Multiculturita Summer Jazz Festival XI Edizione
Capurso (BA), 10 - 13 luglio 2013 di Nina Molica Franco - Marco Losavio
foto di Carmine Picardi
La Puglia terra di sole, di mare, di vento, di prelibatezze culinarie
disseminate in ogni dove: dal promontorio del Gargano fino al tacco d'Italia… e
potremmo dire anche di musica. Una regione ricca di storia e di tradizione, che
da sempre sostiene l'arte e i suoi talenti e il Multiculturita Summer Jazz festival
non è che la prova.
Tre ore all'insegna della buona musica, tra jazz, improvvisazione, ricerca sonora
e tango per la prima serata del Multiculturita Summer Jazz Festival, con la direzione
artistica di Michele Laricchia.
A contendersi il palco e l'attenzione del pubblico Antonino Siringo Trio
e Alessandro Campobasso Quartet, finalisti della seconda edizione dello Europe
Contest coordinato da Alceste Ayroldi. Mezz'ora a testa per ciascuna formazione
per una lotta all'ultima nota, durante la quale le band hanno mostrato il loro talento
e l'alta qualità del contest.
I primi ad esibirsi gli Antonino Siringo
Trio, tre musicisti molto eclettici e originali che hanno messo in scena proprie
composizioni per un pubblico che non si è risparmiato in applausi. Musiche dagli
arrangiamenti particolari in cui la tensione sempre incalzante è perfettamente resa
dagli ostinati, trame su cui viene costruito tutto l'assetto sonoro dei brani. Antonino
Siringo al pianoforte, Filippo Pedol al contrabbasso e Gennaro Scarpato
alla batteria, hanno fatto della ricerca sonora e soprattutto ritmica la loro vocazione,
evidente nei duetti ritmici tra percussioni e contrabbasso, in cui quest'ultimo
cessa di essere un contrabbasso per diventare uno strumento percussivo. Straordinaria
la performance al piano di Antonino Siringo, musicista agile ed espressivo che ha
reso, insieme a Pedol e Scarpato, un suono sempre ricco e denso di tensione.
A seguire, Alessandro Campobasso Quartet: Alessandro Campobasso
alla batteria, Fabrizio Savino alla chitarra, Nicola Pannarale al
pianoforte e Michele Maggi al contrabbasso. Un jazz molto diverso da quello
dei colleghi in gara, un jazz che prende come modelli Miles Davis e Thelonious Monk,
e che su quella scia tenta di creare suggestioni e emozioni raffinate. Degne di
nota le composizioni originali di Alessandro Campobasso e del più maturo Fabrizio
Savino, chitarrista stimato e apprezzato. Ed è questa linea classica ma allo stesso
tempo fresca e nuova che fa dell'Alessandro Campobasso Quartet il vincitore ideale
dello Europe Contest. Difficile scegliere tra due gruppi così diversi ma entrambi
di qualità e dalla personalità artistica già parecchio definita.
L'onere è toccato ad una giuria d'eccezione presieduta da
Filippo Bianchi – presidente onorario dell'Europe Jazz Network – e composta
da: Emanuele Dimundo (direttore artistico Beat Onto Jazz),
Gianna Montecalvo
(musicista e docente), Fabrizio Versienti (giornalista e critico musicale),
Antonio Delvecchio (produttore e editore della Fo(u)r Edition), Giuseppe
Venezia e Attilio Troiano (direttori artistici del Basilijazz), Marco
Losavio (publisher Jazzitalia), Michele Laricchia (direttore artistico
del Multiculturita) e Alceste Ayroldi, coordinatore artistico del contest.
E se al quartetto di Alessandro Campobasso è spettato il primo premio, il trio di
Antonino Siringo, secondo classificato al contest, si è aggiudicato la partecipazione
al BasiliJazz, rassegna partner del Multiculturita Europe Jazz Contest.
