Umbria Jazz 2013 40th Anniversary Perugia, 5 - 9 luglio 2013
di Daniela Floris
foto di Daniela Crevena
Quarant'anni di Umbria Jazz: un traguardo importante, quasi da
brivido, per uno dei Festival che nonostante i cambiamenti epocali avvenuti tra
gli anni Settanta ed oggi è rimasta un appuntamento particolarmente atteso. Elogiata
ed anche criticata, di certo meta ambita di tantissimi musicisti, anche dei molti
che non riescono ad accedervi e che invece dovrebbero, vive di un'atmosfera particolare
che abbiamo trovato anche quest'anno: strade piene di gente, il palco su piazza
IV novembre e quello ai giardini Carducci che assicurano musica dalla mattina fino
a notte tarda, artisti di strada, bar stracolmi di astanti, musica ovunque. Sottolineiamo
che questo è stato anche l'anno della rassegna Young Jazz della quale, purtroppo,
non si può dare nota, ma che è stato uno spazio di successo aperto a giovani artisti
emergenti che spesso non riescono ad avere visibilità durante le grandi kermesse.
Venerdì 5 luglio, il primo grande evento
molto atteso è stato il concerto di Diana Krall, all'Arena Santa Giuliana.
Aspettativa del pubblico molto alta. Il palco è retrò, decorato in stile anni Trenta
e la Krall presenta a Perugia il suo cd "Glad Rag Doll": musica mutuata dagli
anni Venti e Trenta. Il suo timbro di voce è inconfondibile e i musicisti della
band sono bravi. C'è lo swing, ci sono suggestioni "country", diversi assoli
di ottimo livello. Un jazz (e non solo, anche ballate, brani di Tom Waits e di Bob
Dylan) di piacevole e facile accesso. Esegue con il pianoforte una piccola citazione
di "God bless the child" di
Keith Jarrett,
ma durante una canzone di Joni Mitchell, dunque il jazz pianistico per eccellenza.
Ne ascoltiamo un blues in tonalità minore svolto diligentemente con tutti i canoni
e, poi, "On the sunny side of the street". Eppure la Krall è parsa fredda,
poco comunicativa, come imperturbabile. Paragonabile ad una pietanza perfettamente
impiattata, ma senza il sapore che prometteva guardandola. Insomma un po' deludente,
dal vivo, anche al pianoforte accompagna se stessa in maniera corretta ma nulla
di più.
Il giorno seguente, al Morlacchi, alle 17:00, quasi come una tradizione, c'è una
Big Band e quest'anno il teatro ha accolto il sassofonista Igor Butman con
la Moscow Orchestra. Suonano come americani questi russi: nessuna traccia
di "contaminazione", amano il jazz tradizionale e fanno jazz tradizionale.
"Dark Eyes" non è "Oci Ciornie", ma "Dark Eyes", e il tema
iniziale è solo una scusa per swingare. Unica traccia vera della provenienza geografica
della band paradossalmente è la citazione di "Soli" di Adriano Celentano,
beniamino in terra sovietica. Gli ingredienti della jazz big band ci sono tutti:
temi a sezioni di fiati, scambi ogni otto battute con la batteria, background delle
trombe con sordina, soli più che corretti, accenti e dinamiche da manuale, ballad
morbide, un repertorio che vede standard come "A Night In Tunisia", brani
di Quincy Jones o John Coltrane. Butman al sax è notevole, i suoi soli sono energici e
virtuosistici. E la Band ha una marcia in più: la brava, e bella, cantante di origine
australiana Festine, che entra proprio su "A Night In Tunisia" e da
quel momento (a parte durante la medley dedicata a Count Basie) non lascia più il
palco. Bello il timbro della sua voce, swing e anche soli divertenti. Non manca
anche un duetto con il cantante Alan Harris, guest di un concerto piacevolissimo:
sì, magari qualche imprecisione la si è colta, però la musica c'era, il jazz c'era
e si è assistito ad uno spettacolo allegro e divertente. Un jazz da manuale con
qualche tocco di originalità, come il dialogo tra batteria (solo sui tom e la cassa,
in stile afro) e fiati. Una consistente claque in platea ma, a parte questo,
pubblico entusiasta. Molti applausi per la trombonista Alevtina Polyakova,
che si è espressa in qualche solo divertente.
