Multiculturita Summer Jazz 2007
Capurso (BA), 17 - 20 luglio 2007
di Alberto Francavilla
foto Studio '96 di Salvatore Pastore - Capurso
Capurso capitale pugliese del jazz nell'estate
2007. Non si tratta di un messaggio promozionale volto a promuovere
un evento, ma un giusto riconoscimento per chi ha consentito a questo paese, sito
nell'hinterland barese, di divenire in così pochi anni uno dei punti di riferimento
regionali dal punto di vista musicale. Giunto alla quinta edizione, il
Multiculturita
Summer Jazz, organizzato dall'Associazione
Multiculturita, ha offerto un programma di tutto rispetto. Grazie agli
sforzi profusi dai ragazzi dell'Associazione, guidati dalla direzione artistica
di Michele Laricchia, la rassegna si è presentata ai nastri di partenza della
stagione estiva con un cartellone certamente tra i più ricchi del Sud Italia.
Lo
start è fissato per il 17 luglio, la location è quella
tradizionale per gli avventori della manifestazione, ovvero il sagrato della Reale
Basilica. Ad aprire le danze un doppio appuntamento. I primi a salire sul palco
sono i componenti del
Pierluigi
Balducci Ensemble, rappresentanti del jazz made in Puglia. Ed
il quintetto in questione esibisce un sound che tanto ricorda questa regione, meticcia
e contaminata per antonomasia. Le sonorità costruite dai cinque musicisti travalicano
continuamente i classici muri di genere (casomai vi fosse ancora qualcuno che ci
crede), riprendendo in maniera esplicita le tradizioni popolari, rievocate già in
alcuni titoli. Infatti Taranta Monk e
la Polka di Wallant si rifanno esplicitamente
al folklore, ed esaltano le scorribande del violino di Leo Gadaleta e l'estremo
lirismo della fisarmonica di
Luciano Biondini, due strumenti che affondano le radici proprio
nella cultura popular, ma anche nell'insistito uso delle percussioni a mano da parte
di Giuseppe Berlen. In particolare,
Biondini dimostra di avere il carattere giusto per affiancare
Balducci
nella direzione del combo, e non è un caso che le liriche suonate questa sera portino
la firma del bassista barese e del fisarmonicista umbro. Il leader ufficiale, infatti,
conferma la propria abilità in fase di composizione e arrangiamento, curati fin
nei minimi dettagli, ma lascia anche notevole spazio ai propri compagni di avventura.
Ovviamente
Balducci si concede qualche divagazione, regalando spunti interessanti
nell'intro di Taranta Monk, grazie ad un groove insistito che crea un'atmosfera
dai toni lievemente cupi (come d'altronde il grande Thelonious insegnava), prima
che l'irruzione di Gadaleta e
Biondini conferisca coerenza melodica al pezzo. Subito dopo invece
il basso cambia registro per un intenso duetto con la fisarmonica, accompagnati
dalle percussioni di Berlen. Per il resto, da registrare anche la presenza
di Antonio
Tosques, che tratta con delicatezza le corde della propria chitarra,
erigendo fraseggi puliti ed essenziali. Cala il sipario su questo primo set e ci
si prepara al seguito.
Ed è una prosecuzione davvero scoppiettante quella che scuote il pubblico
accorso nella cittadina pugliese. A divorare letteralmente la scena è un manipolo
di quindici scalmanati giunti dalla Toscana, per la precisione da Vicchio (come
verrà ribadito a più riprese nel corso dell'esibizione). I Funk Off,
già
rivelazioni dell'ultima edizione di
Umbria Jazz,
confermano le buone parole spese sul loro conto con una prestazione a dir poco dirompente.
