Per i suoi venticinque anni Umbria Jazz Winter si è voluta trattare
bene: a Orvieto (al Teatro Mancinelli, presso le sale del Palazzo del Popolo e del
Palazzo dei Sette, al Museo Greco e in vari ristoranti e bistrot), un sacco di musicisti,
molti dei quali "resident artist" che grazie a questo si sono esibiti in più concerti
(luoghi, orari e giorni differenti), hanno accontentato tutti i gusti, anche i cultori
della cosiddetta avant-garde, ultimamente al festival un po' trascurata.
La maggior parte dei gruppi hanno potuto esibirsi già
nelle prime due giornate, ripetendo più volte le proprie performance nelle tre a
seguire (il festival è cominciato il 28 dicembre 2017 ed è terminato il primo gennaio
2018). Le punte di diamante sono state il chitarrista Marc Ribot (in due
versioni: con il trio e con The Young Philadelphians) e il pianista Jason Moran.
Moran ha presentato "In My Mind: Monk At Town Hall 1959", dedicato e ispirato
allo storico concerto che Thelonious Monk tenne il 28 febbraio
1959 a New York con una orchestra di dieci elementi
(registrato e pubblicato in un disco Riverside). Il lavoro è stato complesso: ha
ricalcato le tracce dell'opera originale, anche con l'ausilio dell'audizione della
stessa in cuffia durante lo spettacolo, e ha aggiunto un video che, attraverso lo
schermo alle spalle della band, ha mostrato in parallelo alla musica foto in bianco
e nero di Monk e ha fatto ascoltare la sua voce (riportando il testo di quanto detto)
mentre parla con l'arrangiatore Hall Overton. Essendo cambiati i solisti
(qui sono Logan Richardson al contralto, Walter Smith III al tenore,
Ralph Alessi alla tromba, André Heyward al trombone Bob Stewart
alla tuba, Tarus Mateen al basso elettrico, Nasheet Waits alla batteria),
anche la musica è cambiata, ma non di molto. Moran, riproponendo i brani del disco
(fra cui "Thelonious", "Friday The 13th", "Monk's Mood", "Little Rootie Tootie",
"Off minor" e "Crepuscule With Nellie", tutti diventati standard), ne ha
mantenuto lo spirito e la forza, conservando anche pressoché identici gli arrangiamenti
originali di Overton (a tratti un po' ellingtoniani), espressi con particolare carica
e pienezza, compreso l'ordine della sequela solistica degli strumenti, con in più
qualche trovata scenografica, come la sovrapposizione della registrazione del piano
di Monk con quello live di Moran nel brano d'apertura, "Thelonious". Moran si è
messo in evidenza anche come solista, stemperando il suo pianismo ridondante e ubertoso
con quello scarno e ispido di Monk, facendone risultare una via di mezzo fra Thelonious
e McCoy Tyner.
Che una musica di sessant'anni fa mantenga così attuali e "moderni" i propri connotati
è di certo merito del genio di Monk (e della maestria di Hall Overton), ma anche
della eccellenza con cui Moran e compagni hanno trattato la materia.
Il trio di Marc Ribot con Henry Grimes e Chad Taylor è lo stesso
che ha registrato il disco "Live At The Village Vanguard" (PI Recordings), di cui
ha riproposto i brani, rapportandosi in ognuno di essi in modi inaspettati e differenti.
Se da una parte ha portato al parossismo (con approccio ferino, attacchi vigorosi,
suoni ad alto volume e distorti) le interpretazioni di quelli che già erano in origine
impetuosi e fuori dalle (canoniche) righe, come "Dearly Beloved" di John Coltrane,
dall'altra, con direzione verso l'estremo opposto, ha invece esasperato la bucolica
tranquillità di "Old Man River" e l'amorevole serenità di "I'm Confessin'", diventando
lirico, delicato, a tratti anche soffuso. In ogni suo diverso approccio, con cui
ha alternato punk e impressionismo, rockabilly e
Django
Reinhardt, tutto rivisto attraverso la sua poetica visionaria ed eversiva,
è stato coadiuvato dai compagni alla perfezione: l'ottantaduenne Grimes, anche se
non in buona salute (si è presentato smagrito su una sedia a rotelle e sul palco
è arrivato assistito dalla moglie), ha suonato il contrabbasso con doviziosa propulsione,
adeguandosi prontamente a ogni svolta impressa da Ribot; e Taylor alla batteria
è stato pervasivo e incalzante.
Con The Young Philadelphians, formazione atipica che mette insieme un quartetto
jazz (due chitarre, lui e Mary Halvorson, la batteria di Calvin Weston
e il basso elettrico di Jamaaladeen Tacuma) e un trio d'archi (i giovani
violinisti Max Haft e Sabine Akiko Arendt e il violoncellista Nathan
Bontrager), Ribot è risultato ancor più travolgentemente trasgressivo, rifacendosi
(programmaticamente) da una parte al Phylly Sound, il soul nato a Filadelfia negli
anni Sessanta, dall'altra al Prime Time di
Ornette
Coleman (Tacuma era in quel gruppo), ma portando (stessa operazione
già vista col trio) quel free-funk alla esasperazione dei volumi e delle distorsioni
del suono, fatto arrivare così alla saturazione, con interventi sempre opportuni
degli archi che, schiacciati dall'irruenza di Ribot, riescono ugualmente ad aggiungere
ai quei colori accesi e materici qualche sfumatura in tinta pastello (peccato che
anche la Halverson sia stata sovrastata in ugual modo, relegata alla funzione di
mera accompagnatrice: il suo grande talento e l'inventiva avrebbero meritato maggiore
spazio e attenzione). Fra i brani eseguiti, particolarmente travolgenti sono stati
"Do It Anyway You Wanna" dei People's Choice, "The Hustle" di Van McCoy, "Fly Robin
Fly" dei Silver Convention e "Tsop" (acronimo per The Sound Of Philadelphia) dei
MFSB.
