Intervista a Enrico Pieranunzi
gennaio 2008
di Mariagiovanna Barletta
A gennaio di quest'anno, presso la Sala Botticelli all’interno dell’Hotel
90 di Capurso, in occasione del sesto anniversario della
Rassegna Multiculturita, si
è tenuto un concerto di
Enrico
Pieranunzi in duo con
Rosario Giuliani.
Abbiamo incontrato
Pieranunzi
prima del concerto.
Mancano pochi minuti all'intervista e la breve attesa viene allietata
da un'esecuzione tratta dalle 555 Sonate di Scarlatti, pane quotidiano
di tutti i pianisti che hanno una formazione classica. Il tocco brillante e la velocità
"sfrenata" mi introducono con stupore nel mondo del maestro…
Cosa pensa del jazz in senso didattico?
Io ho sempre avuto un atteggiamento da una parte
un po' provocatorio, mi ricordo che entravo in aula a Siena, perché ho insegnato
a Siena molti anni, dicendo: "Buongiorno a tutti, guardate, io il jazz non ve
lo insegno, lo imparate voi". Nel senso che il jazz è una musica che si impara
da soli, perché è una musica di attrazione della musicalità e questo vale anche
se si insegna un walzer di Chopin, è ovvio che alla fine è il ragazzo o la ragazza
che lo imparano. Il mio atteggiamento polemico nasce in breve da due cose: dalla
mia storia personale che diventa per me punto di riferimento; è una vicenda di autoapprendimento,
per cui senti un disco, provi a rifarlo e cominci a smontare il giocattolo. Questo
processo attiva l'orecchio, attiva la fantasia, attiva il corpo, è quindi un'autoattivazione.
L'altro sistema che io non condivido è: "ti insegno tutte le scale esistenti,
è tutto qua, fai da te". Questo secondo sistema apparentemente è più generoso,
ma in realtà può risultare addirittura bloccante; perché tu ti trovi cento penne
e quaranta matite e però di tuo non sai dove andare. Il jazz funziona da fuori a
dentro se tu decidi cosa prendere, che significa un assolo, un accordo e nel momento
in cui vieni colpito da qualcosa che ti risuona, vuol dire che è una cosa importante
per te dentro e non sai perché. C'è un elemento irrazionale che in quel modo, francamente,
verrebbe tolto di mezzo. Credo che la teoria sia fare la prassi, che il jazz si
impara suonando, rubandolo.
Secondo lei, quanto può influire una buona cultura classica
nella forma mentis di un musicista che si approccia al jazz?
Può essere un aiuto se si è in grado di fare collegamenti, se si ha una
mente aperta, la musica è una sostanzialmente. L'altro aspetto, a volte negativo,
è che la musica classica viene vissuta come una specie di isola che esclude tutto
il resto e soprattutto, la grande differenza, è nel rapporto con la musica scritta.
Mi ricordo che quando insegnavo musica classica, il mio problema di insegnante era
di riuscire ad attivare l'orecchio dei ragazzi, soprattutto delle ragazze che erano
paralizzate dalla musica che avevano sul leggio. Il grosso problema è quindi tra
musica scritta e nell'attivazione del corpo, perché esiste un meccanismo psicofisico
per cui entrare nella musica scritta chiude l'orecchio, detto in termini molto brutali.
L'equivoco ideologico, invece, è credere che la musica sia quella scritta. No, la
musica si scrive per comodità, esiste a prescindere;quindi da questo punto di vista,
dico, diamo la cultura classica se si è abbastanza liberi dal condizionamento della
musica scritta.
Nel suo ultimo progetto in preparazione "Pieranunzi
plays Domenico Scarlatti", interpreta un grande compositore dei primi del '700.
Lei trova interessante questo tipo di linguaggio armonico?