Guidata dal baritonista Dario Cecchini, the one and only funk murchin'
band (così amano definirsi, ed infatti prima dell'inizio dei concerti hanno lasciato
traccia per le strade di Capurso) sconvolge la serata con una performance energica
e coinvolgente: emblematica, in tal senso, la partecipazione degli spettatori, che
dopo metà concerto seguito nella tradizionale posizione ingessata, si è lasciato
andare a sfrenata danze, come richiesto esplicitamente dalla band. L'elemento spettacolare
va dunque ad aggiungersi a quello uditivo, e sembra abbastanza peculiare dei live
dei Funk Off, dal momento che i quindici riescono a muoversi sul palco simultaneamente
e senza pestarsi i piedi, certificando il grande lavoro coreografico che è parte
integrante di questo progetto (oltretutto l'ensemble è dotato di abbigliamento assolutamente
identico per tutti). Ma la sovrabbondanza numerica è difficile da gestire anche
da un punto di vista più strettamente musicale: far andare nella stessa direzione
tre trombe, tre sax baritoni, due alti, due tenori, un bassotuba, rullanti, casse,
piatti, è un'impresa non da poco, che attesta l'abilità direttiva di Cecchini.
Il risultato è comunque devastante, e lega una ordinata padronanza strumentale ad
una simpatia ed un ritmo vorticosi, che lascia l'ascoltatore senza respiro, costretto
ad inseguire (sia in senso metaforico che in senso fisico) i quindici musicanti
durante le continue scorribande. Insieme a composizioni proprie (da segnalare
Funk Off, l'orientaleggiante
Istanbul, Follow
The White Rabbit, I Wanna Get Funky Now
e Uh Yeah!, che ha anche dato il nome al primo
disco dei Funk Off), arriva anche la citazione di uno dei più prolifici jazzisti
italiani di sempre,
Maurizio
Giammarco, del quale i ragazzi di Vicchio rielaborano a proprio modo
Magic Touch. A fine concerto i capursesi, assolutamente
conquistati, riservano la giusta ovazione per un gruppo capace di divertire divertendosi.
Per la seconda serata della rassegna il proscenio non cambia, con la Reale
Basilica a fare da sfondo agli artisti che si esibiscono sul sagrato. E l'appuntamento
è di quelli da non perdere, visto che sulla scena si apprestano ad irrompere cinque
protagonisti del jazz di casa nostra, tra i più apprezzati sia nello Stivale che
all'estero: il quintetto di
Enrico Rava
costituisce ormai da tempo una garanzia e anche in quest'occasione non tradisce
le attese. Il trombettista triestino, unanimemente riconosciuto come uno degli alfieri
del jazz italiano a livello internazionale, porta con sé i musicisti che lo accompagnano
ormai già da qualche anno, compreso
Andrea Pozza
che a partire dall'ultimo lavoro discografico "The
Words And The Day" ha sostituito al piano
Stefano
Bollani.
Ed
è proprio questa la novità di maggior rilievo nell'economia delle strade sonore
battute dai cinque, dal momento che lo stile di
Pozza,
molto poco appariscente, ne rileva un accompagnatore che si adatta alla tendenza
un po' minimale del leader: il suo unico assolo, durante "Certi
angoli segreti", mantiene sempre una forma misurata ed equilibrata,
ben lontana dalla pantagruelica voracità che contraddistingue il panismo del suo
predecessore.
Pozza va sostanzialmente ad affiancarsi alla sezione ritmica
formata dalla premiata ditta Bonaccorso –
Gatto:
il batterista romano appare in serata particolarmente di grazia, regalando alcuni
spunti notevoli (gli assoli di "Algir Dalbughi"
e "Echoes of Duke" strappano
applausi), confermando un gusto tutto personale nel riuscire ad approcciarsi in
maniera quasi melodica al proprio strumento. Caratteristica che si confà di certo
anche al contrabbassista siciliano, che forse all'apparenza sembra un po' più relegato,
ma nel solo di "Certi angoli segreti" dimostra di saper toccare le corde
giuste con classe ed eleganza, andando ad inseguire gli strumenti tradizionalmente
melodici sul loro stesso campo. Ma a spiccare nella notte capursese è senza ombra
di dubbio il trombone di
Gianluca Petrella,
ormai totalmente in sintonia con la tromba di
Rava,
tanto da poter esserne considerato in un certo modo il suo alter ego. L'intesa tra
il giovane trombonista barese e il più attempato maestro è a dir poco strabiliante,
i due si cercano, si alternano, si sovrappongono sempre con sincronismo perfetto
(ascoltare "Algir Dalbughi" per credere), e l'emblema di questa simbiosi
è data dall'esecuzione di "Art decò"
di Don Cherry, in cui
Rava
e Petrella
rimangono soli sul palco, alternandosi nell'accompagnamento e nelle parti solistiche
senza alcuna distinzione, come se non facessero altro che suonare insieme da tutta
la vita. È incredibile come il musicista barese riesca ad utilizzare uno strumento
solitamente ostico come il trombone con una tale facilità di fraseggio, con una
tale originalità nell'improvvisazione e con un tale carisma da veterano a soli trentadue
anni! Aveva avuto orecchio fino
Rava
per volerlo in maniera stabile nel suo quintetto, lanciando un talento puro che
si sta ormai affermando anche a livello internazionale (anche quest'anno si è aggiudicato
il Down Beat Critics Poll nella categoria di "miglior trombonista emergente").