E tra le attese e le speranze dei due gruppi in concorso, il
palco e la piazza di Capurso si riempie delle note calde e coinvolgenti del
Nuevo Tango
Ensamble:
Gianni
Iorio al bandoneon,
Pasquale
Stafano al pianoforte,
Pierluigi
Balducci al basso e Pierluigi Villani
alla batteria. Laddove jazz, nuevo tango, tradizione melodica italiana e musicisti
di grande spessore artistico si incontrano, ecco che viene fuori un quartetto dall'anima
popolare ma raffinata che ha letteralmente incantato la piazza di Capurso. Pubblico
estasiato e coinvolto dalle note del
Nuevo Tango
Ensamble, note che appartengono all'ultimo lavoro discografico, D'Impulso,
e che con le sonorità un po' jazz e un po' folk, sono state un fiore all'occhiello
per la prima serata del Multiculturita.
Un doppio, o meglio triplo, concerto ha aperto questa nuova edizione del Multiculturita,
edizione che ancora una volta premia i talenti e si pone come baluardo del buon
jazz made in Italy o per meglio dire Made in Puglia.
È ancora il Made in Puglia a fare da sfondo alla seconda serata del Multiculturita
Summer Jazz Festival. Sul palco dei Giardini Comunali di Capurso i Fabularasa
accompagnati da un ospite d'eccezione: il clarinettista Gabriele Mirabassi.
È tra il cantautorato italiano più colto, anima melodica e tracce di jazz che si
muove il progetto dei Fabularasa. Un progetto nel quale le musiche tipicamente cantautoriali
assumono una volto inedito, intrecciandosi con le trame di un jazz semplice, fresco
e delicato. Luca Basso con la sua voce è un po' un cantastorie del nostro
tempo, racconta le emozioni e le storie della gente comune, quella in cui il pubblico
riesce facilmente a riconoscersi, mischiando presente e passato, tradizioni e speranze.
E in questo suo percorso cattura il mondo e lo tramuta in parole e note, grazie
all'aiuto di straordinari musicisti quali: Vito Ottolino alla chitarra,
Leopoldo
Sebastiani al basso e Giuseppe Berlen alla batteria. In questo
vortice di suoni e canti si inserisce il clarinetto di Gabriele Mirabassi, dapprima
in punta di piedi per dare, nell'attimo successivo, piena voce al suo strumento
che diventa voce delicata ma sicura. Un programma ricco quello che i Fabularasa
e Gabriele Mirabassi hanno eseguito sul palco del Multiculturita: brani tratti dall'ultimo
lavoro discografico della band, D'amore e di marea, e altri presenti nel
precedente En plein air.
Da Leggero che riprende il cantautorato italiano più colto, ma in cui si
avvertono chiari i sapori del jazz, a Il Regalo, storia di un sindacalista
degli anni Venti a cui il "principale" regala un cesto natalizio; un sindacalista
celebre per la storia dell'Italia: Giuseppe Di Vittorio. E ancora dalla Serenata
della Controra di un amante imbranato, fino ad una rilettura di un brano della
Cavalleria Rusticana. Queste e molte altre le storie raccontate dai Fabularasa,
storie in cui le note e le parole si muovono libere in una dimensione che è poetica
e romantica allo stesso tempo. Straordinaria l'esecuzione di Eu quero è sossego,
brano con il quale Gabriele Mirabassi trasmette attraverso la voce del suo clarinetto
le emozioni e lo spirito del Brasile, trascinando dolcemente il pubblico in quella
terra latina. L'intensa espressività e l'urgenza di comunicare attraverso il suo
strumento contraddistingue questo straordinario artista che arricchisce notevolmente
la performance dei Fabularasa. Dotati di grande spessore artistico anche gli altri
musicisti: Vito Ottolino alle sue chitarre, Giuseppe Berlen instancabile con le
sue bacchette nel dettare le regole ad un gioco musicale che muove costantemente
tra melodia e virtuosismo. E ancora il grande
Leopoldo
Sebastiani, bassista dal suono sempre presente, il punto di riferimento
essenziale e il tappeto ideale dal quale Luca Basso narra le sue storie. Notevole,
inoltre, la capacità di quest'ultimo di coinvolgere il pubblico attraverso la sua
maniera di pronunciare e dare rilievo ad ogni singola parola che ricorda i cantautori
di una volta, facendo in modo che si attenda con ansia la frase successiva per costruire
la storia insita in ogni canzone. Ed è proprio ai grandi cantautori, Modugno e Jannacci,
che i Fabularasa e Gabriele Mirabassi dedicano il loro ultimo omaggio, degna conclusione
di una serata ricca di suggestioni e di speranze. - Nina Molica Franco -
Nella terza e quarta serata vi sono stati due concerti molto
diversi tra loro ma rappresentanti entrambi la risultante di un continuo e ricercato
lavoro da parte degli artisti.