Assolutamente si. Ci sono dei motivi spiegabili ed alcuni più difficili
da spiegare: innanzitutto si sente dalle sue Sonate, che era un grande improvvisatore
e dato che quest'anno ricorre il duecentocinquantesimo anno dalla sua morte, ho
pensato di andarlo a riprendere ed ho come riscoperto un mondo. Secondo me, dal
punto di vista armonico, in quel periodo è stato il più profondo. Per quanto riguarda
la manipolazione della forma, poi, ci sono delle Sonate che hanno degli sviluppi,
delle aperture che come idioma, sono già al livello di Mozart, Schubert,
Beethoven. Oltretutto è un mondo pieno di vitalità, di ritmo mediterraneo,
di armonie spesso audaci, modulazioni incredibili e soprattutto si sente, ed è anche
scritto da qualche parte, che molte delle sue Sonate, di queste famose 555, nascono
dalle mani. Non nascono, quindi, da un rapporto astratto con la carta, che è una
guida, ma nascono dalle mani, come nascono sovente le improvvisazioni jazz. Quando
si incomincia ad improvvisare su un pezzo, l'obbiettivo dell'improvvisatore è eliminare
il nome delle note e quindi far funzionare il corpo come generatore di musica. Si
sente chiaramente, in molte delle sue Sonate, che questi spunti nascono da giochi
delle mani, da un arpeggio, da una posizione; come del resto è logico in un grande
improvvisatore, lo erano tutti in quel periodo. Nel ‘700 i cembalisti improvvisavano
anche in pubblico e quindi l'elemento improvvisativo, in Scarlatti è veramente importante
ed affascinante;le sue Sonate in molti casi sembrano composizioni improvvisate,
che quindi hanno la nobiltà della composizione.
Se dovesse capitarle, "jazzerebbe" qualche preludio
e fuga dal Clavicembalo ben temperato di Bach?
Ma sì, non con il basso e la batteria com'è già stato fatto negli anni
'50, creando un'operazione di cattivo gusto, francamente; usare il materiale di
un compositore come quindi anche Bach, si può fare, è un'operazione rischiosa
sul piano del gusto, in cui facilmente si può scivolare nella parodia, nella superficialità.
Il termine jazzerebbe a me ricorda sempre gli abiti gessati, non è che tutto
quello che jazzifichi o improvvisi va bene, ci vuole un grande rigore interno
per dare vita a della musica che abbia una sostanza pari a quella del materiale
che usi.
Crede che sia importante per un buon musicista di jazz
essere un bravo compositore?
Questa è una bella domanda. Non tutti hanno voglia di comporre in realtà,
perché è un termine che spaventa, mette in soggezione, molti preferiscono improvvisare
senza comporre, forse perché questo riporta al problema della musica scritta. Io
dico che conviene scrivere, magari otto battute, può essere una cosa classicheggiante,
magari anche contemporanea; in questo modo, quando poi vai a rileggere una Sonata
di Beethoven, di Scarlatti o di Mozart, capisci come hanno
funzionato loro, la famosa pagina che davanti ti incombe è molto più umana (sorride).
L'antivigilia di Natale a 82 anni è morto Oscar Peterson,
l'ha influenzato come musicista?
C'è stato un periodo in cui per un anno ho avuto una Petersonite acuta.
Avevo 18, 19 anni e questa cosa mi è stata tanto rimproverata da alcuni critici,
perché a me piaceva molto il Blues e lui lo suonava molto bene, in più era un pianista
di tecnica classica. Ad un certo punto me ne sono allontanato, cercavo cose più
mie, un po' meno sul versante della piacevolezza e più magari sul versante dell'espressione.
Gli ho anche dedicato un pezzo nell'80 "One
For Oscar", un Blues a mani parallele, che riprende certe cose che faceva
lui; è stato un pianista straordinario. Il suo jazz era chiamato "Mainstream",
jazz della grande corrente, non essendo molto d'avanguardia, ma legato alla tradizione;
quindi per certi aspetti lui come anche Erroll Garner, hanno svolto un ruolo
di diffusione importante, perché erano abbastanza accessibili anche per i non addetti
ai lavori. Bisogna ringraziarlo e rispettarlo molto.
Come nasce il suo incontro con il sassofonista
Rosario Giuliani?
