Jerome Harris: basso, chitarra, 
banjo
John 
Patitucci: contrabbasso
Danilo 
Perez: pianoforte
Jack Dejohnette: batteria

 Per 
l'indiscutibile talento, l'originalità, la versatilità, le ormai innumerevoli collaborazioni, 
quando è di scena Jack Dejohnette, è difficile sapere cosa aspettarsi. Inoltre, 
è da circa un anno che
Per 
l'indiscutibile talento, l'originalità, la versatilità, le ormai innumerevoli collaborazioni, 
quando è di scena Jack Dejohnette, è difficile sapere cosa aspettarsi. Inoltre, 
è da circa un anno che
 DeJohnette
ha fondato una propria etichetta, la Kindred Rhythm/Golden Beams, che 
ha già al suo attivo due registrazioni a suo nome: Music from the Hearts of the 
Masters con il percussionista africano Foday Musa Suso e Music in 
the Key of Om dalle atmosfere ambient, e una prossima, molto attesa, 
in duo con Bill Frisell, The Elephant Sleeps But Still Remembers. 
Ebbene, nonostante la sua recente produzione "di confine", stasera all'Auditorium 
di Roma, in Quartetto, DeJohnette ha offerto una performance che ha 
entusiasmato soprattutto gli amanti del jazz, coloro che riconoscono in DeJohnette
un batterista che ha segnato gli ultimi quarant'anni di storia del jazz. Del 
resto, i nomi dei componenti del suo Quartetto non lasciavano dubbi in tal senso:
Danilo Perez 
al piano e 
John Patitucci al contrabbasso, che hanno contribuito non poco 
al recente rilancio in grande stile di
Wayne Shorter, e Jerome Harris al basso elettrico, chitarra e 
banjo, già con DeJohnette nel suo ultimo lavoro con la Ecm (Oneness,
1997).
DeJohnette
ha fondato una propria etichetta, la Kindred Rhythm/Golden Beams, che 
ha già al suo attivo due registrazioni a suo nome: Music from the Hearts of the 
Masters con il percussionista africano Foday Musa Suso e Music in 
the Key of Om dalle atmosfere ambient, e una prossima, molto attesa, 
in duo con Bill Frisell, The Elephant Sleeps But Still Remembers. 
Ebbene, nonostante la sua recente produzione "di confine", stasera all'Auditorium 
di Roma, in Quartetto, DeJohnette ha offerto una performance che ha 
entusiasmato soprattutto gli amanti del jazz, coloro che riconoscono in DeJohnette
un batterista che ha segnato gli ultimi quarant'anni di storia del jazz. Del 
resto, i nomi dei componenti del suo Quartetto non lasciavano dubbi in tal senso:
Danilo Perez 
al piano e 
John Patitucci al contrabbasso, che hanno contribuito non poco 
al recente rilancio in grande stile di
Wayne Shorter, e Jerome Harris al basso elettrico, chitarra e 
banjo, già con DeJohnette nel suo ultimo lavoro con la Ecm (Oneness,
1997).
 Il 
concerto si è diviso in due parti, composte ognuna da una lunga suite di tre brani, 
di cui soltanto una metà a firma DeJohnette. Inutile sarebbe rimarcare l'inimitabile 
stile di DeJohnette, in piena forma, che, senza monopolizzare la scena con lunghi 
e vigorosi assolo a margine dell'esecuzione di gruppo, si è piuttosto lasciato ispirare 
dalle intuizioni ritmiche dei suoi compagni per suonarvi,
Il 
concerto si è diviso in due parti, composte ognuna da una lunga suite di tre brani, 
di cui soltanto una metà a firma DeJohnette. Inutile sarebbe rimarcare l'inimitabile 
stile di DeJohnette, in piena forma, che, senza monopolizzare la scena con lunghi 
e vigorosi assolo a margine dell'esecuzione di gruppo, si è piuttosto lasciato ispirare 
dalle intuizioni ritmiche dei suoi compagni per suonarvi,
 con 
sottile sensibilità, fuori se non proprio contro, in modo tale da 
tener sempre viva una certa tensione; soprattutto, però, c'interessa evidenziare 
la grande sinergia del Quartetto, in cui anche piano e chitarra contribuivano alla 
ritmica, come spesso accade quando il leader della formazione è il batterista. Certo, 
l'affiatamento tra
Perez 
e Patitucci, 
rodato dai numerosi concerti con
Shorter, era evidente, tanto che forse proprio Harris è sembrato 
a volte un po' a margine delle lunghe e trascinanti improvvisazioni, anche se sempre 
puntuale nei suoi interventi dentro il brano.
con 
sottile sensibilità, fuori se non proprio contro, in modo tale da 
tener sempre viva una certa tensione; soprattutto, però, c'interessa evidenziare 
la grande sinergia del Quartetto, in cui anche piano e chitarra contribuivano alla 
ritmica, come spesso accade quando il leader della formazione è il batterista. Certo, 
l'affiatamento tra
Perez 
e Patitucci, 
rodato dai numerosi concerti con
Shorter, era evidente, tanto che forse proprio Harris è sembrato 
a volte un po' a margine delle lunghe e trascinanti improvvisazioni, anche se sempre 
puntuale nei suoi interventi dentro il brano.
La natura e l'ispirazione dei brani è stata varia, volendo attraversare 
il più possibile la diversa sensibilità dei musicisti e di DeJohnette in 
primis: non è certo mancato swing, come in 
One Finger Snap di Hancock, 
e nemmeno una classica ballad, ma la presenza al piano di
Perez 
ha di certo contribuito a che in più di un brano emergessero atmosfere e sonorità 
latine. Fino all'ultimo brano, 
African Wave, una composizione proprio di
Perez, 
che, con il suo tema semplice e immediato, accompagnato dai vocalizzi di Harris, 
con la sua sonorità solare e festosa, ha entusiasmato il pubblico, che, ancora in 
piedi, ha atteso il bis. Come spesso capita nei concerti di DeJohnette, che 
non manca occasione per dichiarare le sue convinzioni pacifiste, il bis era un inno 
alla pace, Song for Peace. 
Un brano senza ricercatezza compositiva, senza grande fantasia improvvisativa, senza 
virtuosismi, soltanto una sorta di suggestivo spiritual che progressivamente 
prendeva corpo nel canto di Harris.