Bergamo Jazz 40a Edizione 18 marzo-28 marzo 2018 di Aldo Gianolio foto di Gianfranco Rota
click sulle foto per ingrandire
Giunto alla quarantesima edizione consecutiva, dopo tanti anni
di continua presenza il Festival jazz di Bergamo è diventato un tutt'uno con la
città, che risponde sempre con pubblico numeroso e affettuoso. Quest'anno, inagibile
il Teatro Donizetti per restauro e manutenzione, ha trasferito gli appuntamenti
principali serali nella periferia cittadina, al Teatro Creberg, dall'acustica inaspettatamente
più che buona, distribuendone molti altri in vari locali e luoghi, alcuni incantevoli,
come l'Oratorio San Lupo e l'Accademia Carrara.
Numerosi gli appuntamenti in programma dal 18 al 25 marzo
(con un'appendice il 28 con il pianista Stefano Battaglia). Il direttore
artistico Dave Douglas, confermato anche per l'anno prossimo, ha puntato
sulla varietà dei generi (ma questa volta con poca avanguardia), mantenendo il consueto
spazio alla lodevole iniziativa "Scintille di Jazz" dedicata a giovani musicisti
emergenti scelti da Tino Tracanna (anche lui, come Douglas e come i tre direttori
artistici precedenti,
Uri Caine,
Paolo Fresu
ed Enrico Rava,
esimio jazzista). Ci sono stati anche altri diversi appuntamenti culturali, da menzionare
perlomeno la bella mostra fotografica "Bergamo Jazz Festival
1969-2017"
all'ex Chiesa della Maddalena, curata da Luciano Rossetti e Roberto Valentino.
Dei molti concerti in cartellone (su
youtube si può
consultare per intero), abbiamo ascoltato quelli dal 23 (sera) al 25 marzo.
Il 23 al Teatro Creberg si è esibito l'alto sassofonista funky e soul Maceo Parker
con un gruppo professionalmente ineccepibile dal potente groove composto dal trombonista
londinese Dennis Rollins, ex jazz Warriors, il tastierista Will Boulware,
il batterista Nikki Glaspie e il bassista elettrico, maestro della tecnica
dello "slap", Rodney 'skeet' Curtis, ex Funkadelic. Su una base fortemente
ritmata ed energica (che infatti verso la fine del concerto ha indotto numerosi
spettatori ad alzarsi dalle poltrone, avvicinarsi al palco e ballare) non sono mancati
interventi solistici tipicamente "jazz", come quelli scarni e affilati dello stesso
Parker (che ha anche cantato, come in "Moonlight In Vermont", dedicata a Ray Charles),
o quelli efficacemente rudi di Rollins, che ha ricordato il modo di suonare "alla
vecchia" (Higginbotham): una prelibatezza è stata la versione di "When I Fall In
Love" in duo con Rollins e Boulware (quest'ultimo sempre bravo e raffinato nell'arte
dell'accompagnamento). Oltre a Ray Charles, gironzolavano nell'aria gli spiriti
di James Brown
(con cui Maceo Parker ha collaborato a lungo), Marvin Gaye e Ben E. King. Solo verso
la fine si è fatta sentire come cantante solista (fino a quel momento relegata a
funzioni di corista) Darliene Parker, in una interpretazione di "Stand By Me" un
po' troppo sopra le righe.
La sera dopo, al Creberg, è stato dato spazio al jazz latino con due performance:
prima il duo cubano dei pianisti Chuco Valdes e Gonzalo Rubalcaba;
poi il trio del pianista spagnolo Chano Dominguez.
Con il duo c'è stata l'esaltazione del virtuosismo e della tecnica, in una specie
di duello ravvicinato senza esclusione di colpi, dove Valdez, recuperando maggiormente
sottigliezze e variazioni ritmiche che ne hanno stemperato l'eccesso di destrezza,
ha dato l'apparenza di essere meno meccanico rispetto a Rubalcaba. I due sommi musicisti
hanno privilegiato il virtuosismo concertistico di stampo accademico, che pure fa
parte della tradizione cubana (basti pensare a Louis Moreau Gottschalk), invece
che la propria tipica musica popolare, che è quella più "vicina" al jazz, avendolo
anche direttamente influenzato. Il loro caleidoscopico procedere si è intrecciato
perfettamente l'uno nell'altro, come ingranaggio di un orologio, ma raggiungendo
l'effetto paradossale di appannare in quel turbinio di note l'inarrestabile inventiva,
invece che esaltarla. Il loro alto magistero ha comunque sempre strabiliato per
tecnica e forza espressiva.