Noi ci conosciamo da almeno dieci, dodici anni, ho qualche anno di più
(sorride). Lui veniva ai miei concerti e poi ad un certo punto, lo chiamai come
ospite del mio trio di allora. Mi colpì molto per il controllo dello strumento,
il suo fraseggio e da quel momento è nata una collaborazione che adesso è abbastanza
importante, come il nostro progetto su Monk di questa sera. Ha un suono che
mi ricorda molto i grandi, mi piace..
Se lei ne avesse la possibilità, si confronterebbe con
un ensemble di percussionisti?
Questa la prendo come una grande idea che adotterò, a me piacciono molto
le percussioni, infatti ho fatto anche dei dischi con un grande batterista che si
chiama Paul Motian; un concerto del '92
a Roccella Jonica solo piano e batteria e "Doorways"
nel 2002. Se fossero improvvisatori, perché
no, volentieri...
27/08/2011 | Umbria Jazz 2011: "I jazzisti italiani hanno reso omaggio alla celebrazione dei 150 anni dall'Unità di Italia eseguendo e reinterpretando l'Inno di Mameli che a seconda dei musicisti è stato reso malinconico e intenso, inconsueto, giocoso, dissacrante, swingante con armonizzazione libera, in "crescendo" drammatico, in forma iniziale d'intensa "ballad", in fascinosa progressione dinamica da "sospesa" a frenetica e swingante, jazzistico allo stato puro, destrutturato...Speriamo che questi "Inni nazionali in Jazz" siano pubblicati e non rimangano celati perchè vale davvero la pena ascoltarli e riascoltarli." (di Daniela Floris, foto di Daniela Crevena) |
05/09/2010 | Roccella Jazz Festival 30a Edizione: "Trent'anni e non sentirli. Rumori Mediterranei oggi è patrimonio di una intera comunit? che aspetta i giorni del festival con tale entusiasmo e partecipazione, da far pensare a pochi altri riscontri". La soave e leggera Nicole Mitchell con il suo Indigo Trio, l'anteprima del film di Maresco su Tony Scott, la brillantezza del duo Pieranunzi & Baron, il flamenco di Diego Amador, il travolgente Roy Hargrove, il circo di Mirko Guerini, la classe di Steve Khun con Ravi Coltrane, il grande incontro di Salvatore Bonafede con Eddie Gomez e Billy Hart, l'avvincente Quartetto Trionfale di Fresu e Trovesi...il tutto sotto l'attenta, non convenzionale ma vincente direzione artistica di Paolo Damiani (Gianluca Diana, Vittorio Pio) |
15/08/2010 | Südtirol Jazz Festival Altoadige: "Il festival altoatesino prosegue nella sua tendenza all'ampliamento territoriale e quest'anno, oltre al capoluogo Bolzano, ha portato le note del jazz in rifugi e cantine, nelle banche, a Bressanone, Brunico, Merano e in Val Venosta. Uno dei maggiori pregi di questa mastodontica iniziativa, che coinvolge in dieci intense giornate centinaia di artisti, è quello, importantissimo, di far conoscere in Italia nuovi talenti europei. La posizione di frontiera e il bilinguismo rendono l'Altoadige il luogo ideale per svolgere questo fondamentale servizio..." (Vincenzo Fugaldi) |
27/06/2010 | Presentazione del libro di Adriano Mazzoletti "Il Jazz in Italia vol. 2: dallo swing agli anni sessanta": "...due tomi di circa 2500 pagine, 2000 nomi citati e circa 300 pagine di discografia, un'autentica Bibbia del jazz. Gli amanti del jazz come Adriano Mazzoletti sono più unici che rari nel nostro panorama musicale. Un artista, anche più che giornalista, dedito per tutta la sua vita a collezionare, archiviare, studiare, accumulare una quantità impressionante di produzioni musicali, documenti, testimonianze, aneddoti sul jazz italiano dal momento in cui le blue notes hanno cominciato a diffondersi nella penisola al tramonto della seconda guerra mondiale" (F. Ciccarelli e A. Valiante) |
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Data pubblicazione: 10/11/2008
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