Il giro d'Italia a bordo di un disco
Claudio Donà, Caligola Records
dicembre 2014
di Alceste Ayroldi
Qual è la vostra filosofia di vita? Perché
fare il discografico?
Non ho mai considerato quella del discografico la mia professione principale, né
ho operato per farla diventare tale. Così come le mie attività prima di pubblicista,
poi di docente del Dipartimento Jazz del Conservatorio Venezze di Rovigo e direttore
artistico dell'associazione Caligola, sono solo il frutto di una grande passione,
quella per la musica, il jazz soprattutto. La promozione dei musicisti con i concerti
od i dischi ha alla fine lo stesso obiettivo: dar spazio ad alcune delle voci più
significative del jazz italiano, anche quelle che dalla provincia faticano maggiormente
a mettersi in luce, sforzandomi di non rimanere legato a etichette o categorie,
ma di essere il più possibile aperto verso i diversi linguaggi della musica improvvisata,
che già conta poco nel panorama internazionale, e non ha quindi bisogno di dividersi
in nicchie ancor più ristrette ed esclusive, quasi sempre autoreferenziali. C'è
infine, non da ultimo, il mai sopito desiderio di vivere appieno tutti i momenti
che concorrono alla produzione della musica, occupandosi a 360 gradi di ciò che
succede dietro le quinte (siano esse quelle di un teatro o di uno studio di registrazione).
Ho organizzato il mio primo concerto jazz nel liceo dove mi ero appena diplomato,
nel 1974, con Renato Geremia, Mauro
Periotto e Toni Rusconi, quello che da lì a poco sarebbe diventato il trio OMCI.
Come reperite i nuovi talenti?
I nuovi talenti arrivano un po' da soli ormai … All'inizio molte scelte erano frutto
dell'assidua frequentazione della scena concertistica regionale (ma anche nazionale,
come critico), qualche volta arrivavano dai suggerimenti di amici musicisti. Poi
con la crescita della fama dell'etichetta, come sempre succede, sono cominciate
a fioccare le proposte per pubblicare registrazioni inedite, spesso frutto del lavoro
di musicisti molto giovani. Casuale ma subito proficuo si è rivelato l'incontro
nel 2000 con Paolo Botti, che pur viveva
molto lontano dalla mia città, a Milano. Per rimanere più vicini ad oggi, un'opera
prima di cui sono orgoglioso, che mi è arrivata grazie al suggerimento di Michele
Calgaro, è quella del giovane sassofonista Antonio Gallucci, "The
cost of freedom" (2012). Nel
1998 Caligola ha pubblicato anche il primo disco
da leader ("Suspended steps") di
Francesco Bearzatti,
fra i migliori allievi di Maurizio Caldura allora, ed oggi assoluto protagonista
del più creativo jazz europeo. Altro musicista che ha pubblicato con noi tutti e
tre i suoi dischi da leader è il batterista
Marcello Benetti,
da due anni trasferitosi a New Orleans. Voglio infine ricordare la scoperta degli
Omit Five, quintetto nato all'interno del Biennio Jazz del Conservatorio di Rovigo,
e che ha pubblicato il suo primo lavoro due anni or sono con la nostra etichetta.
Come scegliete i musicisti?
Non c'è una regola generale che vale per tutte le pubblicazioni. Innanzitutto abbiamo
mantenuto vivo il rapporto con alcuni musicisti, più o meno della mia generazione,
che si sono avvicinati alla nostra etichetta anche dopo aver già inciso per altri,
ma che poi non ci hanno più abbandonato, come Maurizio Caldura (fino alla
sua prematura scomparsa, avvenuta nel gennaio 1998),
Marcello Tonolo, Giuliano Perin,
Marco Tamburini, Claudio Cojaniz, Francesco Branciamore,
Marco Ponchiroli o
Domenico Caliri.
Poi ci sono naturalmente le "new entry", che cerco, non senza fatica, di contenere.
