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Intervista a Enrico Pieranunzi
Umbria Jazz 2004
Perugia, Teatro Morlacchi - 18/7/2004

di Antonio Terzo
foto di Paolo Acquati

Una amichevole chiacchierata con Enrico Pieranunzi, per parlare del suo ultimo disco, ma anche per scoprire il suo modo di fare jazz, e forse anche il "segreto del suo successo", partendo innanzitutto dal longevo rapporto con la sua etichetta discografica, l'Egea Records.

«Sono legato all'Egea da undici anni, al di là della continuità è un rapporto importante anche per i contenuti, perché mi ha dato l'opportunità di esplorare una zona compositiva che forse con un altro produttore e con un'altra casa discografica non avrei potuto approfondire verso questa direzione melodico-mediterranea. Anche il fatto di poter lavorare con organici diversi. Il piano solo per me è relativamente usuale, invece mi riferisco al trio con Racconti Mediterranei o quest'organico di Les Amants con gli archi: per me sono organici inusuali. Ed anche dal punto di vista della scrittura è una grossa opportunità».

È quanto emerge anche dal modo in cui è stato concepito questo lavoro discografico, "una mia boutade irresponsabile" la definisce Pieranunzi, nata dallo scambio di battute fra lui e Antonio Miscenà, produttore dell'Egea.

«Mi chiese cosa volessi fare dopo Racconti Mediterranei, ed io: "Adesso bisognerebbe ideare qualcosa con…un quartetto d'archi!" Io quasi scherzavo, invece lui fu subito d'accordo. E a quel punto è stato un colpo, perché avevo un'esperienza molto limitata nel settore, ed è stata una cosa complessa… E appagante, per due motivi: prima di tutto perché ho imparato tanto scrivendo, la musica è talmente enorme, infinita, che ho imparato un po' di più. Poi perché ho potuto fare un'operazione più dichiarata di fusione tra le mie radici classiche e quelle jazz, perché certe parti del quartetto sono proprio classiche, tardo-romantiche, impressionistiche, mentre le parti jazz vengono fuori con le improvvisazioni, specie da Bulgarelli e Giuliani. Quindi ho avuto l'opportunità di mettere insieme in maniera chiara e visibile questo doppio linguaggio».

L'Egea ha infatti sviluppato una linea "editoriale" particolarmente attenta al recupero ed alla valorizzazione del patrimonio musicale italiano e regionale. «Non è poi così vincolante, di fatto, è più una weltanschauung, una visione del mondo, una filosofia del "fare musica", naturalmente, molto acustica, con elementi etnici a volte non espliciti, spesso allusivi… L'Egea ha dei musicisti, come Marco Zurzolo, che fanno un lavoro etnico più esplicito. Ma anche in quello che fa Gabriele Mirabassi, che è musicista di estrazione classica: secondo me anche lui miscela il jazz con la preparazione classica, con elementi folclorici. È qualcosa in cui uno non rinuncia a nulla delle proprie radici o anche delle proprie influenze, certe o indeterminate… perché quando scrivo un pezzo non è che decido prima che impostazione debba avere!»

Lirismo, romanticismo, radici italiane: elementi riscontrabili nei lavori del maestro. «Forse molti non sanno che Roma ha questo folclore, ma purtroppo con tutte le stratificazioni culturali, questa immagine cinematografica un po' stupida e fessa ha sommerso queste radici che invece certamente esistono. Canto nascosto ha queste radici, anche in Canto di Nausicaa, c'è questo richiamo. Le radici etniche, di musica folclorica, si trovano tra le righe in filigrana, magari non esplicitate, non si può dire che questa sia musica etnica. Vengono fuori dei sapori, dei colori, e a me piace questa indeterminatezza. In maniera diversa pure in Les Amants, anche se questo è un pezzo "francesizzante", ecco perché ho messo questo titolo, è una danza francesizzante… Il titolo infatti viene dal fatto che a me piace il francese come lingua, mi piace la cultura letteraria francese, la musica francese, Debussy, Ravel, Fauré, Milhaud… Quando ho scritto questo pezzo, in realtà composto in pochi minuti, sembrava una danza: associo molto anche la danza alla Francia, all'Opéra, a tutta l'iconografia di Edgard Degas, per cui, dato che questo pezzo mi sembrava proprio da ballo, mi è venuto abbastanza naturale mettere il titolo francese, non ho avuto esitazioni. È un tre quarti veloce… Si balla, appunto, e questo ballo ha suscitato quelle immagini di ballerine col tutù, questa leggerezza, questa specie di borotalco».

Ed anche il quartetto Arké risulta essere l'organico più congeniale a questo tipo di concept. «Non fa solo musica cameristica, al contrario. Per adesso per esempio stanno accompagnando Antonella Ruggiero, o anche Trilok Gurtu, grandissimo percussionista etnico, quindi questi musicisti hanno un range di esperienze molto ampio, sono molto duttili, flessibili, non sono i classici "classici", ma dei classici un po' particolari, hanno tutti preparazione classica, due di loro suonano nell'Orchestra dell'Opera di Bologna, però sono molto aperti a qualsiasi tipo di linguaggio. Speriamo di estendere questa collaborazione anche in altre direzioni, magari con altri materiali».