Il "BassVoice Project" di
Pippo Matino
e Silvia Barba, accompagnati da veri e propri "senatori" del proprio strumento
come Walter Calloni alla batteria,
Javier Girotto
al sax soprano e Fabrizio Bosso alla tromba, hanno presentato brani estratti dai
loro lavori costituiti sia da selezionate cover riarrangiate all'uopo che da composizioni
originali. Il concerto è iniziato con i due titolari della band, Silvia Barba alla
voce e Pippo Matino
"ai bassi". Il plurale è d'obbligo dato che Matino attraverso il suo strumento estrapola
molteplici suoni ed elementi sonori che, posti in sovrapposizione, definiscono una
originale trama armonica e ritmica. E così si materializza "La musica che gira
intorno" di Fossati in un arrangiamento di pregevole fattura. Come cita il famoso
testo del cantautore genovese non è "per niente facile" far scorrere un brano
come questo offrendo sostegno continuo e dettaglio armonico. Dal connubio dei due
artisti sono nati anche diversi brani originali come "Regalami di te" in
cui Matino costruisce con misurata gradualità un notevole solo e "Manchi",
che vede l'ingresso sul palco di Walter Calloni e
Fabrizio Bosso
con i quali aumentano i suoni e le tensioni. L'evoluzione di Bosso, su un caldo
e raffinato groove, riscuote subito un meritato apprezzamento da parte del pubblico.
Manca ancora un elemento all'ensemble annunciato, il sax soprano di
Javier Girotto
che esordisce su un accattivante arrangiamento samba di "Summertime". Il
sassofonista argentino "esplode" immediatamente in una straordinaria galoppata a
cui non manca la risposta di un altrettanto rimarchevole Bosso che su questi ambiti
"danza" come pochi. Dal Brasile, omaggiato anche con un richiamo a "Mas que nada",
si passa a Parigi con la nota "Je ne regrette rien", successo della chançon
francese firmato da Dumont e Vaucaire e portato al successo da Edith Piaf. Silvia
Barba, per nulla intimorita dalla celebre collega, mostra un'ottima pronuncia e
un'elegante esposizione che si distende sul corposo, solidissimo impianto sonoro
di Matino, così incisivo durante tutta la serata da riuscire sempre a trasmettere
l'essenza di ogni brano senza farne perdere minimamente l‘andamento.
Un po' di "muscoli" non guastano mai e ne danno tutti prova di averne in "Tandoori",
omaggio all'India, in cui anche Calloni ricava uno spazio solistico che fa esaltare
il nutrito pubblico accorso anche per il suo nome.
I cantautori hanno scritto pagine di storia della nostra musica e il duo Matino
e Barba, oltre a Fossati, offrono un delicato e bel tributo a Luigi Tenco con una
fiaba deliziosa "Il mio regno" e al compianto Lucio Dalla con "Anna e
Marco" attraverso una musica che abbraccia, racconta, illumina, riscalda.
La teatralità di Silvia Barba è un'altra caratteristica che si fa notare positivamente
sul palco del Multiculturita quando interpreta il brano "Viva lei". Teatralità
e musicalità avvolti ed espressi in modo mirabile con la Barba che allontana il
microfono fino a cantare praticamente senza amplificazione per esaltare anche il
gesto e per poi lasciare spazio ad un Girotto che sfodera un solo davvero notevole.
Per la chiusura, tutti sul palco con il funk di "Come Together" dei Beatles
in cui si sentono le radici davisiane sottolineate anche da un richiamo a "Jean
Pierre". Bis d'obbligo con tutta la band che omaggia Napoli con "Tu si na
cosa grande" e saluta il pubblico con un elegante "Time after time".