Si allarga così a dismisura la "famiglia Caligola". Confesso che se qualche volta
vale l'innamoramento a prima vista di una registrazione, di un gruppo o di un musicista,
e quindi il disco nasce quasi come una necessità, in tempi rapidi, altre volte viene
premiata la pazienza di quei musicisti che riescono ad aspettare i nostri tempi
decisionali. Questa difficoltà a mantenere un costante equilibrio fra produzioni
e risorse disponibili, di questi tempi quanto mai necessario, ci ha fatto perdere
– e me ne rammarico – delle belle opportunità, come il primo lavoro da leader della
contrabbassista Silvia Bolognesi, o quello che doveva essere il terzo disco
con il quartetto "Four" (e con Caligola, ma così non è stato) di
Claudio Fasoli ("London Tube"), cui rimango ancora
molto legato. Siamo arrivati, grazie ad amici musicisti italiani, anche ad artisti
internazionali come
Rachel Gould
e Christian Escoudè,
Anthony
Braxton e Gileno Santana, e di questo siamo orgogliosi. C'è poi
il rapporto, anche questo consolidato, con mio fratello Massimo Donà, celebre
filosofo ma anche originale trombettista, pur non a tempo pieno. Ha comunque inciso
quattro album per la nostra etichetta, ed altri due dischi sono usciti allegati
a dei suoi libri pubblicati da Bompiani.
Quali sono le vostre politiche relative alla distribuzione?
Da ormai otto anni il nostro distributore esclusivo è IRD. Da un decennio tutti
i nostri dischi sono presenti anche in tutti i principali siti digitali (iTunes
"in primis" naturalmente). IRD cura anche le vendite all'estero, soddisfacenti soprattutto
nel mercato giapponese. Ma com'è noto da almeno un quinquennio il compact-disc è
entrato in una lenta e progressiva crisi che ne sta restringendo il mercato in tempi
forse più rapidi del previsto. Questo ci ha colti – ma penso di essere in buona
compagni – impreparati, anche perché lo scarico digitale, almeno per quel che riguarda
il jazz, non è riuscito ancora a compensare in modo adeguato la continua contrazione
delle vendite del cd fisico…Guardiamo con attenzione al ritorno dell'ellepì a 33
giri (ne abbiamo sin qui stampato soltanto uno, per il catalogo Gutenberg fra l'altro,
"Dremong", l'ultimo album di Max Manfredi) ed al fenomeno, pur
di nicchia, della musica ad alta definizione.
Quali mezzi utilizzate per raggiungere il vostro pubblico,
anche potenziale?
Curiamo direttamente la promozione dei nostri lavori con le riviste, le radio, i
siti web, i giornalisti più attenti. E le risposte che ci arrivano dagli addetti
ai lavori e dai media sono sin qui più che soddisfacenti. Tentiamo infine di promuovere,
pur con limitate risorse, il catalogo anche con qualche inserzione pubblicitaria
nelle riviste di settore. Cerchiamo anche, con l'associazione, di aiutare a far
suonare i nostri musicisti e quindi a circuitare e far conoscere le nostre produzioni.
Spesso non c'è promozione migliore per un disco di un concerto davanti ad un pubblico
numeroso; il tam tam di chi esce soddisfatto dalla serata portandosi a casa l'album
del musicista può valere più di una pagina pubblicitaria su una rivista.
A cosa è dovuta la crisi del disco? E' da attribuire a mp3,
peer to peer, o c'è dell'altro?
Penso che se qualcuno l'avesse scoperto probabilmente la crisi sarebbe già stata
superata. Ci sono secondo me una serie di concause generali, che sono legate alla
diffusione del digitale e dell'Mp3, alla facilità con cui si possono copiare i cd
mantenendo alta la qualità dell'ascolto, ma anche alla crescita esponenziale ed
incontrollata dell'offerta. Oggi è molto più facile (anche per i bassi costi) produrre
un compact–disc rispetto a quanto lo fosse trent'anni fa stampare un ellepì 33 giri.
C'è quindi stato, giocoforza, un abbassamento del livello medio qualitativo generale.
