Umbria Jazz 2019 Wake Up! Music Will Save The Planet! Perugia, 12-21 luglio 2019 di Aldo Gianolio foto di Elena Carminati
Alla fine ha sempre ragione Umbria Jazz. Anche per l'edizione
2019 il successo di pubblico è stato strabordante,
vieppiù cresciuto rispetto al passato (oltre quarantamila paganti e mezzo milione
di persone che hanno assistito ai concerti gratuiti), ci sono state grande qualità
e grande varietà di proposte musicali, con due principali novità logistiche accolte
con grande favore: la riapertura della chiesa sconsacrata di San Francesco al Prato,
trasformata dopo il restauro in moderno auditorium; e il battesimo della nuova sede
in via della Viola per le jam session notturne e, la mattina e il pomeriggio, per
Umbria Jazz For Kids animata da centinaia di bambini,il che è un bellissimo vedere.
Altre cifre, tanto per rimarcare la dimensione di uno dei festival più importanti
del mondo: nei dieci giorni di programmazione (dal 12 al 21 luglio), Perugia ha
presentato trecento concerti, per la maggior parte gratuiti, in dodici diversi luoghi
(fra cui l'Arena Santa Giuliana per quelli più rilevanti serali, il Teatro Morlacchi
e la Sala Podiani della Galleria Nazionale dell'Umbria) con novantacinque band in
cartellone, quasi cinquecento musicisti coinvolti e milioni di persone raggiunte
tramite internet (ovverosia il sito ufficiale di Umbria Jazz, facebook, instagram,
twitter). Questa edizione ha inoltre visto l'inizio di un cammino che impegna il
festival nella difesa dell'ambiente con molte iniziative contenute nello slogan
"Wake Up! Music Will Save The Planet!".
Fra tanto bailamme i concerti che ci sono maggiormente rimasti nella memoria sono
stati: fra gli spettacoli jazzistici, il nuovo quintetto di
Charles
Lloyd e (anche se si può definire un concerto di third stream,
quindi a metà strada fra jazz e musica sinfonica) la suite "Seven Dreams" di
Uri Caine;
fra quelli extra-jazzistici, il recital di Paolo Conte e la performance dei
King Crimson.
Charles
Lloyd a ottantuno anni continua a mediare tradizione con contemporaneità,
non innovando nel vero senso della parola il proprio linguaggio solistico (il che
comunque non sempre è sinonimo di qualità), ma aggiustandolo con una caratterizzazione
più scarna e insinuante e soprattutto aggiornando il contesto, cioè composizioni,
arrangiamenti e orientamento stilistico, grazie anche alla scelta dei compagni di
viaggio, fra i migliori giovani talenti in circolazione (è lo stesso approccio di
Enrico Rava,
di un anno più giovane e di cui parliamo più avanti): Eric Harland è alla
batteria e Reuben Rogers al basso elettrico, suoi compagni da diversi
anni; new entries sono invece i due bravissimi chitarristi ai quali è stato
concesso molto spazio: Julian Lage e Marvin Sewell. Proprio su di
loro si è incentrata la costruzione musicale, con Lloyd insinuandosi nei loro intrecci,
spesso fitti e ben risonanti e i loro numerosi assolo, diversi stilisticamente (Sewell
è più legato alla tradizione moderna nera di Wes Montgomery e Grant Green, Lage
a quella bianca di Jim Hall e
John Scofield),
hanno preso il sopravvento sull'economia generale, con il mellifluo insinuarsi di
Lloyd che si è sviluppato in improvvisazioni swingate con disarticolato fervore,
come se fosse un moderno Lester Young. I brani, molti di sua composizione, come
Defiant, Dismal Swamp e Tagi (eseguito come bis) o di altri
diversi autori, come A Flower Is A Lovesome Thing di Billy Strayhorn,
Lift Every Voice And Sing dei due fratelli Johnson, diventato l'inno ufficiale
degli afro americani, e Ay Amor di Bola de Nieve, si sono svolti per molti
minuti, dai 10 ai 15 ciascheduno, battendo territori increspati.
