Bergamo Jazz 2019 41a Edizione 17-24 marzo 2019 di Aldo Gianolio foto di Elena Carminati e GIanfranco Rota
Dal 17 al 24 marzo, molti sono stati i concerti al festival jazz
di Bergamo 2019, giunto alla 41ma edizione,
tanto da essere impossibile per una singola persona seguirli tutti (si chiede anticipatamente
venia quindi se mancherà qui qualche resoconto, soprattutto della interessantissima
sezione "Scintille di jazz"); concerti ancora una volta divisi fra quelli
principali (e di maggior richiamo) al Creberg Teatro (aspettando sempre che i lavori
di restauro al teatro Donizetti giungano al termine, previsto nell'estate del prossimo
anno), quelli al Teatro Sociale, quelli in vari suggestivi luoghi storici cittadini
("Jazz in città") e quelli dedicati ai nuovi talenti in vari locali e pub ("Scintille
di jazz"). Per il quarto anno consecutivo la direzione artistica è stata affidata
a Dave Douglas (tranne che per "Scintille di jazz", diretta da
Tino Tracanna).
È già stato comunicato ufficialmente che nell'edizione del
2020 la direzione artistica sarà affidata alla vocalist
Maria Pia De
Vito.
Al Teatro Sociale
Il festival è entrato nel vivo giovedì 21 marzo al Teatro Sociale con i festeggiamenti
dei settantacinque anni di
Gianluigi
Trovesi. Il clarinettista, alto-sassofonista e compositore bergamasco
(di Nembro) ha iniziato il primo set con tre brani in duo con la pianista Anat
Fort, "Song of the Phoenix", "Not The Perfect Storm" (entrambi
composti dalla Fort) e "Villanella" (un suo pezzo storico), per poi ampliare
la gamma timbrica e delle coloriture con l'aggiunta della chitarra di Paolo Manzolini,
del basso elettrico di Marco Esposito e della batteria di Fulvio Maras
(sempre più bravo), proseguendo con "Gargantella", "Siparietto", "Noparietto",
"Campanello cammellato" e "Dance From The East n. 2", ospitando anche
Manfred Schoof alla tromba e Annette Maye al clarinetto. Trovesi ha
ripresentato il jazz che lo ha contraddistinto e reso celebre, contaminato dal folk
italiano tendente al bucolico oppure dagli andamenti e dai tempi complessi del folk
balcanico e medio-orientale, sempre in modo elegante, senza mai dilungarsi. Tutte
contaminazioni che si sono poi rinsaldate nel secondo set, quando è entrata la norvegese
Bergen Big Band diretta da
Corrado Guarino,
autore anche di nuovi arrangiamenti di altri brani del repertorio trovesiano, come
"From G. To G.", "Dedalo" e "Hercab", impreziositi da una scrittura
impeccabile e compatta, adeguata alla poetica del grande bergamasco, alla fine festeggiato
sul palco con una gigantesca torta.
Domenica 24 è stata la volta dei Quintorigo, che hanno
presentato il loro ultimo album "Opposites", in cui classici del jazz ("Blue
Rondo à la Turk" di Dave Bribeck, "Well, You Needn't" di Thelonious Monk,
"Stolen Moments" di Oliver Nelson) e del rock ("Alabama Son" di Kurt
Weill nella versione dei Doors e "Space Oddity" di David Bowie) si alternano
a brani originali. Al quartetto base formato da Valentino Bianchi (sax),
Andrea Costa (violino), Gionata Costa (violoncello) e Stefano Ricci
(basso), si sono aggiunti Alessio Velliscig (voce) e Gianluca Nanni
(batteria), gli stessi che hanno registrato il disco, producendo una musica che
gioca e interagisce fra i generi mischiando jazz, progressive rock e classica, una
musica aitante, immediata, ben congegnata nelle connessioni fra le parti, nei chiaroscuri
delle dinamiche e delle timbriche, negli assolo e nelle parti intrecciate a contrappunto,
senza mai scendere nel cervellotico e nel virtuosistico.
