Il manifesto - maggio 2003 |
Maria Pia De Vito &
Patrice Heral
Tumulti
MARIA PIA DE VITO -
voce,
effetti
PATRICE HERAL - batteria,
percussioni
ERNST REIJSEGER - cello
PAUL URBANEK -
piano,
electronics |
IL MANIFESTO CD – PROMOZIONE E UFFICIO STAMPA:
CLAUDIA FELICI, FABIO TIRIEMMI
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TUMULTI
è un lavoro di sperimentazione sulla composizione. L'improvvisazione, composizione istantanea, è chiaramente la spina dorsale del concept di questo lavoro: Improvvisazione come matrice di una nuova forma, l'impalcatura di una ri-composizione dei suoi elementi, di una reinvenzione della sua struttura, a livello formale, prospettico, armonico.
Gran parte della "matrice" delle ri-composizioni (come
Zooubab de' Ouab,
Michele,
Forse no,
Revolt) è il risultato di sessioni di improvvisazione del duo
De Vito-Heral. La forma "estemporanea" diviene terreno di scrittura. Forme preesistenti vengono "aperte", frammentate, "scomposte" per poi riagglutinarsi
(Verbo e Umore,
Hallucinations,
Coloured Shadow,
The sixth nonsense); ricondotte al grido essenziale, alla forma nuda (joga). O infine la forma è dettata da un unico "flusso di coscienza", (Watery dreams) dai suoi mutamenti ed i suoi necessari tumulti.
Maria Pia De Vito
Quello tra Maria Pia De Vito e
Patrice Heral è l'incontro tra due improvvisatori che hanno come fulcro della propria ricerca artistica la voce ed il ritmo. Maria Pia De Vito ha posto da anni al centro del suo percorso musicale il lavoro sul suono e sull'utilizzo della voce dentro e fuori la cornice della forma–canzone, e sull'improvvisazione, dentro e fuori la cornice del jazz di matrice afro-americana. La voce come portatrice di senso, di storie e di parola, ma anche come medium per una comunicazione emotiva che dalla parola si affranca. La voce che si affranca dal suo ruolo naturale di strumento solista e melodico, diventando sostrato ritmico, grazie allo studio di forme ritmiche provenienti da culture diverse ed all'utilizzo di un "phrase sampler" che consente la sovraincisione, la " moltiplicazione " della voce e del respiro in tempo reale.
La sua collaborazione con Patrice Heral è inziata nel 2001, con la sua partecipazione alla registrazione di " Nel respiro" l'ultimo lavoro discografico della De Vito, insieme a Ralph Towner, John Taylor, Steve Swallow e ha trovato uno sbocco naturale nella registrazione di un cd che per le edizioni de "Il Manifesto", registrato a Montpellier nello scorso novembre con, ospiti, l'ironia del violoncellista olandese
Ernst Reijseger e il visionario contributo del "riverse composing" di Paul Urbanek.
PATRICE HERAL, batterista, percussionista-cantante di grande inventiva ed originalità, una duttilità e sensibilità che gli consentono di passare da atmosfere rarefatte e liriche a momenti di grandissimo impatto, sia nel drumming sia nell'utilizzo della voce, anch'esse moltiplicate tramite l'uso della tecnologia.
Il risultato di questo incontro così "naturale " ed istintivo tra i due musicisti è un dialogo incessante, fatto di canto dispiegato ed accelerazioni, di umorismo e rumorismo, di poesia e di furore, attraverso improvvisazioni estemporanee e composizioni originali "arrangiate" per un' orchestra vocale e percussiva composta – virtualmente - da un numero illimitato di elementi.
Il canto di Maria Pia De Vito è soffio, è grido, è respiro di tutto il corpo, è ornamento scriteriato della melodia, è curva dolcissima di una linea di suoni, è virtuosismo rumoristico. Il canto di Maria Pia De Vito procede da una rottura col canto canonico, ma si collega a un canone che è quello del canto jazz. Solo che il canto jazz è da sempre non-canonico, è da sempre il risultato di una rottura col canto canonico. Lo scat
all'interno del canto jazz, poi! Ecco: lo scat
piace a Maria Pia De Vito. Le piace prenderlo come impossibile tradizione, impossibile "scuola". Nello scambio di suoni con
Patrice Heral queste propensioni di De Vito vengono esaltate. Lui conosce le chances offerte dalle percussioni: quelle di fare una musica che più facilmente si sottrae alle regole. E conosce l'arte di usare la propria voce nei modi avant-jazz (o avant-garde in generale, perché no?) in un disegno artistico centrato sulla vocalità. Operando da attore e da co-regista in un attraente film.