Di tutt'altra specie il lavoro di
Uri Caine
che ha presentato una complessa composizione sinfonica, una suite in sette movimenti,
"Seven Dreams", commissionata appositamente per l'inaugurazione della chiesa di
San Francesco restaurata, luogo che ha ospitato alcuni dei concerti che hanno fatto
la storia di Umbria Jazz (Gil Evans, Carmen Mcrae, Liberation Music Orchestra).
Il restauro l'ha trasformata in un moderno auditorium (con i pregi e i difetti,
anche di acustica, che hanno in genere i moderni auditorium), ma rimanendo pur sempre
la vecchia chiesa sconsacrata che molti dei presenti tenevano con emozione nei propri
ricordi per i fasti dei concerti passati. Uri Caine ha presentato un capolavoro.
Di non facile lettura (e ascolto), molto complesso, tumultuoso e disarmonico nella
sua armonicità, che si è tradotto in un concerto per trio jazz (lo stesso Caine
al piano e alle tastiere, Mark Helias al contrabbasso e Clarence Penn
alla batteria), e orchestra sinfonica, formata dall'unione dell'Umbria Jazz Orchestra
e dell'Orchestra da Camera di Perugia, diretta dal maestro (e sassofonista) Manuele
Morbidini. Un'operazione tipicamente di third stream, come s'è detto,
che ha trovato perfettamente amalgamate le due sezioni (jazzistica e sinfonico-orchestrale)
in alternanze strutturali calibrate dove la scrittura s'è magnificata in complessità
tumultuose e semoventi, in plumbee sovrapposizioni cumuliformi che hanno dato il
presentimento dell'arrivo di una tragedia (che poi non è arrivata) e che hanno nascosto,
rendendole irriconoscibili a causa della articolata massiccia elaborazione formale,
le tracce sulle quali Caine ha costruito il suo castello di molteplici ed espanse
sonorità: i Madrigali tratti dal Quinto Libro di Gesualdo da Venosa.
Così il rigoglioso vigore di ritmi, l'insistente motorismo, gli accenti e le divisioni
irregolari, le ardite armonizzazioni corrusche e piene d'impennate melodiche che
si arrovellano in ondate che ricominciano sempre da capo non facendo intravedere
nessuna via d'uscita, i cambi di toni e atmosfere, l'apoteosi delle sonorità, i
piano e i forte alternati fra inquietanti glissando, fanno
intravedere elementi stravinskiani, sostakoviciani, gershwiniani, bernsteiniani,
prokofieviani, honeggeriani, coplandiani, ellingtoniani e russelliani (ma anche
di Leigh Harline autore della colonna sonora di Musicland, una Silly Simphony
disneyana). Non c'è trasparenza minimalista, solo densità modernista che si converte
in una sorta di "modernismo antimoderno" (per citare un ossimoro di Milan Kundera),
un tumulto tribale reiterato, corposo e magmatico che si tiene fuori dalla logica
del "progresso perpetuo" e si avvicina all'Apocalipsis Cum Figuris di Leverkuhn,
che è ravvivato, per usare le parole di Thomas Mann, "dai più svariati generi musicali,
nei quali trova sfogo l'insipida arroganza dell'inferno: una giostra variopinta
e scintillante, di là dal linguaggio-base dell'orchestra centrale che, severa, oscura,
difficile, mantiene con preciso rigore il livello spirituale dell'opera".
Paolo Conte (già stato a Umbria Jazz nel 2001, 2009 e 2015 ) e i King
Crimson si sono esibiti all'Arena Santa Giuliana. Conte, accompagnato in modo
impeccabile dalla sua band di undici eccelsi musicisti, ha cantato con elegante
ruvidezza e ammiccante nonchalance alcune delle canzoni del suo vasto repertorio,
fra cui Alle prese con una verde Milonga, Messico e nuvole, Come
di, Gli impermeabili, Vieni via con me, Max e Diavolo
Rosso, per la quale ultima ci piace perlomeno segnalare, per la curiosa assonanza
del nome, la bravura del violinista Piergiorgio Rosso. In questo suo "50
years of Azzurro" Conte però, Azzurro, non l'ha cantata.
