Intervista a Karima di Laura Scoteroni
Foto di Pasquale Fabrizio Amodeo
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La vocalist Karima, tornata sulle scene con un nuovo disco "Close to You"
nel quale reinterpreta alcuni dei brani più famosi di Burt Bacharach. Dopo l'esperienza
negli States, è attualmente impegnata con il tour di presentazione del nuovo disco
dei FunkOff dal titolo "Things Change". L'abbiamo incontrata a Roma alla
Casa del Jazz, quarta tappa del tour.
Dalla dote naturale alla studio come professionista, come
è andata?
Ho iniziato a cantare molto presto: a sei anni; mentre ho iniziato a studiare canto
a 22 anni, per cui tutto quello che ho fatto prima ‘Domenica In', ‘Bravo Bravissimo',
tre anni di coro gospel, i musical, sono tutte cose che ho fatto da autodidatta.
Ho ascoltato tanta musica, ho avuto la fortuna del dono della voce concessomi dal
Signore, e quindi l'ho coltivata tanto. I primissimi anni tutto quello che son arrivata
a fare è da autodidatta, ho iniziato a studiare canto dopo la trasmissione ‘Amici'.
L'incontro e la collaborazione con Bacharach: quali sono
stati i pro ed i contro se risono stati?
Ho fatto un po' da spugna in questa esperienza, ho cercato di imparare tutto quello
che un personaggio come lui a 87 anni, può trasmettere e può dare a una cantante
giovane come ero io, che ormai ho raggiunto i trent'anni. Mi ha trasmesso e insegnato
tantissimo, riflettendoci aspetti negativi non ce ne sono stati, perché lui è una
persona estremamente semplice, questa è la grandezza. Io dico sempre che ‘chi
è davvero grande non ha bisogno di dimostrarlo ', come ‘chi ha i soldi non
ha bisogno di andare in giro sfarzoso, con una supermacchina per far vedere il potere';
lui va in giro costantemente in tuta e scarpe de ginnastica, si mette il completo
giacca e cravatta solo per il palco. Se dovessi dire anche solo una cosa negativa
non potrei dirtela perché non c'è.
Come hai fatto con la lingua?
L'inglese lo parlo abbastanza, poi lui è un po' come i bambini, perché gli anziani
parlano già diversamente: lui parlava un po' sottovoce, un po' non scandendo le
parole, e per me era difficilissimo capirlo, per cui cercavo di tendere l'orecchio
e captarlo, quando era impossibile, nel panico dicevo ‘aiutatemi perché questa parte
della frase me la sono persa'.
L'album "Close to you" è la naturale prosecuzione dell'incontro
con il maestro?
E' stata più la ciliegina sulla torta che ha coronato questa collaborazione che
è nata quando avevo ventitré anni. Molti pensavano che io nono sapessi neanche di
fosse Burt Bacharach, data la mia giovane età, invece a sedici anni già cantavo
i suoi grandi successi, quindi per me è stato uno dei sogni che si è andato a coronare,
questa collaborazione è stata meravigliosa, una cosa che mi porterò dietro tutta
la vita, un onore ed un insegnamento incredibile. Il disco è stata proprio una scelta
di fare un omaggio a lui, tra l'altro ‘Close to you' che dà il titolo al
disco, è uno dei suoi brani più conosciuti, portato al successo dai The Carpenters,
la cui traduzione letterale significa ‘vicino a te, vicino a voi'. Io vengo una
lunga pausa discografica, l'ultimo disco è del 2010, mentre questo è uscito nel
2015, nel mezzo ho fatto diverse cose, tra l'altro anche una bambina! Il disco era
un modo di comunicare ai miei fan, alle persone che mi seguono e anche a quelle
che non mi seguono, che c'è comunque una vicinanza, perché se un artista, per un
momento è fuori dalle scene, televisione, radio, non significa che sia lontano dal
suo pubblico. Dietro le quinte in realtà si crea il maggior lavoro, perché andare
nello studio di registrazione è veramente un attimo, il lavoro grande è nella pre-produzione,
è tutto quello che succede prima, il rapporto con i musicisti, l'arrangiamento;
è quasi necessario trasmettere che l'artista anche se non è visivamente presente,
è comunque in empatia con il proprio pubblico. C'è sempre questo cordone ombelicale,
ed è bene ricordare che noi artisti senza il pubblico non saremmo niente, per cui
noi dobbiamo il nostro successo, la nostra gratificazione alle persone che ci permettono
di fare questo lavoro.
Come nasce la scelta del medley di "The guy's in love with
you / A house is not a home"? A parte le esigenze di compressione per far rientrare
tutti i brani nel cd, se non sbaglio Bacharach il brano "A house is not a home"
lo abbina ad "Alfie". L'abbinamento è frutto di scelte o di esigenze?
Per quanto riguarda ‘Alfie' è un brano che ritengo il mio cavallo di battaglia,
è il brano con cui Bacharach mi ha conosciuto per la prima volta ascoltandomi; è
il brano che nel disco o nel live riservo sempre a pianoforte e voce, preferendo
farlo per intero, tra l'altro dura sette minuti e mezzo dal vivo e nel disco; minuti
che volano, perché crea un'atmosfera che ti trasporta. Quindi non volevo ‘inquinarlo'
con un altro brano. Abbiamo cercato armonicamente un brano che stava bene con ‘A
house is not a home' che è una bellissima ballad con un medium come ‘The
guy's in love with you' che non è né un fast né un'altra ballad, ma è qualcosa
che armonicamente si riusciva ad agganciare.