Da qualche tempo Maria Pia De Vito cede a certi suoi impulsi sovversivi. Non si può dire quanto sia piacevole questo suo abbandonarsi. E avventurarsi. Che il nuovo album si chiami Tumulti, che uno dei brani si chiami
Revolt, dice molte cose sul clima nel quale la vocalista elabora i suoi progetti artistici, trovando un partner disponibile come Heral. Si può pensare tanto ai tumulti di piazza e alle rivolte sociali quanto ai tumulti dell'anima e alle rivolte dei sentimenti nel più privato dei conflitti. Sovversione, comunque. In termini musicali vuol dire che Maria Pia De Vito disperde l'eredità folk e ballad e teatro naturalistico in mille frammenti di suono che appaiono come fantasmi nel flusso di suoni disancorati e proiettati verso la crisi vitale della forma, crisi goduta persino sensualmente.
A proposito di sensualità. Come Cathy Berberian, come Jeanne Lee, in modo persino più scoperto, Maria Pia De Vito fa sentire nel suo canto una coincidenza davvero esaltante tra le fughe mentali e le soavi avventure carnali. Dal punto di vista sonoro non c'è stacco tra questi due momenti, c'è un medesimo sapore, al massimo una sorta di modulazione. Giravolte astratte della voce e il timbro caldo, la pronuncia irriverente: così un'idea di sensualità viene affermata nel modo meno banale e più reale.
Con un compagno di strada come Patrice Heral e con Ernst Reijseger
e Paul Urbanek, ospiti importanti e a loro volta "progettisti", Maria Pia De Vito punta tutto sull'improvvisazione. Una pratica della musica che le è familiare, che rivela la sua poetica in
Nauplia
come in
Phoné, in
A nulla
come
Nel respiro. Ma in questo nuovo cd c'è di più: l'improvvisazione si estende e soprattutto diventa filosofia musicale dalla prima nota all'ultima, senza che ci sia bisogno di ricavarla da contesti compositi. "Sotto il segno dell'improvvisazione" non significa qui, soltanto, un gran numero di sequenze sonore estranee alla scrittura: significa un modo di intendere la scrittura stessa come improvvisazione, cioè come un atto dove si gioca l'istante e non la durata, l'essere nell'oggi e non la mediazione tra passato, presente e futuro.
Verbo e umore, per esempio, è una melodia tutta scritta, ma già prima dell'incredibile assolo di
Ernst Reijseger (una sorpresa continua, una estremistica emotività, un'innovazione sconvolgente nella costruzione di un oggetto sonoro), già durante l'esposizione della melodia da parte di De Vito, il mood è quello di musica improvvisata.
Su questo punto, una piccola riflessione. Comporre musiche con la matita e il pentagramma e intitolarle
Improvvisi
o
Impromptus
come hanno fatto Schubert
e Chopin, o Tre improvvisazioni come ha fatto più avanti nel tempo, nel 1957 per l'esattezza,
Franco Donatoni, rendendo omaggio gli uni a un genere abbastanza in voga nell'800 e l'altro a opzioni che poi si sarebbero rivelate nel periodo "aleatorio" e in quello "ludico", è qualcosa di simile alle operazioni compiute in Tumulti da De Vito, Heral, Reijseger e Urbanek? Si parla di quelle parti dove si ha a che fare con melodie di base ben delineate (Verbo e umore,
Revolt
- che De Vito definisce, però, «una improvvisazione con il testo» -,
Eklil
e
Jòga in sostanza) e di quelle parti dove il fattore compositivo è consistente e strutturale (gli interventi di
Paul Urbanek in
Michele e in
Zoobab ‘de ouab, oltre ai suoi brani
The sixth nonsense
e
Coloured shadow). La risposta alla domanda è no. Per un semplice motivo: l'esperienza dell'improvvisazione in Tumulti illumina la scena, dove anche la scrittura è presente, con una scioltezza, con un insinuarsi e insediarsi, che nel mondo della musica "accademica" sono alcunché di sconosciuto.