Il disco sempre più spesso non è il risultato naturale del lungo lavoro di un gruppo
o di un musicista, ma la fotografia di una più o meno riuscita riunione estemporanea
di musicisti. E' cresciuto di molto il livello tecnico esecutivo delle incisioni,
il virtuosismo degli strumentisti, ma sono drasticamente venute meno le urgenze
e necessità espressive, la voglia di rischiare, di faticare per portare avanti pazientemente
un progetto od un lavoro di ricerca. Ha infine accelerato la crisi del disco, pur
non avendola provocata, anche la scellerata politica dei prezzi praticata dalle
major. C'è poi una causa più strettamente legata al nostro paese, l'Italia. Pur
avendo noi alle spalle una straordinaria cultura musicale, che nel ‘600 e
'700 ha avuto pochi rivali nel mondo, oggi la
musica è posizionata all'ultimo posto nei desideri del consumatore medio italiano.
Il "sentire comune" ritiene più "utile e necessario" spendere 10 euro per due birre
che per un disco, che tanto poi lo si può scaricare gratuitamente nella rete … Anche
le "quotazioni" dei protagonisti della cultura assegnano oggi nel nostro paese molto
più valore alla parola che alle note musicali. Teatro e letteratura, scrittori e
filosofi, destano molto più interesse che la musica ed i musicisti. I festival dedicati
alla letteratura o ad altri settori culturali, dall'economia al teatro, hanno ormai
da tempo superato di gran lunga in Italia i festival musicali (comprendendo in questi
anche tutti i diversi generi, dalla classica al jazz). Ciò trent'anni fa era impensabile.
Qual è lo scenario futuro?
Non sono ottimista. Non prevedo miglioramenti a breve termine, né in Italia né in
Europa. La profonda crisi che sta mettendo a dura prova le economie europee da ormai
un quinquennio, se da un lato aggiunge benzina al fuoco, dall'altro può però operare
una necessaria selezione meritocratica. Chi saprà cogliere per primo i nuovi segnali
e si adeguerà alle mutate esigenze del mercato potrebbe addirittura trarre vantaggio
dalla crisi. Se il pubblico ed i consumatori sembrano allontanarsi dalla musica,
e dal jazz in particolare, cresce al contrario il numero e la preparazione dei musicisti
che conservatori e scuole musicali continuano a formare. C'è in questo momento un
evidentissimo squilibrio, nel jazz italiano addirittura macroscopico, tra domanda
ed offerta.
Per combattere il nemico comune non sarebbe meglio coalizzarsi?
Quali sono gli ostacoli alla creazione di un consorzio o un network?
Mettersi insieme – con presupposti ed obiettivi che devono però avere dei principi
condivisi – può essere una delle soluzioni. I consorzi ed i network faticano anche
nel campo economico in Italia, paese ricco di geniali individualità, ma spesso molto
anarchiche, tanto più nei campi dell'arte e della musica, massima espressione della
personalità e dell'unicità dell'individuo. Bisogna comunque provarci, creando sinergie
fra chi si occupa di spettacolo dal vivo (e quindi gli organizzatori) e chi di produzione
discografica. In mezzo, fra incudine e martello, ci sono i musicisti, chiamati anche
loro (anarchici per natura) a coalizzarsi per il bene comune. C'è poi, come sempre,
la grande questione delle rappresentanze, costrette spesso a mediare fra interessi
qualche volta contrastanti.
Anche le major non godono un buon stato di salute. In periodi
di crisi è meglio essere "più piccoli"?
Le major intese come industria discografica tradizionale sono da tempo in crisi.
Molte addirittura sono uscite di scena. Internet e la rete hanno reso più fragili,
spesso inutili, i controlli sulla fruizione della musica. Se da un lato hanno sottratto
risorse economiche al mercato, dall'altro hanno offerto nuove interessanti opportunità
per le realtà più piccole e dinamiche, capaci di cogliere le occasioni. Proprio
l'uscita di scena delle major ha offerto spazi di inserimento prima inesistenti
alle piccole etichette. Non sono più necessari i grandi fatturati per venire considerati
importanti nella musica. Essere piccoli poi in un settore di nicchia come il jazz
non è solo una scelta, ma quasi sempre una necessità. In questi casi il contenimento
dei costi risulta indispensabile per sopravvivere.
Cosa potrebbero fare le istituzioni per migliorare e aiutare
il settore, soprattutto per la lotta contro la pirateria?
Controlli efficaci, sanzioni rapide ed esemplari sono i punti di partenza per arginare
il fenomeno degli scarichi illegali. Aggiornare le regole, non continuare a fingere
di non vedere. Ma la pirateria non è secondo me il principale problema. Una delle
questioni più importanti, direi vitale in questo momento in Italia, fa riferimento
ai criteri che governano la distribuzione dei fondi pubblici destinati alla cultura.
