Pat Metheny Artist in residence plus Special Guests
21-23 Luglio 2003: Ravenna Jazz "XXX
Edizione"
di Vittorio Pio
Pat Metheny deve conoscere a fondo "Il mio desiderio feroce", la biografia di Keith Jarrett uscita qualche anno fa, perché il postulato di uno dei suoi riferimenti assoluti serve in parte a spiegare come l'idolatrato chitarrista del Missouri sia diventato quello che oggi è. Metheny può piacere come risultare insopportabile, in carriera ha già avuto diversi incontri con uomini straordinari e intorno al jazz è diventato anche plurimiliardario, però quando suona, niente e nessuno può distoglierlo nella sua totale dedizione riguardo alla musica.
Da qualche tempo ha messo su famiglia e quindi ha cercato di impostare in maniera diversa le sue "comunque" 150 serate all'anno dedicate ai concerti.
Quest'estate per esempio ha dato la sua disponibilità a cinque festival europei per essere artista residente, di modo da potersi confrontare con artisti locali o altri special guests secondo la discrezione degli organizzatori. Per il trentennale del
Ravenna Jazz Festival, che già in passato lo aveva visto protagonista di alcune memorabili esibizioni (ben otto in totale, tra queste scegliamo quella del 1986, quando insieme ai prodi Billy Higgins e Charlie Haden, diede una versione dal vivo di "Rejoicing" molto più vibrante rispetto al suo comunque splendido "quasi" commiato dall'Ecm n.d.r), si è esibito ogni sera in un contesto diverso, raschiando (forse) il fondo rispetto a energie che sarebbero state proibitive per molti altri.
Il primo giorno per esempio è arrivato alle 5 della mattina da Antibes, dove aveva stabilito il suo quartiere generale in Europa, guidando personalmente la macchina: alle 10.30 era già pronto per tenere la prima lezione del
seminario a corredo dei concerti, alle 15.00 è passato direttamente dal ridotto del Teatro Alighieri alle tavole del palcoscenico dove ha provato con Massimo Manzi e Paolino Dalla Porta fin quasi alle 19.00. Una doccia e una cena frugale per ritrovarsi dalle 21.00 ancora sulla scena, per un concerto che è durato quasi tre ore. Dal punto di vista pratico-logistico questo andazzo si è ripetuto anche per i restanti due giorni, anzi l'ultima sera il bionico Pat è ripartito alla volta della Francia sempre all'alba e sempre facendo a meno di un autista. Pazzesco. Di certo uno come lui potrebbe tranquillamente tirare i remi in barca e vivere di rendita, invece la sua curiosità e dedizione è uguale a quella degli esordi, come si è potuto appurare nella girandola di situazioni che ha trovato in Romagna per questo "ritratto d'artista" appositamente commissionato.
Prima da solo con la fiammante chitarra baritono capace di nuove suggestioni e allegre scorribande nel repertorio leggero
«Mi piacciono le canzoni di Norah Jones, la conosco da quando usciva insieme a Steve Rodby, quindi perché non suonare "I Don't Know Why"?» e ortodosse riletture dei classici di Broadway, e poi insieme a
Manzi e Dalla Porta, in un set vigoroso e pieno di scintille, la serata inaugurale è filata via con la piena soddisfazione di pubblico e musicisti. E' chiaro che a livelli (alti) come questi in termini di maestria tecnica, l'intesa è un fatto quasi naturale seppur mai scontato, di certo l'esibizione ha preso quota sin dall'inizio: Metheny, nitido e incalzante nel fraseggio, ha trovato nella straordinaria agilità di Manzi e nella sicurezza di Dalla Porta l'appoggio ideale tanto nei disegni più intricati che nelle ballad, di cui rimane sommo maestro. Tra queste ha trovato spazio anche "Lullaby For Ugo", un bel tema dello stesso Dalla Porta, i vertici però sono stati una spigolosa "Questions And Answer" con inafferrabile solo alla chitarra del leader e la roboante resa corale di "All The Things You Are", dove tutto è sembrato ancora una volta perfetto.