All'Arena Santa Giuliana alle 21.30 c'è il concerto del sassofonista
Jan Garbarek
con il percussionista e batterista indiano Trilok Gurtu. Garbarek crea essenzialmente atmosfere: a volte
rarefatte dal punto di vista ritmico ed armonico, a volte intensamente oniriche,
a volte crea melodie di una semplicità talmente estrema da essere disarmante. Il
jazz è difficile da definire, Garbarek ne disegna uno molto europeo, ma attingendo
ad infinite suggestioni e trasformando la sua musica in "cittadina del mondo".
Temi melodici semplici armonizzati in maniera altrettanto semplice. Ma al momento
dello sviluppo, dell'improvvisazione, la semplicità diventa ricerca del suono, e
il tutto si trasforma in suggestive ondate sonore. Spesso ogni episodio ha una struttura
circolare, quasi ipnotica. Spesso le percussioni invece di definire destrutturano.
La tastiera di Rainer Bruninghouse si lancia in distorsioni, a volte le note
lunghe e l'andamento di un brano essenzialmente armonico si tramutano in ritmi definiti,
ricordando un bolero o un tango, per poi stemperarsi ancora.
Trilok Gurtu trasforma il
suo solo in un concerto nel concerto, improvvisando su charleston, cassa, percussioni,
cantando, e simulando le stesse percussioni con la voce: fantasia inarrestabile,
suoni evocativi ottenuti con i suoi strumenti, e con l'acqua e, infine, duettando
in scambi con Garbarek stavolta al flauto. Il pubblico infine viene invitato a battere
le mani e invece il bis si scioglie in una ballad super romantica, Gurtu si trasforma
in batterista jazz tradizionale, quello del colpo di rullante sul tempo debole,
per intenderci, e la progressione armonica è una semplice e continua I, III, IV,
V.
Domenica 7 luglio, lo stage del Morlacchi alle 17 è affidato ad un duo rodatissimo,
quello del trombettista
Paolo Fresu
insieme al pianista cubano
Omar
Sosa. Brani tratti da "Alma", cd di grande successo (il brano
che dà il titolo al cd è stato premiato come il migliore dell'anno dalla critica
indipendente americana). Il Morlacchi è sold out, sul palco si sprigiona il profumo
di incenso acceso da
Omar
Sosa, e la musica comincia senza quasi mai smettere. E' una musica fatta
di dialoghi continui, di sfondi elettronici che cambiano, della tromba di Fresu
con sordina e del suo flicorno che si intrecciano in continui affreschi con il pianoforte
di Sosa. I due viaggiano liberi eppure cadono a pennello in molti punti predeterminati
che dimostrano che a reggere tutte quelle digressioni ci sia una solida impalcatura,
strutturale o armonica: quando ad esempio ciclicamente si appoggiano su una tonica
minore, o confluiscono in giri armonici più noti e dunque rassicuranti; o quando
dopo digressioni libere improvvisamente riagganciano il tema iniziale che sembrava
perduto o, magari, quando all'improvviso fanno trapelare l'atmosfera cubana che
ridesta il pubblico un po' ipnotizzato dalle sonorità evocative di un concerto che
procede quasi senza soluzione di continuità. Il fronteggiarsi continuo per una ricerca
reciproca del suono, non è mai una sfida ma una continua reciproca ricerca. A volte
prevale un'atmosfera malinconica e struggente, a volte Fresu diventa lacerante,
gli episodi connotati più ritmicamente provocano gli applausi convinti del pubblico
che fino ad un attimo prima si era cullato in quegli impasti sonori avviluppanti.
Alcuni episodi sono di rara bellezza, altri forse un po' troppo estesi, tanto da
provocare assuefazione, senza spazio né tempo. Le note lunghe tenute con la respirazione
circolare da Fresu si confondono con quelle eternate dallo stesso Fresu attraverso
l'elettronica. Sulla progressione armonica di "Guantanamera" il pubblico
viene coinvolto e si accende con entusiasmo sincero. Il primo bis è uno struggente
omaggio a Lucio Dalla con "Dallamericaruso", il secondo fa ballare il pubblico
riportandolo a Cuba. Fresu e Sosa, piaccia o no questo progetto, hanno il grande
dono della subitanea e continua sintonia con il pubblico, pur non pronunciando una
sola parola durante il concerto. Instaurano un vero e proprio rapporto emotivo,
positivo con chi li ascolta.