Senza entrare nei dettagli, nelle questioni particolari, mi preme dire che in Italia,
ma spesso anche in Europa, si privilegia il progetto rispetto al lavoro svolto.
La bella idea ed il progetto non partono quindi se non arrivano i finanziamenti.
Non sono quasi mai il culmine di un lavoro continuo ma solo un avvenimento episodico.
Il già fatto, anche di qualità elevata, il lavoro continuo e favorevolmente sperimentato,
quasi sempre premiato dal pubblico, non viene considerato di per se stesso un valore.
E' un problema che coinvolge anche la più importante società che in Italia si occupa
di musica, la Siae. Si preferisce magari premiare un progetto discografico ancora
da iniziare piuttosto che una continuità progettuale riconosciuta e documentata.
Succede così che spesso i progetti non nascono per rispondere ad esigenze artistiche,
ma soltanto per cercare di raccogliere fondi e finanziamenti.
La vostra struttura organizzativa si completa con il management?
Ritenete, comunque, che possa essere utile per completare il percorso e fidelizzare
al meglio i vostri artisti?
No, anche se con l'attività di organizzatori (associazione Caligola) ci andiamo
molto vicini. E' un'esigenza reale, molto sentita dagli artisti. In alcuni sarebbe
il naturale completamento di un lavoro che ti porta a condividere gran parte delle
scelte progettuali di un musicista. Rimane per ora un'idea, che si realizza saltuariamente
soprattutto a livello di aiuto amministrativo, ma che in futuro mi auguro possa
essere realizzata, almeno con quei musicisti, e non sono pochi, che da molti anni
ormai sono entrati nella nostra scuderia. Costituire un'agenzia di management collegata
all'etichetta è un'idea tutt'altro che peregrina, anzi. Si tratta soltanto di trovare
le risorse (umane e finanziarie) che consentano di partire.
Quali sono le difficoltà che incontrate
e qual è la tendenza del mercato dello spettacolo dal vivo?
Avevo già detto della sempre maggiore distanza che divide la domanda e l'offerta
del jazz in Italia. Sono drasticamente diminuite in quest'ultimo decennio le occasioni
concertistiche, sia quelle pubbliche, nei teatri e nei festival, che quelle private
(club e locali). Il sempre maggior numero di musicisti, soprattutto giovani, che
entrano nel mercato della musica, ha anche contribuito a diminuire sensibilmente
le quotazioni di chi la professione la fa da molti anni e con riconosciuti meriti.
Se si escludono pochi grandi (i soliti) nomi, gran parte dei migliori nostri jazzisti,
con decenni di attività professionale alle spalle, fatica sempre più a sopravvivere.
Una grande mano la sta dando in questi ultimissimi anni l'insegnamento.
A tal proposito, come giudicate lo stato di salute del jazz
attualmente (sia quello italiano, che internazionale)?
Mai il jazz è stato così ricco di eccellenti musicisti come in questo decennio,
e mai è stato così diffuso in ogni angolo del mondo. Eppure il jazz, come molte
delle espressioni artistiche tradizionali, sta attraversando da tre decenni a questa
parte un periodo di stanchezza creativa da cui fatica ad uscire. Sono scomparsi
i grandi maestri della seconda metà del Novecento – la freschezza creativa degli
anni Sessanta sembra oggi irraggiungibile – ed anche se vi sono molti interessanti
musicisti, frutto di diverse e più numerose scuole nazionali, non si vede ancora
chi potrà diventare un nuovo maestro per le future generazioni. Eppure mai come
oggi il jazz italiano ha qualità da vendere, e viene davvero apprezzato in ogni
angolo del pianeta. Spesso le performance di nostri musicisti, anche giovani, appaiono
più interessanti di quelle dei loro colleghi d'oltreoceano molto più blasonati.
Il jazz americano rimane un punto di riferimento importante ma non più esclusivo.
