L'edizione numero quarantaquattro di Umbria Jazz, a Perugia (7-16
luglio), ha offerto all'arena Santa Giuliana, la sera di venerdì 14, uno dei concerti
più belli della sua storia (pure ricca di eventi straordinari) e probabilmente una
delle punte più alte della musica afro-americana (jazz e accademica) contemporanea.
Protagonista il sassofonista tenore e soprano e soprattutto, in questa occasione,
compositore
Wayne Shorter, accompagnato dal suo ultimo consueto quartetto, formato
nel 2001, con Danilo Perez al pianoforte,
John
Patitucci al contrabbasso e
Brian Blade alla batteria, e dall'Orchestra da Camera di Perugia, forte
di più di trenta elementi, diretta da Clark Rundell.
Con il quartetto, Shorter ha suonato nella prima metà
del concerto, affinando ancora di più un'intesa che ha portato i musicisti, per
paradosso, a sembrare di percorrere ognuno strade proprie, disgiunte, distanti.
Le estemporanee soluzioni sintattiche, sempre ingegnose e sofisticate, hanno aperto
orizzonti che a loro volta si sono aperti su altri orizzonti, facendo perdere le
coordinate. Per di più sono orizzonti cupi, non di luce, perché il sassofonista
è ben lungi dal riscattare quella che è da sempre la sua malinconia di fondo, anzi
l'accentua. Shorter continua a portare a conseguenze sempre più estreme le conquiste
del cosiddetto "secondo quintetto" di Miles Davis (quello della seconda metà dei
Sessanta) in cui, oltre che sassofonista, era direttore artistico (in formazione
c'erano anche
Herbie
Hancock, Ron Carter e Tony Williams): stravolge, disunisce, addirittura
frantuma le connessioni, senza una linea di accordi regolari, suddividendo il metro
in tanti spezzoni di diversa lunghezza, sottintendendo e sovrapponendo i ritmi.
I suoi assolo, sempre scuri, mai enfatici, con il peso della vecchiaia hanno perso
ogni guizzo di esuberante fisicità, diradandosi in isolati grumi di dolenza.
Quando al quartetto si è unita l'orchestra perugina, il concerto è proseguito con
la prima rappresentazione mondiale di "Emanon", suite in tre movimenti ("Pegasus",
"Prometheus Unbound" e "The Three Marias"), che presto sarà fatta uscire in disco
dalla Blue Note, registrata con la Orphaeus Chamber Orchestra. La scrittura
corposa, collosa, lavica di Shorter ha proseguito orizzontalmente per linee parallele
e sovrapposte, (caratteristica che accomuna buona parte della musica accademica
americana), mosse in maniera polimetrica e politonale insieme, nelle cui fitte maglie,
alternate ad altri episodi più dilatati e sguscianti, sono andati a incunearsi gli
interventi dei componenti il quartetto, che hanno dialogato con pronta disinvoltura
e perfezione di incastri con l'orchestra. "Emanon", assieme a diverse altre precedenti
opere di respiro "sinfonico" composte da Shorter, lo colloca fra i massimi compositori
afro-americani, affiancando da una parte gli accademici Coleridge-Taylor Perkinson
e George Walker, dall'altra i jazzisti Duke Ellington, Max Roach,
Charles Mingus,
Ornette
Coleman e Henry Threadgill.
Altra faccia della stessa medaglia si può per certi aspetti considerare la riproposta
da parte del maestro Ryan Truesdell e del trombettista
Paolo Fresu
(il 15 e il 16 al Teatro Morlacchi) di alcune pagine tratte dalle storiche opere
di Gil Evans con Miles Davis, nella fattispecie "Sketches Of Spain" e "Quiet Nights"
(questa era una seconda puntata che ha fatto seguito a quella della scorsa edizione
di Umbria Jazz Winter con "Porgy And Bess" e "Miles Ahead"): se Shorter, infatti,
ha presentato nuove e inedite composizioni a largo respiro, Truesdell e Fresu, invece,
hanno proposto la rilettura quasi filologica di grandi composizioni del passato,
considerando il jazz, come è nella musica classica, nella sua intera storia con
un vasto repertorio da salvaguardare. Così l'Umbria Jazz Orchestra diretta da Truesdell
ha ripresentato le pagine evansiane alla lettera, anche nelle virgole e nei punti
esclamativi (ma senza potere conferire quella particolare potente ed elastica forza
espressiva che trasuda dalle registrazioni originali) e il solista Fresu – coadiuvato
da una sezione ritmica d'eccellenza, con Jay Anderson al contrabbasso e
Lewis Nash alla batteria, più il battitore libero Steve Wilson al
sax alto - ha proposto una agile e partecipe rilettura degli originali assolo davisiani
attraverso il suo precipuo stile che dai canoni davisiani, da cui era partito, si
è da tempo ampiamente discostato.