The sixth nonsense
è, come dice De Vito, una «composizione sul ritmo» alla pari del diversissimo
Eklil, l'unico retaggio mediterraneo, peraltro abilmente stravolto, con molta grazia e astuta gradualità, da una De Vito sovversivamente globale. Ma potrebbe essere il "manifesto" di Tumulti.
Urbanek è addirittura diabolico nel pensare l'improvvisazione mentre dispone le sue note scritte. Il resto è Maria Pia De Vito che vola negli spazi free, è
Heral che, sintetico e parco, ottiene grandi risultati free, è lo stesso Urbanek che compone/improvvisa al pianoforte (solista di vaglia) contrappunti, suggerimenti, episodi dialoganti free.
Soltanto il brano
Forse no potrebbe contendere a
The sixth nonsense
il titolo di "manifesto" dell'album, o dividerlo con lui. Perché qui c'è il culmine della De Vito sventata e irrequieta e c'è un
Reijseger swingante paradossale, nuovo Slim Gaillard, come lui surrealista e dadaista, come lui nelle sonorità tipo performance del jazz di mezzo. E tutto il brano è un elogio della dissoluzione e della dissolutezza. Michele è un prodigio di improvvisazione tematica su un non-tema. Su un'invocazione, cioè. Una teatralissima invocazione che sembra nascere nei vicoli e si trasforma, con altre voci che riprendono certe mirabili "lamentazioni" corali del primo Art Ensemble of Chicago, in un itinerario di libere associazioni.
Difficile trovare un album dove la coerenza di un'idea "radicale" della musica si associ, come in questo, con la caratterizzazione assai forte di ogni singolo brano. Niente classifiche, prego. Ma in qualunque rassegna di musica contemporanea o di jazz extra-routine si userebbe il vecchio termine "capolavoro" a proposito di
Watery dreams. Voce sognante, voce orgasmica, voce mormorante, percussioni scabre e fantasiose, live electronics a dare al tutto un sapore di perdizione e di piacevole alterità. E il termine verrebbe replicato a proposito di
Hallucinations, che simula una classicità post-bop ma esibisce una spettacolare «frammentazione della composizione» (di Bud Powell), come dice Maria Pia De Vito. Quanto a
Jòga, l'autrice (cantautrice) ringrazia. Vero che gli apparati orchestrali di cui si avvale Bjork sono calibrati e raffinati, ma un Reijseger indisciplinato che commenta il suo canto se lo sogna, e si sogna una De Vito che le toglie ogni ombra di manierismo, con inaspettata linearità e fermezza dell'eloquio.
Mai come in questo lavoro Maria Pia De Vito ha cantato dentro un collettivo, strumento insieme agli strumenti, nessuno dei quali accompagna lei mentre lei li sollecita tutti e ne viene sollecitata. Anche questo vuol dire l'improvvisazione al primo posto. Eppure mai come in questo lavoro Maria Pia De Vito è stata una leader. Con l'autorevolezza di un canto da primadonna e di una proposta rivoluzionaria senza compromessi. Agisce nel miglior ensemble possibile.
Patrice Heral (Montpellier, Francia, 1965),
Ernst Reijseger (Bussum, Olanda, 1954),
Paul Urbanek (Vienna, Austria, 1964) hanno biografie artistiche con poche dosi di eclettismo e molte di "radicalismo" non penitenziale. A leggerle bene, e ad ascoltare bene i loro suoni in Tumulti, si capisce che questi musicisti sono lontani dalle vecchie simmetrie e dai nuovi cliché populisti (world music variamente camuffata) che si diffondono da qualche tempo nel jazz e anche nella musica "colta". In sintonia con John Cage, attualissimo teorico, tengono alla libertà propria e dei suoni.
Mario Gamba
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Data pubblicazione: 12/08/2003
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