Al Creberg Teatro
Le tre serate (con due concerti ciascheduna) che si sono svolte al Creberg Teatro
sono state aperte venerdì 22 marzo da
Archie Shepp,
alla sua terza partecipazione al Bergamo Jazz Festival, dopo quelle del
1974 e del 2002.
Shepp, ottantaduenne, è oggi uno dei pochi grandi del passato che alla sua entrata
sul palcoscenico è accompagnato dall'aura (un altro dei pochi è
Sonny Rollins),
tanto grande e importante è stata la sua figura nel passato. Qui, accompagnato egregiamente
dal pianista francese Pierre-françois Blanchard, dal contrabbassista di origine
ungherese Matyas Szandai e dal batterista afro-americano
Hamid Drake,
ha dato sfoggio di lunghe articolate improvvisazioni impeccabilmente suonate al
sax tenore (il soprano, insolente e abrasivo, è stato imboccato soltanto in "Revolution")
che dovrebbero diventare oggetto di studio da chiunque voglia imparare l'arte dell'assolo
jazz, per la varietà delle situazioni presentate, per le idee stimolanti profuse,
per il modo di porgere le frasi e colorare i suoni. Il suo è un eloquio personalissimo,
diverso da quello di Coltrane (tanto che "Wise One", bellissimo brano che
Coltrane ha incluso nell'album "Crescent", diventa nelle sue mani tutta un'altra
cosa), diversissimo da quello di Dolphy, diverso anche da quello di Ben Webster,
da cui comunque ha sempre ripreso la sonorità e il tipico soffiato; è lo "stile
Archie Shepp"
che ancora oggi lo distingue da tutti, sia allo strumento (come nelle ellingtoniane
"Don't Get Around Much Anymore" e "Chelsea Bridge"), sia anche nel
particolarissimo canto, scuro, gutturale, profondamente earthy e commosso
(come in una splendida interpretazione di "Lush Life").
Bella prova ha dato anche, sabato 23 marzo, un altro vecchio leone del sax tenore,
David Murray, pure lui artista che ha saputo costruirsi un modo di improvvisare
personalissimo, seppur legato alla tradizione, comunque lontano dai modelli troppo
stereotipati. Con David Bryant al pianoforte, Jaribu Shahid al contrabbasso
ed Eric Mcpherson alla batteria (questi due ultimi non si sono trovati alla
perfezione per il timing, il primo sembrando tirare indietro rispetto al secondo
che invece sembrava tirare avanti), Murray ha espletato un solismo ricco e vario,
estroverso e ispido, a tratti iroso e aggricciante, con uso di ampi e sghembi intervalli
che lo catapultano in un balzo dai bassi più cavernosi ai sovracuti più spregiudicati,
oppure lo fanno zigzagare a saltelloni irregolari, con qualche irruzione frenetica
tipica del free storico di Albert Ayler, ma anche, riandando più indietro nel tempo,
degli honker tipo Arnett Cobb o Illinois Jacquet.
Dopo Shepp ha suonato il gruppo di uno dei musicisti che vanno oggi per la maggiore,
il trombettista Terence Blanchard, pluripremiato ai Grammy e reduce dalla nomination
agli Oscar per la colonna sonora del film "BlacKkKlansman" di Spike Lee.
Blanchard, che in carriera aveva cominciato come ardente hard bopper, ora con il
suo E-Collective formato da Charles Altura alla chitarra, Aaron
Parks al pianoforte elettrico e acustico, David Ginyard Jr. al basso
elettrico e Gene Coye alla batteria, fa musica fusion, facendo incetta di
ritmi funk, atmosfere elettriche ed elettroniche, sonorità alla tromba elettrificata
ricca di eco e riverberi (dal Miles Davis di "Tutu" o dal Zawinul Syndacate).
Una musica luccicante, metallica, certo suggestiva, ma poco varia nelle situazioni
e negli episodi, con ripetute linee melodiche brevi e distese, un po' ridondante,
alla lunga manierata. È un percorso evocativo aduso a illustrare scene cinematografiche,
trovando qualche oasi di frescura nei pochi e brevi interventi di Parks al piano
acustico.
