Testimonia invece dell'abilità del
Tamburini arrangiatore Francy, un latin jazz a metà fra bossa e samba, in cui si inseriscono perfettamente le mirabolanti articolazioni del sax alto di Gary Bartz, mentre il flicorno si attesta su progressioni estemporaneamente ideate sulle note dissonanti delle modulazioni armoniche.
Omaggia l'amico Marcello Tonolo Night Over, composizione firmata proprio dal pianista miranese e brillantemente interpretata nell'intervento solistico dal solidissimo Cables, e ancora
Bartz, più scuro e assorto nel suo turno di improvvisazione. Finalmente anche
Drummond ha modo di dare il proprio contributo solistico, con un fraseggio la cui lucentezza espositiva – sul sottofondo del ride di
Hart – arricchisce le ombreggiature notturne della scena sonora. Unico standard We'll be together again, fra i pochi in scaletta che vede protagonista la tromba, la quale, filtrata attraverso la sordina, stempera i toni più accesi per farsi morbida quasi come un flicorno. Languido il contralto di
Bartz, a tratti raschiato, cui fa eco la calda atmosfera creata dal trombettista all'impronta, misurate le scorse in velocità sulle ottave, mantenendo dunque l'impostazione classica, rispettosa dell'originale. Ma è in Skyline che i cinque riescono a dare prova di grande intesa reciproca, ottimi scambi e soprattutto intuito jazzistico l'uno nei confronti dell'altro.
Inizia con un suggestivo recitato del contrabbasso di Drummond Yesterday Night, su cui si inserisce
Tamburini, un suono maturo e soprattutto personale – notare il muto gutturale che arricchisce l'emissione ed il risultato sonoro dei suoi fiati, specie il flicorno – con
timing della batteria subdolamente – e abilmente – raddoppiato, a movimentare l'aplomb del brano sui tintinnanti chiodi dei piatti. Finale sospeso sull'archetto di
Drummond e breve coda conclusiva.
Momento particolarmente frizzante è dato dallo splendido arrangiamento riservato da
Tamburini a Una mas di
Kenny Dorham, nella quale, oltre che dell'altosax di Bartz – artefice ancora di un lucido solo con sottolineature in crescendo di
Hart – il nostro si avvale pure del sax tenore di Paul Jeffrey, un tenorismo sciolto e d'esperienza, il suo, riflessivo ed attento alla corposità del suono: e fra i due sassofonisti scintilla la tromba del cesenate, autore anche dei gustosi passaggi in
session sotto la raffinata improvvisazione del piano.
Chiude la sequenza Vecchio frack, tributo a
Domenico Modugno, che sebbene in questa riduzione jazzistica venga sensibilmente modificato nella struttura ritmica rispetto all'inciso originale, si accresce del pari in intensità emotiva, facendosi più scanzonato nel ritornello ad opera del walking bass di Drummond. Interessante l'adattamento del linguaggio jazzistico ad uno stile, quello cantautoriale degli anni '50, ben lontano invece dalle griglie armoniche tipiche del jazz.
Tonolo gioca bene l'unico assolo a sua disposizione nell'intero disco. Una rilettura che, proprio per questo, va anche oltre il semplice omaggio, potendo costituire la ri-scrittura in chiave jazz di un capolavoro che meriterebbe di divenire in tale veste uno standard di genere.
Jazz di buona fattura, dunque, sia per le partiture a firma
Tamburini (e non si dimentichi Tonolo!) che per la levatura dei solisti coinvolti, a conferma anche del buon momento musicale dell'attivissimo Marco. Infine, ma solo dopo aver ascoltato tutto l'album almeno una volta – per non venire influenzati o peggio ancora distratti –, suggeriamo di leggere le simpatiche note di copertina con le quali Paolo Fresu ha voluto presentare questo maturo lavoro dell'amico fiatista.
Antonio Terzo per Jazzitalia