Il pubblico del jazz, almeno in Italia, è statisticamente
provato che sia formato perlopiù da persone over 35 anni. In altri stati, però,
ciò non succede. Secondo te quali sono i motivi di fondo? I prezzi dei biglietti
sono troppo alti? Il jazz non trova spazio negli ordinari canali di comunicazione
dei giovani? E' frutto di una crisi culturale?
Non è certamente un problema di prezzo del biglietto, mediamente molto più economico
nel nostro settore che in quello della classica o del rock. I genitori spesso fanno
sacrifici per permettere ai figli di presenziare al concerto di un loro beniamino:
ascoltare una popolare pop star, sia italiana che internazionale, magari in piedi
al'interno di uno stadio, con il rischio di prendere la pioggia e non sempre venendo
ripagati da una grande qualità dell'ascolto, può costare molto di più che non abbonarsi
ad un'intera rassegna jazz in teatro. Il problema è che il jazz è uscito totalmente
dai principali canali di comunicazione televisivi e radiofonici (quand'ero giovane
un concerto di Umbria Jazz passava in seconda serata sulla seconda rete televisiva
nazionale, oggi un concerto jazz viene al massimo trasmesso in fascia notturna sulla
terza rete radiofonica...), che la scuola lo ignora, che da tempo non è più presente
nei quotidiani e nei settimanali nazionali, e che i pochi giovani che si avvicinano
al jazz lo fanno soprattutto da protagonisti, suonandolo, più che da ascoltatori
… C'è anche da dire che ben pochi musicisti, anche fra gli studenti, frequentano
i concerti. I messaggi culturali che passano oggi attraverso i media ed internet
sono uniformi, generalisti, verrebbe da dire, anche se il termine non mi piace,
"globalizzati". Esattamente il contrario di quei valori che esaltano la specificità
dell'individuo, la sua originalità creativa – ogni musicista ricerca un "suo" suono,
e non un suono "globalizzato", che vada bene a tutti – di cui è portatore invece
il jazz.
E' un fenomeno che mi dispiace constatare, ma la tendenza
dell'Opera è quella di annoverare un pubblico sempre più giovane. Forse anche per
il fatto che molte opere sono rivisitate da registi di chiara fama che lo hanno
svecchiato parecchio. Nel jazz, però, anche lo svecchiamento non sempre porta risultati
entusiasmanti. Come mai?
Non penso si tratti di "svecchiare". Il fenomeno del ritorno all'Opera di un pubblico
giovane, riguarda una piccola parte di giovani, appartenenti soprattutto ad uno
strato sociale medio–alto. E' una questione di moda, di tendenza. Lo stesso vale
per il pubblico più anziano delle stagioni concertistiche di classica. Perché è
così fedele? Perché è difficile raccogliere più di 500 spettatori con un grande
nome del jazz internazionale, magari in esclusiva regionale, ed invece i concerti
con repertorio classico, nella stessa regione, muovono molti più appassionati? La
stagione di musica classica di un qualsiasi capoluogo di provincia po' contare su
una base stabile di qualche centinaio di abbonati. Succede invece che l'unico importante
festival jazz autunnale del Veneto, quello di Padova, riesca a richiamare in tre
serate appena poco più di mille spettatori nel prestigioso Teatro Verdi. Si parla
infinitamente di più in televisione, quando si tira in ballo l'"alta" cultura musicale,
di Riccardo Muti o di Luciano Pavarotti che non di
Sonny Rollins
o di Keith
Jarrett (ed ho chiamato in causa jazzisti sicuramente molto popolari).
Un giovane liceale, se vuole distinguersi dai coetanei per delle scelte culturali
esclusive, d'elite, preferisce andare ad ascoltare un'opera od un concerto classico
che non una serata di jazz, tanto più poi se questa si tiene nei locali, che sono
invece la vera "casa" della nostra musica … E' più "politicamente corretto"….
Non pensi che il jazz, in Italia, difetti in organizzazione
e coordinamento? Sarà forse perché lo Stato e gli enti territoriali lo tengono sullo
stesso livello delle sagre di paese (con tutto il rispetto anche per queste)?