Più "moderato" è apparso, nel diretto confronto, Chano Dominguez, che in trio col
contrabbassista Horacio Fumero e il batterista David Xirgu ha proposto
un jazz classico profondamente innervato da certi stilemi e soprattutto dalla passione
del flamenco. I vari "Freddie Freeloader", "The Serpent's Tooth", "Evidence" e "Gracias
a la vida" (di Violeta Parra) sono stati eseguiti con tocco agile e pulito, con
senso del tempo impeccabile, uso pregevole delle pause, tendenza all'infioritura
barocca e grande capacità nel costruire tensione con la variazione delle dinamiche.
Nella serata finale del 25, sempre al Creberg, si sono celebrati, assieme ai quarant'anni
del festival, gli ultimi quattro direttori artistici, tutti jazzisti di chiara fama,
che dal 2006 si sono avvicendati nella organizzazione della manifestazione:
Uri Caine,
Paolo Fresu,
Enrico Rava,
oltre lo stesso Douglas. I quattro si sono presentati sul palco assieme a una fortissima
ritmica formata da Linda May Han Oh al contrabbasso e Clarence Penn
alla batteria, dando spazio nel corso del concerto anche a tre ospiti illustri:
i sassofonisti Greg Ward e
Tino Tracanna
e il trombettista Jeremy Pelt. Sono state presentate composizioni quasi tutte
di Douglas (una sola di Fresu, "Un tema per Roma", e una di Rava, "Tribe", oltre
a "Pickin' The Cabbage" di Dizzy Gillespie); Douglas ha anche dato un minimo di
organizzazione musicale senza però impedire che il concerto risultasse in definitiva
una jam session, alcuni brani vedendo la partecipazione di tutti i solisti, altri
solo di uno. L'atmosfera era buona, c'era la carica giusta e il concerto è stato
piacevole, con buoni spunti solistici di tutti (di cui si sono evidenziate le rilevanti
differenze stilistiche).
Di grande fascino sono stati due precedenti concerti mattutini.
Il primo, il 24 marzo, ha portato alla Accademia Carrara il duo formato da Louis
Sclavis al clarinetto e clarinetto basso e Vincent Courtois al violoncello,
che suonano insieme (non solo in duo, ma nelle più diverse formazioni) da molto
tempo, così raggiungendo un'intesa perfetta. A questa, uniscono una tecnica strumentale
superiore che consente loro di giocare con le dinamiche e con le minime inflessioni
di suono, facendo risaltare la bellezza delle sonorità degli strumenti ed esaltando
i brani presentati, quasi tutti di loro composizione, che mescolano istanze colte
e popolari, quest'ultime spesso di derivazione orientale contribuendo a configurare
certi passaggi in maniera flessuosa e tormentata. I due lasciano ampio spazio alle
improvvisazioni, combinandole, senza soluzione di continuità, a parti composte,
a volte sovrapponendole, facendo risultare suggestivi contrappunti o unisoni perentori
(con lo spirito di Eric Dolphy che fa capolino quando Sclavis imbocca il clarone).
L'Oratorio di San Lupo ha invece ospitato, il 25, il duo americano Brockowitz,
attivo da un quinquennio e formato dal pianista Phil Markowitz e dal violinista
chicagoano Zach Brock che hanno eseguito, a differenza del duo precedente,
musica da camera molto scritta e poco improvvisata, tendenzialmente di stampo impressionista
da parte del pianista e "alla Jean Luc Ponty", ma con meno verve jazzistica, da
parte del violinista, attraverso alcune composizioni proprie e alcuni standard arrangiati,
come "Stella By Starlight", l'ellingtoniano "Come Sunday" e il bill-evansiano
"Sno' Peas".