I King Crimson erano invece in tour per il 50.mo anniversario dalla fondazione.
Nulla è stato lasciato al caso nel loro concerto musicalmente, sonoricamente e tecnologicamente
perfetto, musica dall'inebriante coesione di un denso espressionismo visionario.
Dei componenti originari c'erano solo Robert Fripp, che ha guidato la band come
se fosse stato nel suo studio, tra chitarra, synth e mellotron, e il sassofonista
Mel Collins. Toni Levin prezioso ed esperto al basso elettrico e al contrabbasso
era invece arrivato in un secondo momento, mentre il canto e la seconda chitarra
sono stati affidati a Jakko Jakzyk; ma quello che ha dato una marcia in più rispetto
alle riproposizioni quasi filologiche dei brani che hanno fatto la loro storia (In
The Wake Of Poseidon, Epitaph e Starless, a cui sono seguiti,
nel secondo tempo, i brani degli anni Ottanta e Novanta come Drumzilla,
The Construktion Of Light e Indiscipline) è stato l'uso magistrale
di tre batterie, diventate punto focale di tutto il concerto: i batteristi Gavin
Harrison, Pat Mastellotto e Bill Rieflin (quest'ultimo anche alle tastiere) erano
come ballerini che danzavano con sincrone movenze perfettamente uguali o si differenziavano
in intrecci di passi complicatissimi, sembrando perdersi nel cammino, ma sempre
finendo insieme come cronografi svizzeri (come bis, 21st Century Schizoid Man).
Dei rimanenti concerti all'Arena Santa Giuliana, alcuni non li abbiamo potuti ascoltare
(Robben Ford), altri sono troppo lontani dal jazz per parlarne (Alex Britti
e Max Gazzè, Richard Bona, Nick Mason, Thom Yorke,
Lauryn Hill), ma altri ancora hanno offerto jazz di qualità. L'elegante cantante
nat-king-coliano Allan Harris ha fatto da apripista alla cantante e pianista
Diana Krall che si è presentata con un gruppo stellare formato da Joe
Lovano al sax tenore, Marc Ribot alla chitarra, Robert Hurst al
contrabbasso e Karriem Riggins alla batteria. La Krall si è cimentata con
alcune celebri canzoni del songbook americano, da All Or Nothing At All a
I've Got You Under My Skin, Just Like a Butterfly e Cry Me A River,
trattate alla sua maniera, modificando con abbellimenti melodici o spostamenti ritmici
delle frasi o cesure e sospensioni che hanno frammentato le melodie, il tutto con
una sonorità brumosa e un atteggiamento un po' sbarazzino e di finto disinteresse.
Scarno e nervoso è stato anche il suo pianismo, mentre gli accompagnatori, formidabili
presi uno per uno, per quello che riguarda Lovano e Ribot non hanno trovato la quadra
della coerenza espressiva e formale: Lovano è stato perfettamente a proprio agio
con la Krall, meno con Ribot; Ribot, un po' un pesce fuor d'acqua in generale, ha
conferito, soprattutto negli interventi solistici, una potenza espressiva inusitata
cambiando i connotati della rappresentazione.
Michel Camilo
al piano solo ha strabiliato per la tecnica, divertendo il pubblico con brani pirotecnici,
molti "latin", ma anche esibendo aspetti pacatamente lirici rivelando la propria
formazione di musicista classico.
George Benson ha soprattutto cantato, lasciando alla sua chitarra solista
solo i due brani d'apertura (Lady e At The Mambo Inn) con cui ha dato
saggio della sua incontaminata maestria, poi proseguendo col canto da croner, pop
al cento per cento, ineccepibile "musicalmente" (Being With You, In Your
Eyes, Give Me The Night, The Greatest Love Of All).
