Brass - Stagione invernale 2007
Palermo, Teatro Golden, gennaio - marzo 2007
di Antonio Terzo
Molto ricco, e davvero molto aperto è stato quest'anno il cartellone del
Brass Group palermitano. Hanno calcato le assi del teatro Golden di Palermo
John Pizzarelli
con lo spettacolo "Dear Mr. Sinatra", i Four Freshmen che hanno recuperato
la tradizione vocale dell'omonima formazione degli anni '40 e '50 sebbene adesso
"condita" di voci anche strumentali, e l'ormai classico "Concerto di San Valentino",
protagonisti tromba e flicorno di Vito Giordano, in grande spolvero
con tutta l'Orchestra Jazz Siciliana. Fra i vari appuntamenti, apertisi con il concerto
della vocalist Rachelle Ferrell, particolarmente significativi sono stati,
ciascuno per specifiche ragioni, quelli del quartetto di
Antonio Forcione,
per la capacità di combinare insieme sonorità provenienti da diverse esperienze
musicali ad un virtuosismo non stucchevole, il progetto di Travis Sullivan
dedicato alla pop-singer Björk e denominato appunto Bjorkestra, a Palermo
in prima europea con l'Orchestra Jazz Siciliana, il trio di uno dei pianisti
più intensi del mainstream americano, vale a dire
Kenny Barron,
nonché la serata augurale dell'ottantesimo compleanno di un altro pianista, particolarmente
eclettico, Martial Solal.
Il
concerto "Tears of Joy" di
Antonio Forcione
(31 gennaio), molisano trapiantato da oltre vent'anni
a Londra, ha dimostrato come non è detto che per coinvolgere debba per forza trattarsi
di jazz. La sua musica ha spaziato fra scenari differenti, di cui la sua chitarra
resta il minimo (si fa per dire) comun denominatore: come un viaggiatore che prende
appunti – in questo caso sul pentagramma – e fa propria l'inflessione che trova
nel luogo in cui staziona. Lo accompagnano incredibili musicisti in quanto a versatilità:splendida
la violoncellista nigeriana Jenny Adejayan, multiritmico Adriano Adewale
– con il quale il nostro si sofferma a dialogare su un ritmo funky che vede i due
letteralmente giocare con i rispettivi strumenti, anche reciprocamente, il chitarrista
a percuotere il tamburello, il percussionista a battere sulla chitarra – ed il polistrumentista
Nathan Thompson che padroneggia tanto il contrabbasso quanto i flauti.
Forcione
mostra d'avere un rapporto fisico con il proprio strumento, ne conosce i più riposti
echi e ne fa uscire le sonorità più nascoste: dotato di una destrezza nel fraseggio
a velocità micidiali (e parliamo di chitarre acustiche con corde di nylon o steel,
non di sensibili ed addomesticabili chitarre elettriche), coniuga le sue capacità
tecniche - lo "stoppato" in Waltz for Django,
la fluidità del "tapping" come in African Dawn
perfino sui tempi composti, come nel 6/8 di Alhambra
- con una musicalità che gli consente di creare atmosfere variegate. Particolarmente
intenso il suo solo guitar, in cui, ancora all'acustica, combina i vari elementi
della sua arte; ma le atmosfere tornano "etniche" con Indian
Café, e con la divertente Tiramisù,
calebasse davanti a centro-palco. Anche la coda dello spettacolo è ricca
di fantasia e musica, con Touch wood e
Slap and Tickle, ultimo brano dedicato a Fellini.
Molto
particolare il progetto "Bjorkestra" di Travis Sullivan (22
febbraio), che ha colpito per la sua bontà, l'originalità ed anche l'elevato
livello artistico, riarrangiando per bigband la musica di Bjork: affiancato dalla
voce titolare e dalle "electronics" ufficiali della propria orchestra, rispettivamente
Becca Stevens e Alex Fortuit, Sullivan ha diretto la residente
Orchestra Jazz Siciliana, dimostratasi all'altezza degli originali arrangiamenti.