Se Fresu e Sosa colpiscono dunque per la loro comunicativa, di certo questo non
avviene (oramai da anni) con
Keith
Jarrett. Poche considerazioni: è accaduto ciò che era assolutamente
prevedibile. Ovvero,
Keith Jarrett
ha interpretato la parte (trita e ritrita) di
Keith Jarrett:
oramai è una specie di "impiegato" della provocazione, che è sempre la stessa.
Ha visto qualche telefonino alzato, esclamato "see you later" e se ne è andato.
Poi è rientrato, concedendosi per tutto il primo set di spalle e al buio. Ha suonato
come Keith
Jarrett, cioè bene, come siamo abituati a sentirlo suonare nei suoi dischi
(magari a casa, senza zanzare fastidiose e quel freddino umido di questi giorni
all'Arena, magari in poltrona e non su scomode sedie di plastica). Al buio non lo
si vede, suona come nei cd, si rimpiange il divano. E' stato scontato anche il comportamento
del pubblico che, sapendo benissimo che la recita del grande artista sarebbe avvenuta
solo in presenza di telefonini, ha prontamente mostrato i telefonini, dandone l'inequivocabile
input. Una sinergia perfetta. D'altronde
Keith Jarrett,
qui in Italia almeno, probabilmente molti lo vanno a vedere (e ribadisco vedere)
proprio incuriositi dai suoi "capricci". E' un meccanismo "televisivo". Forse
è per questo che ad Umbria Jazz hanno ritenuto di reinvitarlo, nonostante l'anatema
nei suoi confronti pronunciato (giustamente!) dagli organizzatori nel
2007. Sono biglietti che si venderanno sicuramente.
Ma quando Jarrett pronuncia la frasetta di rito "see you later" (mentre il
pubblico si sta godendo placidamente lo spettacolo per il quale ha sborsato cifre
non indifferenti e che per quanto lo riguarda, come da copione, è già cominciato)
il patron Pagnotta trema ed appare sul palco. Ed è questa la parte meno scontata
(in quanto quasi surreale) della serata all'Arena: proprio il monologo in cui lo
stesso Pagnotta esorta i presenti a comportarsi bene "perché l'artista è quello
che è", a fare i bravi dedicandogli "una standing ovation" "così poi
farà un bel bis lungo più del secondo set" (che invece non c'è stato, per quanto
se ne sappia), eccetera, eccetera, eccetera: nel settore della stampa i più rimangono
basiti, ma non solo nel settore della stampa. Eppure nonostante ci sia in questo
un che di penoso, la gente si alza e fa la standing ovation. Il concerto comincia,
per sapere cosa accada tornate su alle righe dedicate a
Keith Jarrett,
mettendovi in sottofondo un suo cd. Aggiungiamo che comincia con "On Green Dolphin
Street" e inanella una serie di standards, il secondo set comincia con "Bye
Bye Blackbird", e così via. Jarrett ancora una volta fa parlare di se: male.
Un genio della comunicazione? Mah, la parola ai sociologi, che noia.
Al Teatro Morlacchi è atteso il concerto di mezzanotte del cantante napoletano
Eduardo De Crescenzo, tornato alla ribalta sull'onda della rivisitazione
in chiave jazzistica del suo songbook. Ad accompagnarlo in questa avventura musicisti
che jazzisti lo sono sul serio:
Enzo
Pietropaoli al contrabbasso, Marcello Di Leonardo alla batteria,
Stefano Sabatini al pianoforte (curatore anche degli arrangiamenti), Lamberto
Curtoni al violoncello e Daniele Scannapieco ai sax. Concerto gradevole,
voce ovviamente inconfondibile, arrangiamenti volutamente tarati su un jazz forse
appena troppo morbido per i fuoriclasse che sono sul palco, ma evidentemente adatto
a canzoni che il pubblico conosce bene e che non si vogliono stravolgere più di
tanto.
Il lunedì seguente, sempre sul palco del Morlacchi, preceduto dalla consegna del
premio "Ambasciatori dell'Umbria nel mondo" a
Danilo
Rea, va in scena un concerto dedicato ad Armando Trovajoli, scomparso
il 28 febbraio di quest'anno. Due maestri del pianoforte reinterpretano affettuosamente
le sue le canzoni più belle: "Tu che mi hai imparato a fa'", "Dimmi un
po' Sinatra", "Profumo di donna" (particolarmente struggente), "Roma
nun fa la stupida stasera". Entrambi,
Renato
Sellani e
Danilo
Rea, lo hanno conosciuto; entrambi (nonostante una generazione li separi)
vi hanno lavorato e dunque l'omaggio fila via molto sentito e commosso.