Quali sono le differenze che hai riscontrato nel lavorare
in Italia e negli Stati Uniti per quanto riguarda la musica?
La prima differenza è che in America è un lavoro ed è riconosciuto come tale. Noi
in Italia siamo famosi per il fatto che quando una persona ti chiede ‘che lavoro
fai?' e te gli dici ‘il cantante' ti risponde ‘sì per hobby, ma di
lavoro?'. Qui non è concepito ancora come tale, nonostante ci siano moltissime
persone che lo fanno per lavoro. Non è concepito neanche a livello governativo;
per esempio ho un amico che è andato a Berlino, quando a fine mese non è riuscito
a guadagnare quello che gli serviva per vivere lì ha avuto un aiuto, un sussidio,
che qui non abbiamo. In America è riconosciuto come un lavoro e non c'è il pregiudizio
che abbiamo qua. E' chiaro che se voglio fare una cosa che mi piace non sto a giudicare
con chi lo faccio. Ad esempio quando avevo diciotto anni suonavo con quelli di cinquanta,
perché mi dicevano punta sempre al top, perché se punti a 100, mal che vada fai
novanta; però se punti ad accontentarti di settanta, rimarrai giusto sulla sufficienza.
Che tipo di esperienza è stata l'apertura del live ‘Nothing
but love' di Whitney Huston a metà aprile del 2010?
Questa è stato il top del top del top! Perché io sono cresciuta ascoltando le canzoni
di Whitney Huston, devo principalmente a lei se sono una cantante professionista.
Quando l'ho ascoltata mi sono detta: ‘io voglio cantare così'. Io amo tutto
di lei, come donna, come artista, come bellezza, come talento, come classe, come
simpatia: per me lei aveva tutto.
Che insegnamento ti ha dato la vicenda di Whitney, sulla
tua vita? Cosa ti ha fatto pensare?
Bella domanda, non me l'ha mai fatta nessuno. Io non ci volevo credere, mi hanno
mandato un milione di messaggi come se mi fosse morto un parente, perché sapevano
quanto ero legata a lei. Probabilmente mi ha insegnato che bisogna cercare di apprezzare
quello che abbiamo, lavorare per avere il meglio, ma il rischio di cadere nell'insoddisfazione
cronica c'è e nasce dal rincorrere sempre qualcosa. Per cui credo che soffermarsi
e apprezzare quello che hai nel presente e non lamentarsi troppo di quello che magari
non si ha, perché quello che deve arrivare, col tempo arriverà.
Questo ha influenzato l'idea di metter su famiglia?
No. Mia figlia Frida oggi ha sedici mesi, io ho sempre desiderato un figlio entro
i trent'anni, questo desiderio è sempre stato dentro di me, poi s'è avverato, perché
sono rimasta incinta all'improvviso. Stavo da pochissimo insieme con il mio compagno,
non ci pensavo, ma Frida è arrivata e facendo un conto che in quel mese in cui ero
ignara d'essere incinta, avevo fatto di tutto: giocavo a tennis, andavo a correre
10 km. al giorno, sono caduta, ho fatto il bagno nell'acqua ghiacciata al mare.
Alla prima ecografia già c'era il cuore, sicché ho detto ‘questa è una forza
della natura', ho fatto il conto ed ho detto ho ‘ventotto anni il mio desiderio
alla fine si è esaudito'. Tu, da mamma, puoi capire che è un bel lavoro, andare
a lavorare e avere una famiglia richiede tanta energia tanta dedizione.
Qual è la parte più difficile di questo mestiere?
La parte più difficile, per chi come me punta alla qualità e al valore delle cose,
è che il mondo di oggi va troppo in fretta, corre troppo, e in questo correre troppo
ci perdiamo le sfumature delle cose, perdiamo anche quello che succede intorno a
noi, e nella nostra vita; per ciò, magari fai una cosa, questa dura un mese e poi
svanisce. Esempio la radio va talmente veloce, anche il pubblico non ha la possibilità
di capire cosa davvero gli piace, perché vengono bombardati di una serie di musica
così velocemente, che uno si abitua ad un singolo e il mese dopo ne è già uscito
un altro: e questo mi fa un po' paura. Quando si è sparsa la diceria sulla profezia
dei Maya, ho sperato che portasse a una consapevolezza maggiore, vorrei che qualcuno
da lassù tirasse un po' il freno a mano, ci facesse rallentare. E' una cosa in cui
confido molto.
Com'è nato l'incontro con i FunkOff e Dario Cecchini ?
E' nato grazie a Dario Cecchini che mi ha cercata, per questo nuovo progetto
‘Things change' il loro disco, dove ci sono Raul Midòn ed Avery Sunshine,
due musicisti bravissimi. Mi hanno detto ‘perché non vieni con noi a fare la
promozione del disco?'. Io quando ho frequentato la Berkleee School di Boston
ho fatto le Clinics ad UmbriaJazz ero piccolina e seguivo i Funk Off. Probabilmente
è successo anche perché parliamo la stessa lingua toscana e tra di noi c'è un feeling
pazzesco, anche il modo di stare insieme quando non si è sul palco è molto importante
perché crea un'alchimia che si riversa anche nella musica. Credo che nascerà una
collaborazione davvero interessante anche per il prossimo disco, stiamo già lavorando
per dei brani nuovi insieme. Sono molto contenta anche perché Dario è una persona
eccezionale.