Molti infatti i solisti coinvolti: dopo l'Overture
da Selmasongs – colonna sonora del film "Dancer in the Dark" interpretato
dalla stessa Björk – si sono distinti Salvatore Pizzurro al trombone in
Alarm Call,
Gaspare Palazzolo
al sax contralto in Joga (dall'album "Homogenic"),
Orazio Maugeri
al soprano sulla funkeggiante versione di Army of me,
poggiata sul sax baritono di Ninni Pedone, nella quale lo stesso Sullivan
si prodiga al contralto, proludendo l'intermezzo free fra basso, batteria, percussioni
e live electronics, con la vocalist a segnalare riffs, stacchi e figurazioni
all'orchestra. Molto suggestivo il contributo a cappella della Stevens, in
coppia con Fortuit, per Unravel, mentre
spicca il suono del Fender-Rhodes di Riccardo Randisi in
I go humble. Non mancano i pezzi totalmente orchestrali,
come Cocoon, uno dei più noti del repertorio
della cantante nordica, in cui puntualmente si spende il tenore di Francesco
Marchese, e ancora Randisi. Brillante la sezione fiati nel corposo samba
di cui è vestita Pluto (ancora da "Homogenic"),
mentre Sullivan fa suo il secondo brano orchestrale, stendendo il contralto
sul walking bass di Giuseppe Costa, fino al tacet di tutto l'ensemble.
Quasi reggae invece Human behaviour, con trascinante
break di Gianpaolo Terranova alla batteria in combutta con le percussioni
di Sergio "Guna" Cammalleri e le effettistiche di Fortuit. Deliziosa
Becca Stevens nel primo bis con It's so quiet,
ma non basta, e i protagonisti sono "costretti" a rientrare ancora, finendo con
l'overture iniziale, segno che il pubblico palermitano è rimasto convinto
da questa performance.
Di
taglio certamente differente il concerto di
Kenny Barron
(15 marzo), pianista il cui tocco sensibile ha accompagnato,
nel suo percorso artistico,
John Coltrane
e Dizzy Gillespie, ma anche
Stan Getz, Milt Jackson, Ron Carter e
Charlie Haden, senza dire del gruppo "Sphere" da lui fondato,
ispirato alla musica di Monk. Fanno parte del suo trio il giovane batterista
Francisco Mela ed il contrabbassista nipponico Kiyoshi Kitagawa,
il primo capace di scansioni più legate alla melodia che non al ritmo, il secondo
artefice di tessiture ritmiche di rara linearità. Come lineare è pure il suo recitato
monologo in How deep is the ocean, attorniato
da un interplay che continuamente copre gli interstizi lasciati vuoti ora dal leader
ora dal batterista. Profuma di bop And then again,
composizione originale che
Barron
pone a secondo brano in scaletta con frasi scomposte e ricomposte per l'inesauribile
fantasia e creatività di Mela,
in
grado di segnare il tempo anche con l'aria, assecondato dalla cavata poliritmica
e dalle dinamiche poetiche di Kitagawa. Una solitaria introduzione pianistica
immette nell'intima atmosfera di The very thought of you,
Mela alle spazzole e
Barron
che accarezza addirittura i tasti con leggero ma sonoro tocco, mentre ha andamento
suadente Um bejo (dall'album "Spirit Song",
dove era arricchita dal violino di
Regina Carter)
su cui pianista e batterista sembrano parlarsi. Well, you
needn't, conferma l'impressione della particolare intesa fra i due: partenza
bruciante, assolutamente all'unisono le pause, le frazioni, i respiri, mentre solo
a metà brano entra il contrabbasso, quando tuttavia ormai i due hanno dato il meglio
di sé. Non è possibile raccontare la limpidezza dell'assolo di Mela che coinvolge
ogni singolo pezzo della batteria, comprese aste e bordure. Dedicata ad Ibrahim
Song for Abdullah, raffinato piano solo con
una melodia nitida in tutte le sue parti – motivo, armonia, ritmo, improvvisazione
– seguito, al rientro degli altri, da Beautiful love,
a mo' di straight ballad, corale e senza assoli. Chiudono la sequenza un
dondolato swing dagli accenti latin ed ancora un medium-fast in grande intesa fra
piano e batteria e tanto bop, per gli scroscianti applausi degli astanti che inducono
al doveroso bis: My mama done tol' me, un classico
del canzoniere afroamericano, amaro e swingato come il blues che lo sottende, a
terminare in modo soddisfacente la verace esibizione di
Barron
e compagni.
