Jack DeJohnette & The Ripple Effect with
John Surman
Teatro Manzoni, domenica 11 novembre 2007
di Achille Zoni
foto di Neyla
Jack DeJohnette - voce e batteria
John Surman - sassofoni
Jerome Harris - voce e basso elettrico
Marlui Miranda - voce e percussioni
Ben Surman - electronics
Per
la rassegna "Aperitivo
in concerto" il Teatro Manzoni ospita la coinvolgente formazione
The Ripple Effect, che lascia il compito di fare "la voce grossa" agli eccellenti
Jack DeJohnette
e John Surman. E' sufficiente riflettere pochi attimi sulle titaniche carriere
di questi due musicisti per capire che le loro rispettive influenze e tendenze stilistiche
non possono che costituire, se messe assieme, una miniera di risorse in una situazione
live; evidentemente poi la consapevolezza della qualità di questi due nomi ha avuto
un riflesso sull'affluenza del pubblico, che ha gremito il teatro anche ad un ora
non del proprio ordinaria (il concerto ha inizio alle 11 del mattino).
L'organico completo vede sul palco, oltre a
DeJohnette
e Surman, la cantante brasiliana Marlui Miranda, Il bassista Jerome
Harris e Ben Surman, figlio di John ed impegnato ai live-electronics.
Chi ha ascoltato Hybrids, il disco
con cui
DeJohnette presentava questi lavori, sapeva cosa aspettarsi, anche
se non va trascurato il plusvalore che l'evento dal vivo è in grado di aggiungere
ad una già fertile idea. Ed infatti, coerentemente al titolo dato al disco, il quintetto
è impegnato a proporre una geniale e raffinatissima ibridazione fra culture e tecniche
musicali che spaziano senza limitazioni fra oriente ed occidente, toccando innanzitutto
i grandi patrimoni di Africa ed India, ma anche della tradizione europea antica,
la musica afroamericana, la zona giamaicana, e persino il patrimonio liturgico di
gusto altomedievale. Queste risorse vengono affrontate poi con l'intenzione sovrastante
del Free da cui i musicisti si discostano poi con modi diversi, spaziando dal blues
al reggae, dal modale al funk, con una continua presenza di elementi elettronici
assolutamente non invasivi quanto piuttosto complementari al sound generale; ed
ecco ancora quindi una grossa tranche di ibridazione, ben evidente quando l'elettronica
(di propria natura fredda ed eterea) di Ben Surman incontra i ritmi e modi
terragni della culla centro-africana.
Nei
quasi 40 minuti della prima delle quattro lunghe composizioni che articolano il
concerto, assistiamo ad un crescendo prima velato, poi più dinamico, dal respiro
totalmente free, in cui Surman e Miranda suonano flauti ed Harris
ordisce bellissimi sottofondi con una chitarra elettrica incredibilmente saturata
di effetti elettronici. Poi il drumming di
DeJohnette
si fa sempre più marcato e coinvolgente e trasporta il brano in un groove molto
complesso e dal sapore funky, seppur restando su un tempo in 17/8 che rende il materiale
sonoro libero e fluente.
A
questo punto i nostri abbassano il tiro, calmano la tensione e Surman (che
nel frattempo si era già espresso al Sax) torna al flauto, con cui dà vita ad ripresa
di gusto celtico, dal sapore antico, per poi riprendere su questi sistemi armonici
un repertorio melodico Blues che poi sfocia nella music costituire a etnica africana.
E già ben chiaro quanto sottile, se non inesistente, sia il limite fra
un apporto e l'altro in questo vero e proprio collage stilistico. Le composizioni
difatti sono costituite in generale da un continuo, inarrestabile sfumare fra momenti
puramente Free con altri più leggibili ed evidenti, ma in cui le contaminazioni
geografiche sono in continuo movimento.
Nel secondo brano, ad esempio, si inizia con tipiche atmosfere che hanno
già reso popolare il sound di
Jan Garbarek,
sassofonista a cui Surman sembra essere molto vicino, almeno sul livello
melodico. Questi infatti lascia comparire melodie di stampo popolare, molto cantabili,
che spuntano qua e là nel flusso magmatico di suoni, per poi smontarle e sporcarle
con improvvisazioni sorprendenti. Ecco dunque il ritorno a un groove più evidente,
questa volta in 11/8, in cui il baricentro geografico torna ad essere l'Africa,
questa volta più sulla scia di un Abdullah Ibrahim.
Il
primo evidente momento solistico per
DeJohnette
arriva all'inizio della terza composizione. E' sconcertante la sua geniale commistione
fra ritmi irregolari e stili classici di gestione dell'a solo. Tanto per
esemplificare la cosa, il nostro riacquista il sound che ha caratterizzato le sue
collaborazioni con
Hancock, ma con rinnovato senso del groove e dell'estetica materica
del suono. Sembra quasi "assaggiare" le potenzialità sonore di ogni parte del suo
strumento (e in questo è vicino ai lavori in trio di
Jarrett).
Non
c'è che da constatare allora che, soprattutto in questi anni, il grande contraltare
alla devastante macchina ritmica di Billy Cobham è proprio
Jack DeJohnette.
Marlui Miranda risulta una presenza fondamentale nel contesto. Gestisce
la voce in modo non tradizionale, è cioè in grado di sfruttarla semplicemente come
fonte timbrica in aggiunta a tutte quelle presenti nell'organico senza per questo
sminuirla; rendendola ritmica e decorativa ma non protagonista, o invece viceversa
acquisendo un ruolo di primo piano nella conduzione melodica di determinati passaggi,
la cantante è uno dei veri punti di forza, caposaldo di questi continui collages
stilistici. Un dettaglio complementare all'esecuzione è l'aspetto fortemente performativo
che infonde la sua presenza: Miranda infatti, oltre che dedicarsi alla voce
si sposta spesso ad alcune semplici percussioni, sonagliere e shaker, che fa risuonare
con gesti ampi e marcati, molto ritualistici, come ritualistico è in fondo il significato
profondo di questo tipo di espressione generale: chi sta suonando evidentemente
è ben cosciente dell'origine di gran parte del materiale e della cultura artistica
da cui sta attingendo.
L'ultimo brano, "Freedom and Justice"
è un momento molto emozionante, più breve ma anche più etereo e malinconico. in
cui un grandioso Surman, che a mio parere dà il proprio meglio quando impegnato
al sax soprano piuttosto che al tenore regala incatevoli suoni e movimenti melodici
che poi sfumano in un collettivo canto, quasi un'invocazione, appunto di "libertà
e giustizia".
In due ore di musica non si conta un solo minuto di carenza di tensione
o di feeling. I suoni e le idee coinvolgenti, assieme all'indiscutibile e riconfermato
talento di questi grandi musicisti, hanno offerto al pubblico un evento difficilmente
dimenticabile.
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Data pubblicazione: 26/01/2008
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