Questa quarantaquattresima edizione di Umbria Jazz sembra avere fatto una inversione
di tendenza rispetto alle ultime: meno rock e pop e più jazz, anzi, quest'anno quasi
tutto jazz; l'unico concerto fuori dagli schemi jazzistici è stato quello del 15
di Brian Wilson, che fu il leader dei Beach Boys, nell'occasione riproposti
in formazione quasi totalmente rinnovata e aumentata di numero, nella riproposizione
dell'album loro più celebre, considerato unanimemente un capolavoro, "Pet Sounds",
uscito nel 1966. Wilson, settantacinquenne, ha la voce che non può più muoversi
nei registri alti con la disinvoltura dei bei tempi (lasciando il compito, di volta
in volta, agli altri musicisti), ma ha mantenuto una fascinosa e arrochita espressività
in quelli medi, e ha dato il meglio di sé (come del resto il gruppo) nella riproposizione
di veri e propri gioielli del rock: "Good Vibrations", "Sloop John B" e "God Only
Knows", mantenendo un'ordinaria amministrazione nei brani del cosiddetto periodo
"surf", più datati: tutto comunque perfettamente riuscito e divertente.
Non potendo parlare di tutti i concerti del festival (quattro o cinque importanti
ogni giorno per dieci giorni consecutivi, divisi fra l'Arena Santa Giuliana, il
Teatro Morlacchi e la Galleria Nazionale dell'Umbria; poi altre decine gratuiti
ai Giardini Carducci e in Piazza IV Novembre), ci si limita a segnalare, fra i numerosi
che hanno avuto come protagonista il pianoforte, il duo delle star cubane Chucho
Valdès e Gonzalo Rubalcaba (13 luglio) e altri cinque pianisti tutti
insieme sul palco a celebrare il centesimo anniversario della nascita di uno dei
geni della musica afro-americana, Thelonious Monk:
Kenny Barron,
Cyrus Chestnut, Benny Green,
Dado Moroni
ed Eric Reed (15 luglio).
Valdès e Rubalcaba hanno suonato in piano solo e in duo, alternando le situazioni,
confermandosi virtuosi eccelsi e ispirati da una fantasia inesauribile: Valdès più
corposo e ridondante, a volte addirittura sontuoso, seguendo strade intuite a suo
tempo da Gottschalk e Saumell; Rubalcaba più spaziato nel proprio seppur fitto agglomerato
di suoni, calibrato in esatte figure geometriche perfettamente incuneate le une
nelle altre. "Trance" è il nome dato all'esibizione, dove i due hanno eseguito brani
propri, oltre che standard celebri, come "Waltz For Debby" di
Bill Evans,
"First Song" di
Charlie
Haden e una spettacolare "Caravan" di Duke Ellington.
"5 By Monk By 5" è invece stato chiamato il concerto dei cinque pianisti
(come un celebre disco dello stesso Monk), che pure hanno suonato in solo e in coppia,
alternandosi alle tastiere nelle più diverse combinazioni. Hanno eseguito alcuni
delle composizioni più note di Monk, da "I Mean You" a "Ask Me Now", da "Straight,
No Chaser" a "Jackie-Ing", evidenziando differenti stili e approcci che hanno fatto
risaltare di volta in volta, come sotto una lente di ingrandimento, differenti particolari
qualità dello stesso Monk.
Il festival è finito all'Arena Santa Giuliana con una reunion riuscitissima (nella
prima parte per la qualità della musica proposta, nella seconda per la festosità
che ha coinvolto il pubblico, trascinandolo al ballo) di due grandi della musica
brasiliana, il pianista e chitarrista Egberto Gismonti e il virtuoso del
bandolim (un tipico mandolino brasiliano) Hamilton De Holanda, e il nostro
Stefano
Bollani (che con la musica brasiliana è di casa, avendo già collaborato
in passato con entrambi): de Holanda e Bollani (in particolare stato di grazia)
si sarebbero poi uniti anche alla festosa musica finale dell'Orquestra Baile do
Almeidinha.
Mentre si spegnevano le luci giù all'Arena, su, ai Giardini Carducci,
ben oltre mezzanotte, suonava ancora l'ultimo dei gruppi in programma, proprio uno
di quelli che si era maggiormente distinto nei concerti gratuiti dei giorni e delle
notte precedenti: gli Huntertones, un sestetto che ha base a New York e produce
una musica che ha come principale punto di riferimento il canone jazzistico, meticciato
però con elementi funk, hip hop e rock, in una combinazione vigorosa e potente,
piena di groove.