Chick Corea
con la sua Spanish Heart Band è ritornato alla musica che ha nel DNA, quella
"latin", nella fattispecie quella spagnola, rivisitando materiale dai suoi album
classici "Touchstone" e "My Spanish Heart", con versioni diverse dagli originali
presentate con una formazione includenteil chitarrista di flamenco Nino
Josele, il sassofonista/flautista Jorge Pardo, il bassista Carlitos Del Puerto,
il percussionista Luisito Quintero, il batterista Marcus Gilmore, il trombettista
Michael Rodriguez, il trombonista Steve Davis e persino il ballerino
di flamenco Nino de los Reyes.
Corea, in uno stato d'animo gioioso suo abituale, ha presentato uno spettacolo multiforme,
pieno di colori e forme, basato soprattutto sugli intrecci poliritmici (non solo
delle percussioni), che ci ha ricordato come egli rimanga uno dei musicisti più
eclettici, versatili e trasversali espressi dal jazz; le poche volte che ha sviluppato
assolo col piano ha evidenziato ancora una volta un attacco e un'articolazione
delle frasi chiari e puliti, un tocco percussivo che convive con una luminosa sonorità
ridondante, l'uso di abbellimenti barocchi e tempi complicati (aiutato dal suo essere
eccellente batterista), un modo di accompagnare per grappoli di accordi alterati,
che formano progressioni armoniche a-funzionali.
Gli Snarky Puppy, guidati dal bassista Michael League (con Mike Maher alla
tromba, Chris Bullock al sax, Bob Lanzetti alla chitarra, Bill Laurance che al piano
ha interagito alla perfezione con il nuovo arrivato Bobby Sparks all'organo Hammond
e alle tastiere, i bravissimi Marcelo Wolosky e Larnell Lewis alle batterie), vanno
oltre i Weather Report e il
Pat Metheny
Group, recuperando sonorità e sviluppi melodico-ritmici adeguati ai nuovi tempi
e alle nuove realtà metropolitane, dando vita a un tipo di fusion inedito con l'innesto
su una base ancora fondamentalmente rhythm and blues, di stilemi rock e soprattutto
hip hop, in un mix di grande impatto sonoro in cui costantemente aleggia l'elettronica
(presentati alcuni brani tratti dagli ultimi album "Culcha Vulcha" e "Immigrance",
fra cui Even Us, Palermo e Bad Kids To The Back).
Anche il tenor sassofonista Kamasi Washington ha usato due batterie (ma sia le sue
che quelle degli Snarky Puppy non hanno raggiunto la spettacolare perfezione del
complicato intricamento poliritmico delle tre dei King Crimson): queste di Washington,
prettamente "afro", hanno sviluppato trame percussive basate sui tipici ossessivi
brevi cicli poliritmici ritualistici che finiscono nel battere; coadiuvate col medesimo
andamento da Miles Mosley al contrabbasso, Brandon Coleman alle tastiere, suo padre
Rickey Washington al soprano, Ryan Porter al trombone e Patrice Queen al canto,
Kamasi ha proceduto con caldo fervore su queste trame spesso funkeggianti, esasperando
il suoni e il fraseggio, con frequenti richiami all'Africa e con palese drammaturgia
protestataria e religioso-mistica (fra i brani suonati Show Us The Way,
Truth, Fists Of Fury). Kamasi ha ostentato i suoi muscoli e la sua
forza anche quando ha partecipato alle jam session che ogni notte si effettuavano
al Melies Jazz Club di via della Viola, jam session che hanno visto unirsi all'eccellente
gruppo di base (Piero
Odorici e Daniele Scannapieco ai sax,
Andrea Pozza
al piano, Aldo Zunino al contrabbasso e Anthony Picciotti alla batteria)
molti jazzisti in cartellone, come
Fabrizio Bosso,
Benny Green, Bobby Watson, Bryan Lynch e
Roberto
Gatto.
Per finire con i concerti all'Arena, c'è da citare la performance intitolata "A
Christian Mcbride Situation" imperniata sulla figura del grande contrabbassista
McBride che però, pur facendoci ammirare la suprema maestria allo strumento del
leader, è risultata troppo dispersiva e poco omogenea, con ospiti i più disparati,
tipo Ron Blake, Patrice Rushen, Allison Williams Dj Logic e Jahi Sundance
Lake.