Quasi tutte le più grandi ed importanti realtà organizzative del jazz sono nate
come espressioni del generoso volontariato di pochi appassionati. Solo dopo esser
cresciute ed essersi affermate riescono a convogliare l'attenzione delle Istituzioni
(non sempre) e quindi gli aiuti pubblici (peraltro in misura sempre minore). Se
il jazz per molti enti locali viene equiparato alle sagre paesane è solo a causa
dell'ignoranza di gran parte degli amministratori pubblici e dei loro politici di
riferimento. La mancanza di riconoscimento da parte dello Stato (Fus, etc.) è invece
più grave e colpevole. Il jazz fa pensare e mantiene liberi, per questo dà fastidio.
L'organizzazione dei concerti da parte di piccoli gruppi di appassionati, è spesso
migliore di quella che sono in grado di offrire molte istituzioni culturali pubbliche.
Il coordinamento può arrivare solo quando l'attività jazzistica sarà meglio distribuita
in ogni angolo del paese. Non serve portare il jazz in tanti piccoli comuni e paesini,
ma piuttosto concentrare la programmazione nelle città più importanti delle varie
regioni. Non sempre infatti "piccolo è bello". Più comuni concorrenti che in un
territorio ristretto programmino jazz autonomamente, durante l'arco dell'anno, possono
rischiare di sprecare inutilmente risorse che invece, se messe insieme, potrebbero
dare molto di più agli appassionati di quella stessa area. In Italia siamo spesso
troppo campanilisti. Non sono distanze di 20/30 km a spaventare il pubblico se la
proposta artistica è realmente interessante.
La diversificazione del prodotto artistico, e quindi discografico,
anche al di fuori dell'ortodossia jazzistica, può essere utile, oppure ritenete
migliore la specializzazione in un singolo settore musicale?
Riteniamo la diversificazione del prodotto artistico importante. Caligola Records
si identifica con il jazz ma non ama essere circoscritta ad un preciso genere jazzistico.
Cerca piuttosto di ospitare, al suo interno, tutti i diversi linguaggi del jazz,
con le uniche riserve legate alla qualità e all'originalità delle proposte. Abbiamo
poi sentito l'esigenza di superare anche una pur così aperta visione del jazz creando
nel 2010 un nuovo catalogo discografico, Gutenberg
Music, dedicato alla canzone d'autore ed al rock. Pur cercando di perseguire la
massima apertura all'interno di uno stesso settore musicale, quello del jazz, abbiamo
ritenuto inutile, forse anche dannoso per il riconoscimento del marchio, inserire
nello stesso catalogo un'eccesiva pluralità di generi musicali. Dopo vent'anni Caligola
Records viene identificata suo malgrado con il jazz, e sarebbe stato poco conveniente
inserire quindi al suo interno prodotti appartenenti a settori musicali completamente
diversi. Ciò danneggerebbe anche il musicista che, se completamente estraneo alla
linea artistica del catalogo di appartenenza, sarebbe difficilmente riconoscibile
dal suo pubblico.
Quali sono i prossimi progetti?
Caligola Records da qualche tempo a questa parte mette in cantiere fra le 15 e le
20 produzioni all'anno. Il 2014 si è chiuso
con due eccellenti lavori, pregevoli anche dal punto di vista compositivo, "Crazeology"
di Marcello Tonolo e "Camera lirica" di
Domenico Caliri.
Oltre ai nuovi dischi di
Marco Castelli,
Massimo De Mattia (che sarà il nostro primo album doppio), Francesca Bertazzo
Hart, Nicola Dal Bo e Michele Calgaro, tutti realizzati da piccoli
gruppi, sono fiero di annunciare che anche il 2015
sarà caratterizzato da almeno due produzioni di più ampio respiro (benché più difficili
da realizzare sono anche quelle che danno maggiore soddisfazione). Si tratta di
due progetti già positivamente sperimentati, in un concerto trasmesso in diretta
su Radio Tre la "Fabbrica dei Botti", largo ensemble diretto da Paolo Botti,
ed al festival friulano di San Vito le "Hispanish & Blues Songs" del nuovo sestetto
di Claudio Cojaniz, che probabilmente registreremo dal vivo. C'è poi in cantiere
il primo lavoro di un trio davvero stellare, composto da Baba Sissoko,
Don Moye ed
Antonello
Salis. Mi auguro vada in porto: sarebbe un disco molto importante per
la nostra etichetta.
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Data pubblicazione: 05/01/2015
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