Sembra dare ragione di tale trasversalità musicale anche la presenza di Marc Johnson nel disco, prezioso contrabbassista del celebrato trio di Bill Evans. «La collaborazione con lui è ormai un romanzo, insieme abbiamo fatto quattordici dischi tra trio, duo e altri progetti, il primo nell'84, quindi sono vent'anni che suoniamo, ed è una collaborazione che soprattutto negli ultimi quattro anni, è diventata ulteriormente stretta, non solo sul piano professionale, ma anche sul piano umano. Anche lui è un musicista con un retroterra classico, questo ci unisce al di là di cose difficili da definire a parole, feeling, fantasia… Però ha una ottima preparazione classica, gran rispetto per il suono, un'attenzione a certi valori musicali sui quali ci troviamo d'accordo senza dover dire nulla. Perciò era il musicista perfetto per questo genere di progetto, suona bene l'arco, ha cominciato con il violoncello».

Un disco di "rivisitazioni" di brani già editi, arricchiti dall'approccio "cameristico". «Quasi tutti i pezzi di questo progetto erano esistenti, alcuni già scritti ma mai incisi, come Where I never was e Canto del mare. Les Amants invece era già inciso su Racconti Mediterranei, quindi ha già quattro anni. Dovendo lavorare ad un progetto con un organico per me veramente nuovo e difficile, ho preferito scegliere del materiale che almeno conoscessi, così da avere almeno qualche punto d'appoggio, sennò sarebbe stato davvero difficile muoversi su quel terreno».

Eppure Pieranunzi è noto per una componente lirica che lo ha fatto spesso accostare ad una sensibilità di tipo "bill-evansiano", e che nel progetto viene quasi sublimata – ci si passi il termine – dal suddetto approccio. «È una conferma di questa miscela, perché credo che ognuno abbia la propria individualità anche all'interno di una espressione lirica. Non so se il mio lirismo sia accostabile a quello di Bill Evans, ma è interessante che anche lui avesse una forte preparazione classica, una grande sensibilità per la musica francese, per la musica impressionistica, la musica russa… Per cui può darsi che siano questi gli elementi di convergenza, anche se alla fine credo che questo per me sia ormai molto relativo… Certamente ho avuto un periodo di forte influenza, anche dichiarata, ma d'altra parte Evans ha influenzato tutti i pianisti moderni importanti, non si sfugge, perché ha cambiato la grammatica del pianoforte dal punto di vista armonico. Sul lirismo, per me è certamente molto lusinghiero essere accostato a Bill Evans».

Per finire con una piccola provocazione, una verifica. Già in una precedente intervista era stata posta al maestro la domanda sul cammino futuro del jazz. A distanza di tempo, dopo aver ripreso come allora la frase di Monk "Il jazz va dove cavolo vuole", oggi Pieranunzi aggiunge: «…però va sempre in direzione della bellezza, perché il jazz ha una straordinaria vitalità, è profondamente legato alla fantasia, alla creatività. Si possono utilizzare tutti i materiali, tutti i riferimenti, tipo il tango, la musica francese, la musica etnica. Recentemente ho letto un'intervista a Paul Bley: "Non sono quelle musiche ad influenzare, a cambiare il jazz, ma è il jazz che cambia queste musiche". Cioè sono i jazzisti che modificano, adattano, interpretano a loro modo tutti i riferimenti. Poi voi giornalisti musicali chiamate tutto questo cross-over, contaminazione, eccetera, però di fatto questa capacità del jazz é straordinaria, perché si applica alle canzoni italiane, ai Beatles. Quindi il jazz può cambiare anche direzione, ma va dove c'è la possibilità di fare un discorso creativo, espressivo importante. Quello è sempre lo spirito del jazz, secondo me. Rispetto a questo, i materiali che si usano sono "secondari", si può usare qualsiasi cosa, è lo spirito con cui si manipola il materiale che è jazzistico. Per questo il jazz è sempre vivo: tante volte ho sentito dire che era morto, in agonia, invece sta sempre qua. Proprio perché i jazzisti hanno questa capacità, cosa che nel pop e nel rock non sarebbe possibile: rock e pop sono assolutamente ripetitivi, le novità riguardano magari un piccolo suono di chitarra elettrica, una batteria, una voce, ma dal punto di vista concettuale è sempre uguale. Il jazz scardina sempre tutto, la musica italiana… Io ho inciso anche canzoni italiane con Ada Montellanico, Ma l'amore no per esempio, e ne ho fatto un pezzo jazz, prendo un pezzo di questi che è un po' classicheggiante e diventa jazz. Prendo qualsiasi cosa mi serva, e questo non lo faccio solo io, ma tutti quelli che suonano jazz così detto "contaminato", anche se contaminato sembra…una cosa "radioattiva"! È una questione di storie da raccontare. Se si ha una storia da raccontare, se si sa raccontare, l'argomento non è decisivo. Ecco, secondo me il jazz fa questo: prende qualsiasi cosa serva a poter fare dei bei racconti, raccontare belle storie.».







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Data pubblicazione: 17/10/2004

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