All tracks produced by Steve Khan. Recorded on May 23rd & 24th at Avatar Studios ESC 03705-2
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Steve Khan Trio
The Green Field
1. El Viñón (Khan)
2. Congeniality (Coleman)
3. Riot (Hancock)
4. Fist in glove (Khan)
5. Cosecha lo Que Has Sembrado (Khan)
6. Sanctuary/Nefertiti (Shorter)
7. Eronel (Monk)
8. You Stepped out of a Dream (Gus Kahn-Nacio Herb Brown)
9. The Green Field – El Prado Verde (Khan)
Steve Khan - guitar John Patitucci - acoustic bass Jack Dejohnette - drums Manolo Badrena - percussion & voice Ralph Irizarry - timbales Roberto Quintero - congas & percussion
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Dopo circa otto anni di silenzio forzato, il chitarrista
Steve Khan
torna da titolare con The green
field, frutto di una session di due giorni nel maggio dello scorso
anno presso gli studi Avatar di New York, affiancato dal contrabbasso di
John
Patitucci e dalle batterie di Jack Dejohnette, nonché
da una sezione percussiva dalla scrosciante dotazione strumentale – Ralph Irizarry,
Roberto Quintero e l'ex Weather Report Manolo Badrena. C'è da dire che
il trio di base è ben collaudato, avendo infatti già dato alle stampe "Got
my mental" (del 1998, in Europa tuttavia in via di distribuzione
in questi mesi).
Il cd si snoda attraverso reinterpretazioni di grandi autori del jazz
contemporaneo, e, complice probabilmente la lunga pausa – imposta, si badi bene,
dall'impossibilità di trovare riscontro adeguato da parte delle case discografiche
–, il chitarrista losangelino vi si spende di più anche sul versante compositivo,
includendo quattro gustose composizioni olografe, diversamente dagli ultimi lavori
discografici dove raramente il suo nome come autore figura più di una volta.
Così avviene per l'avvio d'opera con
El Vinõn, tema melodico
sghembo su un supporto ripetitivo, reso accattivante dalle bacchette di DeJohnette,
fino al turno solistico del leader che, grazie anche al walking bass
di Patitucci,
delinea l'intrigante umore blues minore della porzione improvvisativa, arricchito
di conchiglie, pioggia, risacche, campanelli e sibili dalle percussioni di Badrena.
Ed è sempre il contrabbassista newyorkese che, con il suo recitato in solitudine,
accentua il pathos della tonalità minore, per poi tornare al tema di cui,
per la conclusione, divengono protagonisti drummer e percussionista. Grasso
il suono di
Patitucci, spezzata la punteggiatura di DeJohnette, limpido
il linguaggio di Khan,
in un'ondivaga riproposizione di
Congeniality di
Ornette
Coleman: pienamente rispettate la radice bop e quella ventata innovativa
che, nel segno del must colemaniano "The shape of jazz to come", avrebbe
mosso uno dei primi fondamentali passi verso lo sviluppo di sane e sincere potenzialità
avanguardistiche. E infatti, sebbene le fasi all'impronta risultino molto più morbide
che non nell'originale, anche questa edizione di
Khan procede
a singhiozzi, fra momenti quasi intimistici e scattanti passaggi triangolari, qui
assecondati da rumoristiche ambientazioni. Rifinite le scansioni ritmiche di
DeJohnette, crepitanti le percussioni, in pieno organico in questa
Riot di
Herbie Hancock, vivace sfondo per un altrettanto scandito inserimento
del contrabbasso, preceduto dal fluttuante fraseggio di
Khan. Particolarmente
apprezzabile l'interludio affidato al batterista, le cui pelli "acute", quasi in
un canto melodico, avvincono per circa due minuti l'ascoltatore, conducendolo alla
ripresa motivica e quindi alla chiusura.
Penetrante blues incardinato sulle ventiquattro battute in geometrie multidirezionali
è Fist in glove, che
esalta la formula del guitar trio, ognuno dei jazzisti fornendo un personale
contributo, sia coralmente che individualmente: mentre
Patitucci
si esprime in flessuosa estemporaneità, DeJohnette si distingue per l'asimmetricità
dei suoi tamburi che sembrano spingere in avanti e sollecitare la dizione strofica
mantenuta a linea portante dalla chitarra. Più di sette minuti di policrome sequenze
percussive, con l'apporto di tutte e tre i musicisti – in levare gli accordi della
chitarra, dondolante il contrabbasso, intrecciate le cadenze – in un'atmosfera variopinta
dall'andatura lenta ed ondulata, suadente, con persistente picchiettio di congas
e timbales: Cosecha lo que
has sembrado, anche questa, come la precedente, a firma
Khan, affascinato
dalle coloriture caraibiche a tal punto da ideare un pezzo in cui consentire le
equilibrate liberalità dei suoi "ritmatori". Sul finale, permutazione metronomica
del contrabbasso che traina i compagni nel dissolvente ad libitum conclusivo.
Ambientazione surreale ma rassicurante, raddoppiate vocalmente da Badrena
le note melodiche del contrabbasso in
Sanctuary, cascanti in
battere gli accordi languidi e spandenti della chitarra, su cui aleggiano, gassosi,
i piatti più larghi di DeJohnette; cambio di scena, e, in continuità, una
suggestiva versione di Nefertiti,
voce principale la chitarra, per una sintesi interlacciata fra le limbiche progressioni
che furono del connubio
Shorter-Davis
e le salse ticchettanti di batteria e percussioni a disposizione del presente combo.
Tanto swing dalle spazzole di DeJohnette per
Eronel, lineari i percorsi
di Khan,
melodico con variazioni sul tema l'assolo di
Patitucci,
quindi altro latin con You
Stepped Out of a Dream, robusto e duttile il disegno contrappuntistico,
ricorda nella sua pronuncia gommosa il Ron Carter di "Third Plane", e per
finire la traccia eponima del cd,
The green field - El prado verde,
quasi un sunto dell'intero album, con ampio spazio ancora per percussioni e batteria,
prima in vibrazioni sottili poi sempre più corpose ed accentate sul rullante e la
cassa: tratti tematici evanescenti, segno che anche questo brano è piuttosto un
pretesto per svisature libere e corali dei musicisti coinvolti, a tracciare i quasi
venti minuti di briglia sciolta in cui ciascuno tesse la propria trama, con più
che godibile risultato.
L'unico appunto accoglibile è dato dal confronto con il precedente lavoro,
il già citato "Got my mental", dove forse il terreno più familiare delle
musiche di Coleman, Shorter, Hammerstein/Rogers, Cahn/VanHeusen, Jarrett, Harris
e Morgan rende più confortevole l'incontro e lo scambio fra i jazzisti, e quindi
più immediato l'ascolto. Ma il rimedio c'è: ascoltare prima l'uno e poi l'altro,
così da possedere completo il quadro delle possibilità e capacità di questa formazione.
Antonio Terzo per Jazzitalia
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Data pubblicazione: 12/08/2006
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