Da par suo, la tromba storica del jazz di casa nostra si conferma una volta di più
in palla, col suono essenziale che da sempre lo caratterizza: poche note, suonate
sempre con eleganza, ed un timbro profondo che raramente capita di ascoltare nei
trombettisti, che sono ormai il marchio di fabbrica di
Rava.
La playlist di questa esibizione al Multiculturita consta sia di brani ("Todamor",
"Tutù" e "Echoes of
Duke") inseriti nell'ultimo album, inciso proprio con questa formazione,
che di composizione di più vecchia data ("Rain",
"Algir Dalbughi", "Certi
Angoli Segreti"), a testimonianza della continuità che da sempre (e probabilmente
per sempre) contraddistingue il percorso artistico di questo fenomeno tutto italiano.
Terzo incontro col
Multiculturita
Summer Jazz e cambio di scenario per gli habitué del festival. La carovana
si sposta dal sagrato della basilica e approda allo Stadio Comunale di Capurso.
Sul prato del campo di gioco sbarca una leggenda della musica d'autore, accompagnato
da quattro formidabili musicisti: Gino Paoli presenta la sua ultima fatica
"Milestones – Un incontro in jazz",
affiancato da un quartetto di autentici pilastri come
Enrico Rava,
Roberto
Gatto, Rosario Bonaccorso e
Danilo
Rea. È l'occasione per risentire alcune pietre miliari che hanno contraddistinto
la longeva carriera del cantautore genovese, riarrangiate in chiave jazzistica.
I
cinque protagonisti si divertono a giocare con le melodie di canzoni oltremodo conosciute,
sviscerandole pur mantenendo fedeltà agli originali. Spicca un toccante assolo di
Rava
nell'intro di "Sassi", brano forse
tra i meno conosciuti, ma sicuramente uno di quelli che meglio si presta a questo
tipo di lavoro. Per tutta la durata del concerto la tromba si alterna alla voce
di Paoli, fino a fondersi in un'unica miscela al momento del ritornello,
seguendo un climax che sarà lo schema costante di tutta la performance: intro strumentale,
poi ingresso della voce del cantante, poi di nuovo spazio alla "voce" degli strumenti,
fino all'apice finale in cui musica e testi si fondono in un unico impasto. L'ingrediente
segreto di questa ricetta è senza dubbio l'impeccabile interplay, dettato dalla
pluriennale conoscenza reciproca dei membri di questo quartetto: ognuno di loro
sa già cosa faranno gli altri, basti vedere l'affiatamento tra
Gatto
e
Rea (i due romani suonano insieme ormai da tantissimo), per cui la
batteria riesce a riprendere sempre il tempo giusto anche quando il piano si inerpica
su sentieri armonici più ardui. Particolarmente incisivi due assoli di
Rea,
in "Senza fine" e soprattutto
ne "Il cielo in una stanza", in cui il
tema viene ripreso in tutte le tonalità possibili. Ma in questa serata c'è spazio
per tutti:
Gatto irrompe con un assolo che ben amalgama melodia e ritmo prima
della chiusa di "Senza fine", Bonaccorso introduce "La
gatta" e "Sassi"
pizzicando le corde in maniera dolce e pulita,
Rava
si fa notare in un altro bel solo ne "Il cielo in una stanza". Gino Paoli,
sornione, ammira le evoluzioni pirotecniche dei suoi compagni di avventura, per
poi inserirsi nelle pieghe musicali col suo inconfondibile tono profondo che l'ha
imposto a partire dagli anni Sessanta nel firmamento delle stelle del cantautorato.