In due diverse serate si sono confrontati due vocalist di origine africana che si
rifanno alla musica della loro tradizione. Il 23 marzo l'ivoriana, ora parigina
a tutti gli effetti, Dobet Gnahoré, oltre che vocalist anche danzatrice e
percussionista, con un bel canto risonante e a tratti voluttuoso concretizzato con
voce energica e al contempo flessuosa, ha imbastito melodie africaneggianti ("Love",
"Afrika", "Education"), condite con balli altrettanto africaneggianti,
il tutto edulcorato attraverso sonorità e stilemi tipici della world music (derivati
dalla saporosità pop-rock della chitarra di Julien Pestre, dall'elettronica
guidata attraverso il laptop di Pierre Chamot e dall'incalzante drumming
di Mike Dib). La Gnahoré ha abbozzato anche un minimo di coreografia attraverso
costumi, gestualità e strumenti musicali caratteristici, senza poter arrivare all'Africa
genuina perché, pantomima di pantomima, è dovuta passare attraverso il filtro ormai
consunto e lontano di Josephine Baker.
Il 24 marzo il camerunense, anche lui parigino d'adozione, Manu Dibango,
vocalist e sassofonista in tour per celebrare i sessant'anni di carriera, ha prodotto
una musica prettamente da ballo, quindi fuori luogo in un teatro adibito al puro
ascolto, una musica leggera, divertente, simpatica, non certo sorprendente.
Jazz in città
Per la serie "Jazz in città" i concerti si sono svolti all'Auditorium di Piazza
della Libertà, alla Sala Piatti, all'ex Oratorio di San Lupo, all'Accademia Carrara
e al Museo della Cattedrale. Proprio in quest'ultimo luogo, giovedì 21 marzo il
tenor sassofonista Dimitri Grechi Espinoza ha continuato a perfezionare il
suo Re-Creatio, una ricerca estatica in completa solitudine sulle sonorità più riposte
del sassofono e sugli echi e i riverberi ad esse connessi. Poche note diradate,
composte in ripetute cantilenanti brevi melodie, spesso solo arpeggi lasciati in
sospeso a respirare, note che librano nell'aria con riflessi e risonanze, note che
sembrano completamente avulse dalle pastoie del ritmo e del tempo, ma invece vengono
esattamente scandite dall'interno, in una scansione che è sempre la medesima, quella
del ritmo cardiaco, il battito del cuore, una pulsazione al secondo. Il risultato
è stato di grande suggestione ed emozione, vieppiù aumentate dall'incanto creato
dal luogo chiesastico catacombale.
Nell'ex Oratorio di San Lupo, tre performance. Venerdì 22, l'Horn Trio pianoless
e drumless della contrabbassista Federica Michisanti ha proposto il suo ultimo
disco, "Silent Rides", una suite con i brani legati l'uno all'altro senza
soluzione di continuità. La Michisanti, con i bravissimi Francesco Lento
alla tromba e Francesco Bigoni al sax tenore e clarinetto, ha prodotto un
jazz compatto e omogeneo, fondamentalmente pacato anche nelle parti più concitate
e veloci, a volte sconfinanti in aggriccianti disarmonie; con brani diversamente
approcciati, comprendenti singole intro, parti tematiche scritte (molto importanti
per marcare l'impostazione dell'insieme), lunghe parti improvvisate spesso a intreccio
contrappuntato dei tre strumenti, o di solo uno accompagnato dal contrabbasso, che
si avventurano in meandri tortuosi e ispidi simil-free in improvvisazione libera
polifonica, a volte giocando su soffi, rumori e brevi sequenze di note isolate.
Si sono sentiti gli echi delle musiche di Lennie Tristano e Warne Marsh, come quelle
di Don Cherry e Gato Barbieri, del trio di Jimmy Giuffre e di Gerry Mulligan con
Chet Baker,
per un cool jazz contemporaneo che si manifesta in belle trame dense, ardite e articolate.
Le rimanenti due esibizioni all'ex Oratorio c'entravano poco o niente col jazz.
Sabato 23, la violoncellista tedesca Anja Lechner, scuderia ECM, ha eseguito
in completa solitudine con delicata energia e precisione tecnica un repertorio classico
che ha spaziato dalla "Suite N. 1 in sol maggiore" di Johann Sebastian Bach
a "Les mots sont allés" di Luciano Berio, passando attraverso i "Moments
of Sadness and Silence" di Valentyn Syl'vestrov.