Passiamo ora ai concerti per piccoli gruppi o per strumenti soli tenuti in una atmosfera
raccolta e quasi chiesastica (da encomiare) alla Sala Podiani della Galleria Nazionale
dell'Umbria, serie intitolata, per fare il verso a celebri dischi di
Dave Brubeck,
"Jazz Goes To The Museum". Non abbiamo avuto modo di ascoltare il duo
Gianluigi
Trovesi /
Gianni Coscia,
il trio Gabriele Mirabassi / Roberto Taufic / Cristina Renzetti,
il duo Fabrizio
Bosso / Julian Oliver Mazzariello e quello
Raffaele Casarano
/ Eric Legnini (che ci hanno riferito ottimamente riusciti).
Il trio di Fred Hersch non ha tradito le aspettative di chi lo considera
fra i più creativi e pregevoli pianisti sulla scena, di fatto non molto conosciuto
dal più ampio pubblico come invece lo sono i due che stilisticamente gli sono in
qualche modo più vicini,
Keith
Jarrett e Brad Mehldau, tutti avendo avuto
Bill Evans
come primo modello. Dei tre, Hersch è il più resistente alle derive romanticheggianti,
alle quali contrappone un raffinato intimismo impressionistico, accompagnato da
una metodica a-sentimentalità quasi glenn-gouldiana. Passati i sessant'anni e dopo
quaranta di attività, Hersch ha raggiunto artisticamente la più alta maturità, testimoniata
dallo stato di grazia dell'esibizione perugina. Accompagnato da John Herbert
al contrabbasso ed Eric Mcpherson alla batteria, con i quali ha affinato,
in anni di collaborazione, un'intesa perfetta, che porta il dialogo reciproco, estremamente
aperto ed elastico, a una piena concordanza di intenti e risultati, il pianista
ha approcciato ognuno dei brani eseguiti (quasi tutti di sua composizione, come
Plainsong, Havana, Sad Poet e Dream Of Monk, oltre a
due proprio di Monk, Round About Midnight e Wee See) da angolature
diverse, può essere quella di Evans - Lennie Tristano, di Evans - Paul Bley,
di Evans - Bud
Powell o di Evans - Thelonius Monk; sempre però "ingentiliti", addirittura
"raffreddati" dal suo tocco delicato e soffuso, a volte asettico, classicheggiante
in qualche passaggio debussiano e persino bachiano. L'intensità drammatica non è
mai calata grazie a una costante febbrile tensione attraverso cui si sono fusi in
un equilibrio magistrale rigore formale e fantasia visionaria.
Tutti i concerti alla Sala Podiani sono stati di alto livello: il piano solo di
Kenny Barron,
uno dei maestri del jazz moderno, ha dato la misura di come si diventi "classici"
riuscendo ad essere ugualmente contemporanei e dicendo qualcosa di sempre attuale.
Oggi Barron si è ritirato elegantemente in un mondo a parte, zeppo di scrigni a
loro volta pieni di preziosi gioielli, dove rilegge nel suo modo "classico" gli
artisti che riverisce (Gillespie, Monk, Veloso, Gershwin), nei loro brani illuminando
passaggi ed evidenziando percorsi con il suo stile di suadente bellezza.
L'approccio di Joachim Kuhn al piano solo è stato invece più direttamente
rivolto alla contemporaneità, già come impostazione, avendo scelto come repertorio
composizioni di
Ornette
Coleman, che in passato lo stesso Kuhn ha affrontato diretto dallo stesso
Coleman, e altre da lui composte ispirate alla sua musica, che sono risultate più
fredde rispetto a quelle di Coleman, come se fossero scientificamente analizzate
attraverso un pianismo rigoroso, ma emancipato e aperto, a tratti tormentato.