In tutt'altro clima (quello tipico dei jazz club), nel locale Indisparte è stata
presentata musica eccellente per la sezione "Scintille di jazz".
La notte del 23 marzo il gruppo Octo, un ottetto diretto dal sassofonista
soprano Roger Rota comprendente gli eccellenti Eloisa Manera (violino),
Andrea Baronchelli (trombone), Francesco Chiapperini (sax alto, clarinetto,
clarinetto basso), Andrea Ferrari (sax baritono e clarinetto basso), Alberto
Zanini (chitarra), Roberto Frassini Moneta (contrabbasso) e Filippo
Sala (batteria), ha eseguito musica di grande impatto sonoro piena di idee e
insolite movimentazioni di blocchi sonori, con soventi cambi di sonorità, di amalgami,
di tempi e ritmi e ottime improvvisazioni.
Nel medesimo luogo, nel tardo pomeriggio del 24 marzo, ha fatto una splendida figura
anche il quartetto Aparticle composto dal tastierista Giulio Stermieri,
il chitarrista Michele Bonifati (autori di tutti i brani), il batterista
Ermanno Baron e l'alto sassofonista Cristiano Arcelli con una musica
modernissima e personale, in cui hanno perfettamente metabolizzato suoni e idee
che girano nell'aria della contemporaneità, facendole proprie e adeguandole ai propri
stili, con belle architetture giocate sulle contrapposizioni di parti aeree e fluttuanti
e altre più terrigne e solide e con Arcelli che dal punto di vista eminentemente
solistico/sassofonistico si è dimostrato fra i più valenti delle nuove leve italiane.
La Sala alla Porta S. Agostino, sede del Jazz Club di Bergamo, ha ospitato nel primo
pomeriggio del 25 marzo il quintetto del trombettista Jeremy Pelt, che ha
eseguito uno scintillante hard bop "avanzato" (con dentro non solo Art Blakey, ma
anche il Miles Davis del secondo quintetto) con una tecnica trombettistica che prende
il testimone che da Clifford Brown è arrivato sino a Freddie Hubbard (ma senza portarlo
molto più avanti), supportato da un gruppo pulsante e propositivo composto da
Victor Gould al piano, Richie Goods al contrabbasso (che ha sostituito
all'ultimo Vicente Archer), Jonathan Barber alla batteria e Jacqueline
Acevedo alle percussioni: il trombettista si è superato per forza espressiva
e fantasia melodica sul tema scritto da Michel Legrand "I Will Wait For You".
Hard bop "avanzato" di ottima fattura anche quello all'Auditorium di Piazza della
Libertà il 24 marzo del quartetto di Linda May Han Oh, che suona sia il contrabbasso
che il basso elettrico, con Greg Ward al sax alto, Matthew Stevens
alla chitarra e Arthur Hnatek alla batteria. La Oh ha fatto valere non solo
le sue capacità di strumentista ma anche di compositrice, con brani ottimamente
strutturati che fanno muovere sassofono e chitarra in figurazioni fluidamente circolari
mescolando con efficacia timbri e linee melodiche, mettendo in bella evidenza la
veemente spigolosa bravura di Ward.
Ospite il 25 marzo del Teatro Sociale in città alta, la cantante catalana Silvia
Pérez Cruz, nell'unico evento extra jazzistico del festival, ha incantato e
emozionato con una performance eccelsa basata su un canto intonatissimo pieno di
calore e di passione che può parimente indirizzarsi verso una soave leggerezza come
verso la più struggente drammaticità. Il repertorio era costituito da canzoni spagnole,
portoghesi e latino-americane ("Tonada de luna llena" del venezuelano Simón
Díaz, "Estranha forma de vida," di Amália Rodrigues), arrangiate in modo
sofisticato da Joan Antoni Pich, violoncellista che fa parte del quintetto
d'archi che ha accompagnato la cantante: oltre a lui, Elena Rey e Carlos
Montfort ai violini, Anna Aldomá alla viola e Miguel Ángel Cordero
al contrabbasso.