Il vocalist, friulano di nascita ma genovese d'adozione, ripercorre tutti i brani
che l'hanno reso celebre ("Sapore di sale",
"La gatta", "Senza
fine", "Che cosa c'è", "Sassi",
"Il cielo in una stanza", "Quando",
"Vivere ancora"), mandando in visibilio il pubblico
meno giovane, quello cresciuto ascoltando queste liriche, che ascolta curioso le
alchimie architettate dagli artisti all'opera nella rilettura di tali capolavori.
Ma non mancano anche gli omaggi, come ad esempio la rivisitazione di "I
fall in love too easily", celebre standard riletto a più riprese
nella ormai quasi centenaria storia del jazz. E quando gli spettatori chiedono a
gran voce il bis, i protagonisti di questa serata dal sapore un po' vintage
si congedano con una bella esecuzione di "Una
lunga storia d'amore", degna conclusione di una parabola che ben
racconta "la lunga storia d'amore" tra Gino Paoli e la musica.
Nell'ultima sera del festival gli organizzatori del festival servono il
piatto forte della rassegna, o perlomeno il più atteso. Allo Stadio Comunale di
Capurso arrivano infatti due tra i più influenti jazzisti delle ultime generazioni:
dopo
aver realizzato due cd e dopo un lungo tour europeo che li aveva portati anche ad
Umbria Jazz, ecco qui
Pat Metheny
e Brad Mehldau,
insieme a Larry Grenadier e Jeff Ballard, inseparabili compagni del
pianista americano. La lunga tournee è seguita ai due cd che
Metheny
e Mehldau
hanno pubblicato nell'arco dell'ultimo anno, di cui "Metheny
Mehldau" in duo e "Quartet"
assieme ai musicisti succitati. Ed anche questo concerto segue lo stesso schema.
Si parte con piano e chitarra, che attaccano sulle note di "Unrequited",
brano di apertura dell'album in duo:
Metheny
assurge immediatamente a ruolo di protagonista, mentre
Mehldau,
leggermente più in disparte, accompagna gli eleganti fraseggi della synth guitar
del musicista di Kansas City. Lo schema si ripete nella successiva "Annie's
Bittersweet Cake", in cui parte anche il gioco di rimandi che
il duo porterà avanti per tutta l'esibizione: mentre
Metheny,
grazie alla tecnica dell'hammer on, comincia la arrampicata sulle scale tonali delle
proprie corde,
Mehldau lo segue sapientemente, fino a raggiungerlo e a suonare
in sincrono con lui. E qualcosa di simile accade nella seguente "Make
piece" in cui, durante un insistito riff di chitarra il pianista
sembra quasi invitare il proprio dirimpettaio a scandire le note ad una ad una:
Metheny
accetta l'invito e incomincia a cadenzare gli accordi così come delineato in precedenza
dal piano.
"A
night away", dolce ballad della quale si ricorda il morbido arpeggio
methyniano con la chitarra acustica chiude un ideale primo set. È infatti giunta
l'ora di Larry Grenadier e Jeff Ballard, che si confermano musicisti
esplosivi già dai primi tocchi, con il loro groove martellante che immette in
"En la tierra que olvida", brano
dal sapore vagamente latineggiante. Soprattutto Ballard si dimostra letteralmente
indiavolato, e va a scombinare continuamente i tempi costruiti dal combo, come in
"The sound of water", contraddistinta
da repentini cambi di ritmo. La frenesia impressa da contrabbasso e batteria, costantemente
tallonati da
Metheny, viene spesso controbilanciata dalle incursioni sonore di
Mehldau,
il cui uso della mano sinistra (melodico più che percussivo) non è più un segreto
per nessuno: così accade in "Ring of life",
nella quale il piano si innesta su un energico assolo slappato di Grenadier,
ed anche in "Towards the light",
nella quale invece il pianista originario della Florida si incastra in un vigoroso
assolo di Ballard, che suona anche una buona metà del pezzo in controtempo,
prima di cambiar registro con l'avvento della chitarra. Segue "Vera
Cruz", con
Metheny
che sfodera finalmente la sua arma segreta: la Picasso guitar, un vero e proprio
gioiello a 42 corde (!), con il quale il nostro può spaziare all'ennesima potenza
sul terreno delle tonalità; non ci potrebbe essere miglior modo per rendere omaggio
a Milton Nascimento, autore della composizione. Dopo i delicati accordi di
"Lauderdale Waltz", in cui torna
in scena la synth guitar, arriva "Fear trembling",
ultimo pezzo in scaletta, che si trasforma nell'apoteosi di Jeff Ballard:
dopo aver impresso un ritmo forsennato, seguito dagli altri, in primis
Metheny
che cesella fraseggi velocissimi con una magistrale precisione, il batterista californiano
si propone in un assolo pirotecnico, quasi dieci minuti di spettacolo puro che lascia
gli spettatori a bocca aperta, confermando, qualora ce ne fosse bisogno, che questa
sera non suonavano solo
Pat Metheny
e Brad Mehldau.