A distanza di pochi giorni c'è stato il confronto di due performance di piano solo
di due giovani italiani di grande abilità e pregio: Enrico Zanisi ha proceduto
per vie estremamente meditative, lineari, contemplative e allusive; Giovanni
Guidi per vie più snodate attraverso ampi saliscendi, vie più dinoccolate nel
mettere a fuoco immagini musicali proprie, prendendo spunto da melodie di canzoni
famose, americane e italiane (di Tenco ed Endrigo), a volte solo accennate, altre
sviluppate in modo da nasconderne i connotati, con un pianismo che nella sua sicurezza
esprime perplessità, nel suo brio esprime snervamento, essendoci comunque sempre
irrequietezza, dubbio e introspezione.
Altre apprezzate raffinate ed eleganti prove artistiche si sono eseguite alla Sala
Podiani: Il bandeonista
Daniele
Di Bonaventura, il pianista Giovanni Ceccarelli e il violoncellista
Jacques Morelenbaum, con educato ritmo e sofisticato incedere, mescolando spleen
mediterraneo a quello tipico brasileiro, hanno esplorato melodie e armonie di alcune
celebri canzoni di Tom Jobim; Mauro Ottolini ha lasciato da parte
temporaneamente il suo trombone per dedicarsi a suonare una vera e propria batteria
di conchiglie, sorprendente e divertente al tempo stesso; il contrabbassista
John
Patitucci ha suonato sia in solo, dove ha esibito il suo alto magistero
tecnico-musicale, sia in trio con
Danilo
Rea al piano e
Roberto
Gatto alla batteria, con gli stili rigogliosi dei quali s'è conformato
nel modo migliore.
Per ultimo abbiamo lasciato apposta il pianista Benny Green, che pure lui s'è esibito
in solo alla Podiani, ma che è stato un po' una linea rossa che ha unito
le varie sezioni del festival in tutta la sua durata. Nella performance in perfetta
solitaria ha sedotto il pubblico con una tecnica straordinaria sposata a raffinatezza
e swing incessante e fantasia melodica, avendo trovato il suo modello principale
in Oscar Peterson, ma anche in Thelonious Monk (Rocky Mount, 10 ottobre
1917 – Weehawken, 17 febbraio 1982) e Teddy Wilson; pianisti per certi versi
stilisticamente opposti, ma che in lui, con la preponderanza del virtuosismo petersoniano,
trovano un mediato equilibrio con sprazzi dell'uno o dell'altro che estemporaneamente
saltano fuori. Questo suo stile, seppur più contenuto per la diversa funzione svolta,
è risaltato anche col suo trio (David Wong al contrabbasso e Aaron Kimmel
alla batteria) in accompagnamento della cantante Veronica Swift tutti i tardi
pomeriggi alla Sala Sina dell'Hotel Brufani. La Swift, fra le più dotate giovani
cantanti emergenti nell'area di New York, ha affascinato con una intonazione perfetta,
con le variazioni, spesso minimali, delle melodie delle celebri canzoni interpretate
attraverso contrazioni o dilatazioni di frasi o spostamenti ritmici, e con l'uso
spumeggiante, ma al contempo misurato, dello scat che senza mai andare a finire
nella ridondanza (il che è facile anche nei più consumati vocalist) esplica con
perfetta dizione anche nei passaggi più difficili.
E Green non si è fermato alle sue esibizioni ufficiali, di cartellone. Ha altresì
partecipato diverse volte alle jam session notturne di cui si è accennato, e in
particolare in quella con Kamasi Washington, preso dall'impeto della esibizione,
ha cominciato a picchiare la tastiera come un forsennato, producendo suoni aggriccianti
e addirittura arrivando a cluster martellanti. E pensare che alla sala Podiani era
stata memorabile la sua interpretazione di My Funny Valentine, versione
struggente, lentissima e spaziata al limite del silenzio.
Il Teatro Morlacchi ha offerto, oltre Lloyd, molti altri musicisti di jazz "vero
e puro", cioè moderatamente o non "contaminato" di elevato livello, con una folta
rappresentanza italiana. Per cominciare, quelli che possono essere considerati i
nostri tre maggiori solisti di tromba oggi in attività (maggiori sommando la qualità
artistica con il costante grande successo di pubblico):
Enrico Rava,
Paolo Fresu
e Fabrizio Bosso. Enrico Rava
con il suo "80th Anniversary World Tour" (affrontato con formazioni diverse, qui
con Enrico Morello alla batteria, Gabriele Evangelista al contrabbasso,
Giovanni Guidi al pianoforte, Francesco Diodati alla chitarra e
Francesco Bearzatti
al sax tenore e clarinetto) ha trovato nuovo vigore, nuovo entusiasmo, nuovo mordente.