Domenica 24, il duo portoghese formato dalla cantante Sara Serpa e dal chitarrista
Andrè Matos, che frequentano l'ambiente del jazz newyorkese, hanno eseguito
canzoni estranee a quel mondo, perlopiù di loro composizione, alcune di difficile
esecuzione per i passaggi complicati, anche ispirate a testi di poeti come? Luis
Amaro ("Programo"), Alvaro de Campos ("Nada"), William Blake ("Night")
e Clarice Lispector ("Os Outros"), con atteggiamento minimalista e folklorico,
linguaggio lineare ed etereo ed esternazione di intime sognanti vibrazioni.
All'Accademia Carrara, sabato 23, si è esibito il duo collaudato (nel senso che
suonano insieme da dieci anni, anche se di rado) costituito dal campano Pasquale
Mirra al vibrafono e dal chicagoano
Hamid Drake
alla batteria e percussioni. Ci si è trovati di fronte a uno di quei prodigi che
ci regala il jazz attraverso una improvvisazione totale, con minimi accordi anticipati,
facendo scaturire una musica intensa, ricca e tesa che ha raggiunto apici di grande
espressività e bellezza. Pur essendo due strumenti a percussione, ne è scaturita
una grande vena melodica, iterativa quasi melopeizzante, con la batteria che diventava
vibrafono e il vibrafono batteria, intessendo grovigli materici alternati a distese
di tranquillità costruite su frasi sussurrate, sempre con l'intreccio dei poliritmi
in primo piano, tanto da creare una sorta di continua suspense.
La trombettista inglese Laura Jurd, alla guida del gruppo inglese Dinosaur,
quartetto che fonde il linguaggio del jazz con le sofisticate sonorità dell'electropop,
si è esibita sabato 23 all'Auditorium di Piazza della Libertà. La proposta fresca
e innovativa, dalla moderata componente elettronica, mette in contrasto il magma
materico costruito su figure reiterate da pianoforte e sintetizzatori, basso elettrico
e batteria (rispettivamente i valenti Elliot Galvin, Conor Chaplin
e Corrie Dick), con la tromba elegante e malandrina della Jurd, che ascolta,
medita e interviene nei momenti più adatti.
Alla Sala Piatti domenica 24 marzo il pianista Jacky Terrasson attraverso
le interpretazioni di "Caravan" o "Besame Mucho", oppure riprendendo
Satie o Monk, ha esternato, in piena solitudine, un pianismo ricco, esuberante,
di esplosiva raffinatezza, dal procedere inaspettato pieno di idee, citazioni, cambi
di dinamiche e ghirigori virtuosistici.
Scintille di jazz
Dei sei concerti di "Scintille di jazz" (che, ci viene riferito, hanno tutti avuto
successo e apprezzamento: i Dugong, quartetto fondato dal chitarrista Michele
Caiati e dal sassofonista Nicolò Ricci, il duo della chitarrista Eleonora
Strino e del contrabbassista
Giulio Corini,
i Novotono, ovvero i fratelli clarinettisti Adalberto e Andrea
Ferrari, il nuovo progetto Oofth del sassofonista Massimiliano Milesi
e il gruppo I Am A Fish del chitarrista Marco Carboni), si è riusciti
a seguirne solo uno, quello al bar-ristorante La Marianna del trio del giovane pianista
(qui per necessità logistiche al Fender Rhodes) Ermanno Novali, con Luca
Pissavini al contrabbasso e Matteo Milesi alla batteria: in un repertorio
di composizioni proprie (a parte "The Boxer" di Paul Simon e la tradizionale
"Dear Old Stockholm"), i tre si sono fatti apprezzare, oltre che per la padronanza
della tecnica strumentale, per la profonda e subitanea intesa, in certi passaggi
quasi intima, del loro operare, intesa a cui va ascritto il merito della riuscita
dei loro complessi movimenti su piani diversi, che così diventano conformi, concordi
e perfettamente comunicanti nel riuscito tentativo di metabolizzare con maestria
diverse influenze, fra cui il rock, la musica classica e contemporanea.