La serata conclusiva del Multiculturita è un vero e proprio azzardo
per la comunità che solitamente ha frequentato questo longevo festival. La direzione
artistica ha deciso di affidare il palco ad uno dei progetti nostrani più controversi
e traumatizzanti, il CorLeone di Roy Paci nel suo nuovo lavoro "Blaccahénze".
Il trombettista e compositore siciliano condivide lo stage con Alberto Turra
alla chitarra, Marco Motta al sax baritono, Guglielmo Pagnozzi al
sax alto, Andrea Vadrucci alla batteria e John Lui al basso e alle
tastiere, tutti musicisti provenienti da esperienze jazzistiche ma che hanno mostrato
di avere nel DNA tanto rock e funk da impregnarne la performance come se fossero
dei navigati hard rockers. La band è invitata sul palco quasi, come si suol dire,
mettendo le "mani avanti", e avvertendo il pubblico dello shock in arrivo anche
se poi Paci cerca di tranquillizzare annunciando che il concerto è dedicato alla
dodecafonia di Schoenberg di cui cita la frase "Il talento ha la facoltà di imparare,
il genio di inventarsi".
L'overture però lo smentisce subito offrendo suoni riconducibili addirittura all'heavy
metal che, con la mancanza propulsiva del basso, risultano ancora più sospesi e
taglienti. Dirompente, tra una mescolanza di suoni teoricamente antitetici come
i sax e le chitarre distorte ma che invece si fondono grazie proprio al forte scontro.
Tra scorribande di fiati su ruggenti suoni delle chitarre si fa gradualmente spazio
la linea della tromba squillante di Paci che, come un capobanda, raduna tutti intorno
a seguirlo per poi rilanciarli ancora, riprenderli, sfidarli e condurli ad un finale
di quiete molto apparente.
Un'irrequietezza espressiva che urge esplodere, mostrarsi, cambiare repentinamente
volto, come se innumerevoli scene si avvicendassero seguendo la velocità del pensiero
in grado di mantenere contemporaneamente più fili logici di uno stesso discorso.
E questo dispiegarsi di ambiti, mette a dura prova i riflessi dei musicisti che
però mostrano una coesione molto elevata unita ad un totale controllo della composizione.
Ogni fotogramma ha un suo colore, quindi, e passa con la velocità di uno sguardo,
ogni fotogramma ha una sua storia e la si racconta con la rapidità di un gesto.
Tutta questa musica ha però una trama ben precisa anche quando dall'heavy metal
approda in un "hard-dixie" eseguito in piena regola dai brass ma sostenuto da una
sezione ritmica "decisa". Tensioni esasperate fino ad un micidiale solo della batteria,
una vera e propria esplosione di colpi che "agita" il pubblico il quale non manca
di cominciare a far sentire il proprio consenso: il dubbio iniziale si trasforma
ora in decisa approvazione. Roy Paci è regista, protagonista, si defila ed entra
in primo piano anche con un cenno che il bandmate di turno coglie istantaneamente
come se fosse in una comune ipnosi musicale. Ad un certo punto si avvertono le note
di "Goodbye Pork Pie Hat" di Mingus, "straziato" su di un letto rock su cui
l'eccellente sax alto di Guglielmo Pagnozzi emerge con veemente autorità. E, senza
voler necessariamente scovare paralleli, è comunque questa un'anima che su questi
piani ha fornito alcuni elementi da cui originare la scrittura. O addirittura, sembra
uno degli approdi più naturali. Straordinario.
In questa musica vi è una matrice di suoni finanche popolari, bandistici, incastrata
in un contesto di puro heavy metal jazz, e sembra così logico, naturale, che tutto
il resto diventa, misteriosamente, appartenente ad un passato lontano. E' probabilmente
questo il vero mistero del Corleone di Roy Paci. E riprendendo la citazione di Schoenberg,
non è affatto chiaro se il musicista di Augusta si stia quindi reinventando o se
stia studiando. Forse entrambi, dato che senza alcun dubbio dal concerto di questa
sera sono emersi genio e talento come non si sperava ce ne fossero ancora. Sarebbe
auspicabile che questa musica viaggiasse ben oltre i nostri confini per un confronto
che, a parere di chi scrive, potrebbe offrire delle soddisfazioni molto alte. - Marco Losavio -