Passato al flicorno, che gli consente una maggior duttilità di fraseggio e rotondità
di suono, ha suonato suoi temi come Lavori Casalinghi, Theme For Jessica,
Ballerina, Le solite cose (proposto in trio con chitarra e sax),
Interiors, Lulu e The Ferness Five. Giovanni Guidi ha
confermato anche in funzione di accompagnatore lo stato di forma e di maturità raggiunto
già manifestato alla sala Podiani in solo; Francesco Diodati ha mantenuto
i suoi interventi bruschi e visionari inaugurando inedite sonorità mescolandosi
con il più avvolgente Guidi; mentre il nuovo arrivato Bearzatti s'è ben inserito
con la sua foga scanzonata e sulfurea nelle consuete trame impostate da Rava.
Paolo Fresu
s'è esibito in duo con il contrabbassista Lars Danielsson nello spettacolo "Summerwind",
dove ancora una volta il trombettista, come in qualsiasi contesto si trovi ad agire,
suona sempre splendidamente: anche qui, con l'eccellente bassista Danielsson dalla
cavata potente e dal suono rotondo, rimane sempre uguale a sé stesso, con dizione,
suono e costruzione delle frasi mirabili.
Se Rava cambia i componenti dei suoi gruppi cercandoli e trovandoli fra chi meglio
rappresenta la contemporaneità; e se Fresu invece li cambia per passare da un genere
all'altro, jazz, musica etnica, popolare o classica che siano; Bosso dal canto suo
ha un approccio più storicistico, non disdegnando di interpretare stili jazzistici
del passato più o meno recente. Al Morlacchi, in compagnia del gruppo del trombonista
Mauro Ottolini e grazie a lui, è andato indietro sino ai primi decenni del
XX secolo, quando il jazz si faceva le ossa a Storyville, quartiere malfamato di
New Orleans che fu chiuso nel 1917, rivisitando con arrangiamenti sapienti e divertenti
dello stesso Ottolini), brani se non proprio di quel periodo degli anni Venti e
Trenta, molti di William Christopher Handy, che hanno visto partecipare con appropriati
interventi Vanessa Tagliabue Yorke al canto (bravissima nella riproposizione
di uno dei picchi artistici nella storia del canto jazz, Swing, Brother Swing
nelle versioni di Billie Holiday),
Paolo Birro
al piano (uno dei nostri più completi e raffinati pianisti, che si è superato nella
sua visione modernizzata di The Crave, un brano stupendo di Jelly Roll
Morton (October 20, 1890 – July 10, 1941)), Glauco
Benedetti al contrabbasso e Paolo Mappa alla batteria. Ottolini è calato
perfettamente nella parte recuperando la gutturalità di Kid Ory, ma mantenendo
un fraseggio moderno, e Bosso come sempre ha strabiliato con una tecnica che in
lui diventa così naturale che ad essa non si fa nemmeno più caso, pronta anche nel
recuperare tutti gli accidenti stilistici hot propri del periodo, attacchi
al fulmicotone, suoni aspri e strozzati, smear, uso di sordine plunger e forte vibrato,
facendo risaltare la bellezza dell'eloquio e la comunicatività.
Bosso, come s'è accennato, avrebbe partecipato anche alle jam session notturne infuocando
l'ambiente; a proposito ci viene in mente quando a Umbria Jazz si tenevano le jam
session da Celestino e si era sparsa la voce che ci sarebbe stato Wynton Marsalis;
entrando nel piccolo locale strapieno con tutta la gente in piedi, stava producendo
un assolo strabiliante un trombettista che non potevamo sul momento individuare
e ci eravamo detti: Accidenti, Wynton, come suona! Ma non era Wynton, bensì un giovanissimo
Fabrizio Bosso.