L'apertura del festival era stato affidato alla ventiseienne cantante afroamericana
Jazzmeia Horn (il nome le è stato dato dalla nonna, appassionata di jazz),
che ha presentato i brani inclusi nel suo disco d'esordio, da poco uscito, "A Social
Call" ("Tight", "The Peacocks", "I Remember You", "Moanin'", "Night And Day"),
ma con un gruppo cambiato nei componenti (qui Victor Gould al pianoforte,
Geraud Portal al contrabbasso e, con menzione speciale per la raffinatezza
e la bravura, Henry Coneway alla batteria), senza fiati aggiunti: probabilmente
per questo, privata dei solisti di supporto, la Horn ha dato molto spazio al canto
scat, molto più rispetto alle correlative interpretazioni su disco. L'artista ha
spiccate qualità: si mantiene sulla tradizione del canto jazz moderno (quello di
Ella Fitzgerald e Sarah Vaughan), con molte affinità con quello di
Betty Carter (timbro scuro, modo di porgere le frasi, audacia ritmica, vibrato
caratteristico nelle note lunghe) e un pizzico dell'africanità di
Cassandra
Wilson, riuscendo ad essere molto personale e sfiorando l'originalità
proprio con lo scat, che tratta quasi sempre sul registro acuto (rispetto alla Fitzgerald
in maniera meno flessuosa e sciolta, con salti intervallari più crudi): la Horn
sta sperimentando, sta cercando la sua via, ed è per questo che a volte esagera
in certe fisse rivelatesi eccessivamente spigolose e ripetitive (che comunque hanno
un loro particolare fascino).
Altri cantanti si sono esibiti nei primi due giorni a Orvieto.
Maria Pia De
Vito si è distinta addirittura con tre diversi progetti che hanno fatto
capo ad altrettante diverse formazioni. Nel primo di questi, si è presentata con
Julian Oliver Mazzarriello al piano ed
Enzo
Pietropaoli al contrabbasso (insieme da oltre dieci anni, seppur saltuariamente,
quindi con una intesa perfetta) per omaggiare Joni Mitchell, della
quale ha interpretato alcuni classici, da "God Must Be A Boogie Man" a "Harlem In
Havana", da "A Case Of You" a "Chinese Cafè", senza tradire gli originali, pur piegandoli
alla propria personalità d'interprete jazz, brillando per la voce piena di inflessioni
espressivamente toccanti, il senso dello swing, i cambi di registro sinuosi e la
completa padronanza dello scat, di cui non eccede nell'uso (al contrario della Horn),
facendolo arrivare sempre nel momento giusto.
Cantante che invece ha poco da spartire col jazz, Gino Paoli, si è esibito
in duo con il pianista
Danilo
Rea (collaborano da tempo, registrando tre dischi "Due come noi che…",
"Napoli con amore" e "3", senza contare altri precedenti in trio, con
Roberto
Gatto in aggiunta). Il Gino nazionale ha cominciato maluccio, con qualche
incertezza e stonacchiatura in "Una furtiva lagrima" di Gaetano Donizetti, ma si
è riscattato quasi subito, con un
Danilo
Rea strabordante di idee, offrendo alcune sensibili e commoventi interpretazioni
di canzoni sue, francesi e dei maggiori cantautori italiani (toccando il vertice
con "Albergo a ore" di Herbert Pagani, più recitata che cantata). Bella sorpresa
l'aggiunta in alcuni pezzi ("Sassi", "Una lunga storia d'amore") del trombettista
Flavio Boltro,
che ha impreziosito il concerto con assolo di potente scioltezza.
Nei primi due giorni del festival si sono esibiti anche i Licaones, quartetto
ricostituitosi dopo più di dieci anni dal primo scioglimento, con
Francesco Bearzatti
al sax tenore, Mauro Ottolini al trombone, Oscar Marchioni all'organo
e piano, Paolo Mappa alla batteria. I quattro si rifanno al soul jazz degli
anni Sessanta, nella fattispecie quello che vedeva l'organo Hammond protagonista
(ma con deviazioni nel genere ska e nella bossa nova), con eleganza, energia e scanzonato
senso del gioco. Bearzatti appare "addomesticato" rispetto alle sue telluriche performance
con il Tinissima Quartet, ma sempre espletando fraseggio sinuoso e voce ruggente,
e Ottolini conferma l'impeccabile tecnica trombonistica e il sagace umorismo. Anche
qui è stato fatto salire sul palco, come ospite,
Flavio Boltro,
a cui si è aggiunta la cantante italo-algerina Karima per una jam finale indiavolata
sul giro armonico di "Hallelujah I Love You So".