Keith Jarrett Trio
Torino, Teatro Regio - 8 luglio 2008
di Andrea Zandonella
È una piacevole serata estiva in piazza Castello a Torino, con una leggera
brezza che invoglierebbe a tutto tranne che a chiudersi dentro il pur "regio" teatro,
ma l'evento è di quelli di cartello. Il
Keith
Jarrett Trio si esibisce nella prima italiana per la stagione
concertistica 2008, e festeggia 25 anni magnifici
di pressoché ininterrotta collaborazione artistica ed esibizioni di fronte alle
platee di tutto il mondo, dal Giappone al Sud America, dagli Stati Uniti alle grandi
capitali europee. Un appuntamento da immortalare per gli amanti del jazz, anche
se colpevoli il periodo già vacanziero e l'elevato prezzo del biglietto non si raggiunge
il tutto esaurito; vuote non a caso soprattutto le prime file, le più costose.
Ingresso sul palco dei musicisti alle 21:00
con perfetta puntualità e si parte subito con determinazione. Un'introduzione di
pianoforte con veloci intrecci contrappuntistici, cromatismi e astrazione armonica
come Jarrett
ci ha abituato nelle ultime esibizioni in piano solo, finché Gary Peacock
e Jack
De Johnette attaccano a ruota su invito del leader e si torna ad uno
stile più convenzionale. Si procede senza pausa con interpretazioni che esplorano
un po' tutte le musicalità del gruppo e soprattutto del leader; c'è un brano che
evoca le calde atmosfere latino americane, un altro che come un mantra ripete sé
stesso crescendo di intensità, sorretto da
Jarrett
con un ostinato della mano sinistra (la formula è la stessa di "The Cure").
C'è poi il blues, quasi "catartico", per consentire ai musicisti di dar libero sfogo
a qualsiasi velleità improvvisativa (e qui
Jack DeJohnette
si abbandona in un solo di particolare intensità esecutiva).
Jarrett
giganteggia da par suo, in tutte le diverse situazioni stilistiche con le sue tipiche
espressioni frutto del furore creativo. Il pubblico è in estasi. Tra i momenti più
alti, ma è un giudizio personale, l'interpretazione di "As
time goes by", malinconico richiamo al tempo che passa; la versione è
quella di una ballata lenta (molto diversa da quella più ritmata che si ascolta
comunemente e che ha reso celebre il tema di "Casablanca") ma il brano subisce a
partire dall'assolo diverse metamorfosi, dallo swing sostenuto al blues per lasciare
alla fine spazio ad una coda in solo pianoforte. Dopo l'omaggio al cinema di Hollywood
non manca quello al musical di Broadway; altro episodio di altissima intensità si
ha infatti quando il trio si cimenta con Somewhere
di Bernstein (da West Side Story) e anche qui non ci sono parole per descrivere
la bellezza eterea del solo di
Jarrett;
il suo modo attuale di eseguire gli standards è adorabile, molto più maturo e controllato
del passato, la maggiore attenzione alla dinamica espressiva con l'uso frequente
del pianissimo. Il suo vocabolario improvvisativo va ben oltre il fraseggio classico
in terzine e ottavi del jazz con cui sono stati interpretati molte volte questi
temi, cioè nei "cliché" dello swing. Il pianista di Allentown spezza sistematicamente
la metrica del fraseggio inserendo trilli, mordenti, gruppi irregolari di note,
tutto all'interno di un lavoro straordinario su accenti e pulsazione ed in prodigiosa
sintonia con gli altri due musicisti. Nemmeno la chiusura del concerto rientra nell'ordinario.
Due bis: Poinciana (assolo muscolare, alla Art
Tatum) e l'immancabile When I Fall In Love,
sempre lei e sempre diversa. In quest'ultimo pezzo il pianista riprende la vecchia
lezione di Miles Davis sui temi più noti. Quasi del tutto assente l'esposizione
del tema mentre l'amata progressione di accordi viene subito saturata da arabeschi
di note e brevi pause, il canto struggente di chi attende l'amore per sempre.
In conclusione...è facile la tentazione di pensare che il concerto a cui si assiste
sia sempre il migliore di tutti. Difficile insomma essere obbiettivi. Concedeteci
però almeno il beneficio del dubbio e naturalmente la speranza di ascoltare questa
note su un CD visto che le premesse qualitative ci sono tutte.
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Data pubblicazione: 28/07/2008
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