Sempre al Morlacchi l'alto sassofonista
Rosario Giuliani
ha suonato alla testa del quartetto The Hidden Side, completato da Alessandro Lanzoni
al piano, Luca Fattorini al contrabbasso e Fabrizio Sferra alla batteria,
compatti e sfrangiati al tempo stesso, presentando un convincente elettrizzante
hard bop avvoltolato in linee sinuose e rapide. Anche il giovane Lanzoni, oltre
all'accompagnamento pertinente, ha sciorinato assolo di austero e rigoroso andamento
creando periodi di dinamica solennità.
Il gruppo B.A.M., con
Marco Bardoscia
al contrabbasso, il quartetto di archi Alborada e
Rita Marcotulli
al piano, ha prodotto una musica delicata e equilibrata, con derivazioni dal jazz
di Carla Bley,
da musiche folkloriche mediterranee, da camera e da film, dove s'è apprezzato il
fraseggio particolare e quindi personale della Marcotulli, simmetrico e coerente,
ma sghembamente intervallato.
La Messengers Legacy sotto la guida del batterista Ralph Peterson ha dedicato il
proprio progetto ad Art Blakey per il centenario dalla nascita,
Bobby Watson al sax alto, Bill Pierce al tenore, Brian
Lynch alla tromba, Anthony Wonsey al piano e Curtis Lundy al contrabbasso
ne hanno ripetuti i canoni con pertinenza e foga, quest'ultima soprattutto per opera
di Peterson che di Blakey ha voluto riesumare la potenza.
I trombettisti Terenche Blanchard col suo e-collective e la stella emergente
Marquis Hill con il suo Blacktet, hanno presentato musiche "al passo coi tempi"
dal punto di vista sonoro e ritmico, usando abbondantemente l'elettronica e rifacendosi
a stilemi hip hop, musiche entrambe coinvolgenti, ricche di humus e di pathos. Da
segnalare la bravura e la personalità del vibrafonista di Hill, Joel Ross, che in
seguito s'è anche esibito col suo quintetto dimostrando di essere certo fra i giovani
vibrafonisti più interessanti, diretto successore di Bobby Hutcherson.
Ottimi anche i gruppi che si possono definire di mainstream jazz, anche se con aperture
d'attualità e ognuno presentandosi con proprie peculiarità: il quintetto del contrabbassista
Rosario Bonaccorso con i bravissimi
Stefano
Di Battista al sax alto, Fulvio Sigurtà alla tromba, Enrico Zanisi
al pianoforte e Alessandro Paternesi alla batteria; il quartetto del batterista
Roberto
Gatto che si è contornato di giovani di grande levatura, Alessandro
Presti alla tromba, Alessandro Lanzoni al pianoforte e Matteo Bortone
al contrabbasso; e il trio formato da
Dado Moroni
al piano,
Eddie Gomez al contrabbasso e Peter Erkine alla batteria, tre "pezzi
grossi" per rivisitare diversi mondi poetici (di
Bill Evans,
Oscar Peterson, Teddy Wilson), ma che poi si sono fusi insieme creandone
uno proprio.
Migliaia di persone la sera hanno affollato Corso Vannucci per i concerti gratuiti,
quelli principali svoltisi in Piazza IV Novembre e ai Giardini Carducci. Anche qui
molti sarebbero i musicisti degni di menzione. Fra questi ricordiamo, uno per tutti,
il tenor sassofonista Cludio De Rose jr, napoletano che gran parte dell'anno risiede
in Olanda, e che si è presentato col un quartetto di vaglia formato dal pianista
spagnolo Xavi Torres, dal contrabbassista siciliano Mauro Cottone e dal batterista
lituano Augustas Baronas. La sua idea musicale ha base e ispirazione nell'hard bop
dei modelli Sonny Rollins,
John Coltrane
e Joe Henderson, si sviluppa in esuberanti assolo in cui diventano
importanti gli accenti di inflessione e le divisioni ritmiche sghembe, improvvisazioni
ingabbiate in articolate strutture dove si procede con continui cambiamenti di situazioni.