Applausi scroscianti e pubblico in delirio che chiede a gran voce il bis e viene
immediatamente accontentato.
Metheny
si fionda sul palco e, accompagnato da
Mehldau,
intona "Say the brother's name".
Il successo di questa serata simboleggia il consenso che ha avvolto tutto
il Multiculturita
Summer Jazz e testimonia, una volta di più, la bontà dei risultati ottenuti
in così pochi anni da una manifestazione che, cominciata in sordina come tante altre
rassegne, è in breve tempo esplosa fino ad assumere una rilevanza che va oltre il
contesto regionale.
Intervista a Pat Metheny
di Marco Losavio
M.L.: Come è avvenuto l'incontro con Mehldau?
P.M.: Ognuno di noi due già conosceva l'altro e cosa faceva. Brad l'ho notato
sin dai suoi esordi. Poi abbiamo sscoperto che praticamente uno comunque era in qualche modo influenzato
dall'altro. Finchè ci siamo finalmente incontrati ed abbiamo deciso di registrare
insieme e lo abbiamo fatto molto velocemente, in una settimana, poi abbiamo
organizzato il tour.
M.L.: Nessuna regola specifica, nessun ruolo
precostituito?
P.M.: La musica che abbiamo suonato è stata composta appositamente ed è un
tipo di musica piena di moltissimi dettagli. Le composizioni sono state scritte
anche pensando probabilmente a come le avremmo interpretate, senza darci un peso
eccessivo ma credo che fosse nelle nostre menti. C'è la parte d'improvvisazione nella quale
ovviamente si è liberi ma credo che entrambi già avevamo un'idea in mente di come
avremmo potuto integrarci anche se non ce lo siamo detto. E in questo senso credo
che sia stato un qualcosa senza alcun ruolo e senza alcuna regola predefiniti ma
ascoltando l'album, a posteriori, si identificano senza dubbio sia ruoli che regole...E'
stato comunque un approccio molto serio nel senso che abbiamo voluto fortemente
creare qualcosa che potesse andare al di là di un semplice incontro...
M.L.: Chiunque al mondo, dopo un paio di note,
è capace di riconoscerti, come si fa a creare un proprio suono?
P.M.: Questo è sempre stato un obiettivo per me e penso sia un obiettivo
per un certo tipo di musicisti jazz. Non mi sono mai seduto dinanzi alla strumentazione
con l'obiettivo di trovare un suono perchè dovevo trovarne uno, ma ho cercato un
suono che mi identificasse, che rappresentasse al meglio le idee che avevo in mente,
che mi aiutasse nell'eseguirle proprio come avrei voluto...I risultati arrivano
quando cominci a trovare un modo per esprimere veramente te stesso attraverso lo strumento, sviluppi un tuo dialetto,
e più in generale ti riconosci nella musica che fai...
M.L.: "Smoke at the half note" di Wes Montgomery,
"Undercurrent" di Jim Hall con Bill Evans, "Question and Answer" di
Pat Metheny. Tre pietre miliari della storia della chitarra jazz...
P.M.: Oh...questo è un enorme complimento, affiancato a questi due album
di assoluto valore...ti ringrazio di cuore ma non sono in grado di confermare o
meno questa cosa...però l'apprezzo tantissimo, grazie... :-)
M.L.: Ogni tuo progetto è sempre sotto i riflettori
di tutto il mondo. Qual è la prossima tua idea, cosa stai per fare?