Con
un'Orchestra Jazz Siciliana "in tiro", il concerto di chiusura della stagione
ha voluto celebrare
Martial Solal
(19 aprile), pianista algerino fra i primi ad accostarsi
ad un linguaggio non convenzionale filtrato dall'immenso retaggio musicale a sua
disposizione. Ironia ed autoironia ne caratterizzano l'approccio musicale, come
del resto non potrebbe essere diversamente per un grande personaggio, perché solo
i grandi sanno essere anche auto-ironici: orchestrazioni scattanti e brillanti,
inframmezzate da rapidi - ma brevi - inserimenti pianistici, espressione di un'unica
mente e anima musicale. C'è chi è rimasto deluso per aver potuto apprezzare poco
il piano del maestro algerino, che avrebbe dovuto essere protagonista della serata.
Ma a chi conosca anche i piano concerti del jazzista francofono, non è sfuggito
che nei suoi arrangiamenti l'OJS trasponeva orchestralmente lo stile pianistico
del nostro, il modo in cui
Solal
sente e suona la musica, l'intensità, i suoni, le dinamiche e i colori. E tuttavia
vero che ad un concerto si va per godere in modo immediato e senza avere necessariamente
un forbito background musicale, e qui, in pochi sono stati in grado di apprezzare:
gli altri avrebbero semplicemente gradito qualche nota in più suonata dal piano
del maestro. Lo dimostra il tripudio di applausi suscitato dall'esecuzione, questa
volta in "piano solo", di uno dei cavalli di battaglia di
Solal,
Caravan, esplorata in libertà come in uno degli
ultimi suoi lavori discografici, "Solitude" (Camjazz). Certamente, se anche
il concerto fosse stato tutto così, molti altri avrebbero pure avuto da ridire.
I brani successivi riportano al centro della musica il dialogo costante e continuo
del piano con i vari solisti dell'OJS, dal sax di
Palazzolo,
al trombone di Totò Pizzo, che si segnala insieme al collega di strumento
per un coinvolgente chiacchiericcio strumentale di sottofondo, o la combinazione
basso batteria – Costa-Urso – con lungo assolo di
Solal
in chiusura. L'ultima fase del concerto, in effetti riesce a bilanciare meglio che
nella prima parte la presenza di una figura così di rilievo per il jazz internazionale
con le doti del residente organico orchestrale: e il bis ne è la controprova, con
una splendida I Can't Get Started nella quale,
di fianco all'eccellente pianista, si sporge l'accorato flicorno di Vito Giordano.
Che forse avrebbe dovuto essere questo il registro dell'intero concerto?
Altrettanto ricca è stata la rassegna intramuraria del Blue Brass, il
ridotto dello Spasimo, attuale sede dell'appena costituita – in modo definitivo
– Fondazione siciliana, che ha visto sfilare nomi quali
Carla Marciano,
minuta sassofonista capace di una incredibile energia, la pianista Amina Figarova
che, con il marito flautista Bart Platteau, ha regalato una serata molto
gradevole proponendo brani del suo repertorio, la penetrante tromba di
Dusko Goykovich
in quartetto, il trombettista americano Darren Barrett con le sue
sonorità metropolitane, la scoppiettante batterista Carola Grey, e varie
vocaliste, dalla esotica Eda Zari, passando per Anita Wardell e
Karen Lane, fino alla nostrana Cinzia Spata.
Invia un commento
© 2000 - 2024 Tutto il materiale pubblicato su Jazzitalia è di esclusiva proprietà dell'autore ed è coperto da Copyright internazionale, pertanto non è consentito alcun utilizzo che non sia preventivamente concordato con chi ne detiene i diritti.
|
Questa pagina è stata visitata 5.616 volte
Data pubblicazione: 10/05/2007
|
|