Il soul ed il pop sono di casa oramai ad Umbria Jazz ed attirano tanta gente. Niente
sedie infatti, nell'ampio spazio davanti al palco dell'Arena Santa Giuliana, per
permettere al pubblico di ballare, ed in effetti si balla perché John Legend
ha un'ottima band, una bellissima voce, inconfondibile, un repertorio che soddisfa
gli amanti del genere. Legend è senza dubbio un professionista, come tutta la sua
band, ed è un piacere stare ad ascoltarlo ma non cercatevi il Jazz, a che servirebbe?
Siamo qui ad ascoltare il soul e Legend il soul lo fa bene.
Dal soul si passa al Jazz italiano per il concerto di mezzanotte al Morlacchi che
vede sul palco "Consonanti", il quartetto di Giovanni Tommaso: tre
generazioni di Jazzisti italiani riunite insieme, con lo stesso Tommaso al contrabbasso,
Danilo
Rea al pianoforte, Mattia Cigalini al sax e Francesco Sotgiu
alla batteria. E'uno dei concerti che possiamo definire veramente "jazzistico" fino
ad ora, e poiché la kermesse si chiama Umbria Jazz fa molto piacere imbattervi.
Musicisti tutti dalla personalità molto spiccata ma con un interplay notevole che
permette loro di creare momenti interessanti. Poi ognuno, comunque, si fa notare,
perché non serve sbracciare per esprimere la propria poetica: dunque Cigalini dà
sfoggio sia delle sue capacità virtuosistiche che (nei brani più lenti) delle sue
capacità espressive, che emergono nella bellezza dei pianissimo o della dolcezza
di alcune frasi. Così come il pianismo di Rea ha modo di mostrare i suoi lati energici
che quel lirismo che appare spesso ad opera della mano destra e disegna melodie
inaspettate. Tommaso ha una vena compositiva molto ricca (i brani sono tratti quasi
tutti dal suo lavoro) ed il suo contrabbasso canta anche nei momenti più ritmici,
mostrando tutta la sua versatilità proprio nei brani più insoliti, come "Euforia",
quasi una mini suite in cui la fantasia di questo musicista si scatena rimanendo
sempre e comunque elegante. Il finale vede sul palco come guest Daniele Scannapieco,
e il duetto tra sax è connotato da una grande forza improvvisativa.
Il concerto più poetico visto in questi cinque giorni è quello di scena al Morlacchi,
martedì 9 luglio, alle 17, e cioè quello del Duo formato da Gabriele Mirabassi
al clarinetto ed dal colombiano Edmar Castaneda all'arpa. Due virtuosi dei
loro strumenti che però fanno tutt'altro che gare di virtuosismo. Si avvalgono del
loro tesoro artistico, fatto di anni di studio profondo per creare musica, il che
non è poi così scontato. Cominciano il concerto con suoni quasi acquatici, un'introduzione
suggestiva e sospesa, e poi entrano nel vivo della loro bellissima esibizione perugina.
Già nel primo brano si capisce che l'arpa di Castaneda è eterea ma se la si ascolta
bene è anche strutturante: tra le mille note ce ne è una fissa che ritorna ritmicamente
e che delinea i controtempi. Mirabassi, che ama la musica brasiliana quanto quella
europea dimentica gli aspetti stilistici di quest' ultima per entrare in sintonia
con il sistema (anch'esso perfetto) della musica tradizionale, interpretandolo,
ridisegnandolo. Il loro suonare è pieno di sottigliezze che gli esperti più attenti
possono cogliere a piene mani, ma hanno anche un altro benefico livello di impatto,
più emotivo, che può cogliere anche un pubblico meno competente: il che è musica.