La seconda serata si è aperta con il duo inedito completato da Andy Sheppard
che in verità è andato sin troppo alle lunghe (quasi 75 minuti di concerto), per il tenore sfumato di molte delle composizioni scelte, in cui spicca sempre la bellezza adamantina dei temi di "Nuovo Cinema Paradiso" di Andrea ed Ennio Morricone. Calma piatta e corrente alternata insomma che hanno finito con il comprimere anche il bel dialogo successivo con Rita Marcotulli, incontrata ai tempi della milionaria collaborazione con Pino Daniele e riproposta appunto nell'arrangiamento che Rita fece di "Last Train Home".
Misurata
e suadente come poche in fase di accompagnamento, la pianista è stata esemplare
anche nella sottile tessitura armonica di "Two For The Road", capolavoro del mai troppo lodato Henry Mancini oltre che nella proposizione di "Just Feel", una sua stupenda melodia tratta dal recente "Koinè" che Metheny ha imparato alla svelta e con piacere.
Di ben altro tenore l'altra primizia in esclusiva, ovvero l'incontro con
Han Bennink, campione dell'avanguardia mai incrociato in precedenza dall'americano, che ha spiccato subito il volo nella sua esuberanza scevra di qualsiasi incertezza o sfumatura. Picchiando su qualsiasi oggetto o materiale (strumenti, corpo, palco e sedie tra gli altri), il percussionista olandese ha applicato alla lettera uno dei teoremi che Metheny spiegava alla mattina durante i
seminari (forse poveri da un punto di vista didattico da uno che comunque non si è mai affermato da questo punto di vista n.d.r): un postulato secondo il quale
ogni cosa deve essere perfettamente consequenziale e funzionale rispetto a quella appena lasciata alle spalle. Impatto, potenza ed inesauribile tensione emotiva ne sono stati i cardini che hanno spianato il terreno per il gran finale, quando raggiunti sul palco dal contrabbassista Paolo Ghetti e dagli stessi
Sheppard e Marcotulli, i cinque hanno piazzato il colpo da KO con una doppia, magica sequenza che ha omaggiato Ornette Coleman
con "Turnaround" e la sua "The Calling" (anche qui con interventi siderali di Pat).
Un manifesto di libertà totale da considerare come lo zenith assoluto di questa tre giorni, almeno da un punto di vista artistico.
Grande attesa anche per il bis (dopo il summit dell'anno scorso in Sardegna), tra Metheny ed Enrico Rava, uno dei nostri grandi che forse non è stato ancora riconosciuto come tale in maniera unanime, alle prese in questa fase della sua carriera,
con una nuova e fertile vena creativa. Prima in duo
impegnati con una manciata di standards dalla grana sottile (si avrà sempre bisogno di brani come "Insensatèz" e "My Funny Valentine" n.d.r.) e poi con l'ultima versione del quartetto insieme a Stefano Bollani, Roberto Gatto e Rosario Bonaccorso i due sono stati così in sintonia da scambiarsi i ruoli. Anzi più che co-leader Metheny si è invece messo a fare il gregario, visto il repertorio che essendo quasi tutto costituito da composizioni originali e perciò a lui sconosciute, ha avuto bisogno di tutto il suo mestiere per coprire (abilmente) qualche incertezza di troppo. In ogni caso anche questa appendice è stata godibile con menzione di particolare onore per
Bollani, apparso in grandissima forma forse perché misurato nelle sue esuberanze.
In conclusione bilancio lusinghiero non solo al botteghino che ha segnato il tutto esaurito nell'intera serie: per Metheny gli stimoli sono stati diversi, e non è escluso che qualcuno dei musicisti incontrati in giro per l'Europa possa fare presto parte di uno dei suoi prossimi progetti. Anche per i nostri musicisti la serie è stata divertente e onorevole. Peccato per la defezione da parte di alcuni organi di informazione anche importanti: di certo chi ha snobbato (o disertato) questi incontri ha avuto torto.
Invia un commento
© 2000 - 2024 Tutto il materiale pubblicato su Jazzitalia è di esclusiva proprietà dell'autore ed è coperto da Copyright internazionale, pertanto non è consentito alcun utilizzo che non sia preventivamente concordato con chi ne detiene i diritti.
|
Questa pagina è stata visitata 10.859 volte
Data pubblicazione: 29/08/2003
|
|