P.M.: Il prossimo progetto immediato è una registrazione in trio con Chris
McBride e Antonio Sanchez con i quali ho suonato molto anche in Italia
negli ultimi due anni ma con i quali non ho mai inciso un disco. Lo abbiamo registrato
e uscirà a in autunno, a gennaio-febbraio partirà il tour. Sono molto felice di aver potuto registrare con loro. E inoltre
c'è un altro progetto che sarà una reunion con Gary Burton in cui ci saranno
anche Steve Swallow al basso e Antonio Sanchez alla batteria.
M.L.: Pensi di esplorare qualche altro duo
di chitarre come hai fatto in passato insieme a Scofield, Frisell,
Jim Hall...?
P.M.: Penso che farò qualcosa con Bill Frisell. Abbiamo fatto poche
cose insieme ma abbiamo una forte connessione artistica e penso proprio che dovremmo
registrare un nuovo disco...
M.L.: Col PMG, suoni sempre How Insensitive,
una cover, probabilmente l'unica con quella formazione. C'è un motivo?
P.M.: Sì col gruppo la suoniamo molto spesso e da molto tempo. Jobim
ha un qualcosa di speciale per me. Le sue composizioni sono tutte tra le mie favorite
e How Insensitive lo è in modo particolare...
27/08/2011 | Umbria Jazz 2011: "I jazzisti italiani hanno reso omaggio alla celebrazione dei 150 anni dall'Unità di Italia eseguendo e reinterpretando l'Inno di Mameli che a seconda dei musicisti è stato reso malinconico e intenso, inconsueto, giocoso, dissacrante, swingante con armonizzazione libera, in "crescendo" drammatico, in forma iniziale d'intensa "ballad", in fascinosa progressione dinamica da "sospesa" a frenetica e swingante, jazzistico allo stato puro, destrutturato...Speriamo che questi "Inni nazionali in Jazz" siano pubblicati e non rimangano celati perchè vale davvero la pena ascoltarli e riascoltarli." (di Daniela Floris, foto di Daniela Crevena) |
16/07/2011 | Vittoria Jazz Festival - Music & Cerasuolo Wine: "Alla quarta edizione, il festival di Vittoria si conferma come uno dei più importanti eventi musicali organizzati sul territorio siciliano. La formula prescelta dal direttore artistico è quella di dilatare nel tempo gli incontri musicali, concentrandoli in quattro fine settimana della tarda primavera, valorizzando uno dei quartieri più suggestivi della città, la restaurata Piazza Enriquez, e coinvolgendo, grazie a concerti e jam session notturne, una quantità di pubblico davvero rilevante, composto in parte da giovani e giovanissimi, portatori di un entusiasmo che fa davvero ben sperare sul futuro del jazz, almeno in questa parte della Sicilia." (Vincenzo Fugaldi) |
15/08/2010 | Südtirol Jazz Festival Altoadige: "Il festival altoatesino prosegue nella sua tendenza all'ampliamento territoriale e quest'anno, oltre al capoluogo Bolzano, ha portato le note del jazz in rifugi e cantine, nelle banche, a Bressanone, Brunico, Merano e in Val Venosta. Uno dei maggiori pregi di questa mastodontica iniziativa, che coinvolge in dieci intense giornate centinaia di artisti, è quello, importantissimo, di far conoscere in Italia nuovi talenti europei. La posizione di frontiera e il bilinguismo rendono l'Altoadige il luogo ideale per svolgere questo fondamentale servizio..." (Vincenzo Fugaldi) |
30/08/2009 | Laigueglia Percfest 2009: "La 14° edizione, sempre diretta da Rosario Bonaccorso, ha puntato su una programmazione ad hoc per soddisfare l'appetito artistico di tutti: concerti jazz di altissimo livello, concorso internazionale di percussionisti creativi Memorial Naco, corso di percussioni per bambini, corsi di GiGon, fitness sulla spiaggia, stage didattici di percussioni e musicoterapia, lezione di danza mediorientale, stage di danza, mostre fotografiche, e altro." (Franco Donaggio) |
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Data pubblicazione: 26/08/2007
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