Sono bellissimi gli arabeschi di note che si intrecciano tra arpa e clarinetto,
così come sono bellissimi i loro unisono. "Sappiamo che siete provati in questi
giorni, per questo vi diciamo che qui potete fotografare e persino respirare"
dice Mirabassi, riferendosi a
Keith Jarrett,
e l'applauso è quasi liberatorio. Castaneda in solo suona il suo fervore religioso,
in maniera ispirata ma anche sanguigna, la corda dell'arpa che suona i fondamentali
dell'accordo è una vera e propria linea di basso che descrive armonicamente i milioni
di arpeggi e di accordi che si librano nell'aria. Poi prende le maracas, il primo
strumento da lui studiato, spiega, e fa uno strepitoso solo con le stesse. Giocano,
si divertono e possono farlo, Mirabassi e Castaneda, perché amano e conoscono benissimo
il loro strumenti. Una toccante versione di "Alfonsina y el mar" incanta
il pubblico con dinamiche suggestive e un lirismo commovente. E poi "Colibrì",
con il solo di Mirabassi e l'arpa di Castaneda usata come percussione. Ci sono soli
di arpa in cui Castaneda sembra sdoppiarsi in un duo arpa – contrabbasso. Soli di
Mirabassi che sono veri e propri racconti in musica. Si vive per un'ora abbondante
in una dimensione sonora quasi fantastica eppure così terrestre. Per il bis un "Libertango"
per nulla ammiccante, giocato sui pianissimo chiude un concerto di classe.
Ancora tre concerti: all'Arena Santa Giuliana Pino Daniele,
poi Mario
Biondi, e infine il concerto di mezzanotte al Morlacchi con il trio
di Roberto
Gatto. L'Arena è stracolma, anche questi sono concerti molto attesi,
e quando Pino Daniele appare sul palco ci si rende conto quanto sia amato. C'è il
blues e c'è la carica, con
Tullio
De Piscopo,
Elisabetta
Serio che fa un bel lavoro alle tastiere, e lui che canta un po' di
novità ma anche i suoi brani storici. Sul finale arriva
Mario Biondi
e cantano insieme "Je so pazzo".
Il tempo di un cambio palco e comincia lo spettacolo di
Mario Biondi.
Voce potente e gentile come sempre, dal timbro caldo e personalissimo, e il concerto
è un susseguirsi di brani soul, soul pop.
Mario Biondi
canta brani soul e pop, ma non bisogna dimenticare che ha una band di ottimi jazzisti
con se' e questo fa spesso la differenza. I musicisti di Biondi (Claudio
Filippini al pianoforte, Daniele Scannapieco al sax, Tommaso
Scannapieco al basso, Lorenzo Tucci alla batteria, Ciro Caravano alle tastiere, Marco Fadda
alle percussioni Michele Bianchi alla chitarra, Gianfranco Campagnoli,
alla tromba, Roberto Schiano al trombone) trasformerebbero qualsiasi elementare
filastrocca in un miracolo swingante. Uno spettacolo di musica soul elegante, ben
suonato, curato nei particolari e divertente.
Al Morlacchi c'è il progetto "Perfect Trio" di
Roberto
Gatto, batteria, percussioni ed elettronica, che sale sul palco con
Alfonso Santimone al pianoforte e live electronics e
Pierpaolo
Ranieri al basso elettrico. Entriamo in un mondo sonoro essenzialmente
elettronico, ma ciò che colpisce da subito è l' atmosfera, che non è (come a volte
accade) "ostica" e disseminata di durezze che ne delineino e ne certifichino l'originalità.
E' molto suggestiva ed è bello il contrasto tra la batteria, strumento acustico
per eccellenza, con i suoni cercati da Santimone e Ranieri. E con "suggestiva" non
si intenda solo "sognante" o "fiabesca" perché con questo trio si sfiorano anche
momenti quasi angoscianti, quando si indugia su una cellula armonico ritmica reiterata
e martellante, oppure ipnotici, quando il pianoforte si tiene strategicamente fermo
su un pianissimo uniforme che sembra sempre stia per risolvere su un cambio di volume
che non arriva mai; oppure c'è tensione quando la batteria di Gatto si ferma solo
sul rullante, il basso si ostina su una quinta discendente e il pianoforte crea
idee su questa base fissa. Oppure può accadere che il leitmotiv diventino i forti
colpi sulla cassa che sottendono ad un'elettronica densa di rumori. O ancora che
la batteria quasi marziale, militaresca crei un clima quasi di ineluttabilità, che
si scioglie infine in un blues: si perché in questo concerto comunque il jazz, lo
swing, il blues traspaiono, eccome: il basso elettrico si tramuta in un walkin'
bass, la batteria comincia tradizionalmente a battere i quarti sul rullante e i
tempi deboli sul charleston, e si va avanti così per un po', prima di ritornare
all'episodio iniziale Molti gli applausi e, nonostante l'ora tardissima, i musicisti
ritornano sul palco per il bis, richiesto a gran voce.