TJF - Torino Jazz Festival 26 aprile 2019 - 4 maggio 2019 di Aldo Gianolio
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Il nuovo corso del Festival Jazz di Torino, iniziato nel 2018
con la direzione artistica di Diego Li Calzi e Diego Borotti, ha incrementato nell'edizione
2019 il grande successo dell'anno precedente, con il dodici per cento in più di
presenze che sono arrivate a 25 mila in nove giorni, e diversi concerti sold out
(il tutto favorito anche dai prezzi bassi dei biglietti, quando non gratis). La
data della prossima edizione è già stata comunicata: si svolgerà dal 26 aprile al
3 maggio 2020.
Il programma dell'edizione 2019, svoltasi dal 26 aprile al 4 maggio, è stato molto
ricco (cfr. il sito
ufficiale), con star nazionali e internazionali, fra cui Joshua Redman,
Enrico Rava,
Kyle Eastwood, Randy Brecker, Fred Frith ed
Enrico
Pieranunzi, spazio alle sperimentazioni e a gruppi del territorio (tutti
molto bravi), diverse produzioni originali, un massiccio coinvolgimento dei jazz
club e il ritorno, dopo l'esclusione dello scorso anno, del jazz nelle strade, nelle
piazze e nei mercati per la sezione "open air".
Abbiamo seguito solo gli ultimi tre giorni (alle O.G.R., luogo simbolo della trasformazione
urbana torinese, al Conservatorio Giuseppe Verdi, nell'Aula Magna ‘Giovanni Agnelli'
del Politecnico e all'Auditorium del grattacielo Intesa Sanpaolo), costretti a rinunciare
a quasi tutti i concerti nei jazz club, perché sovrapposti temporalmente a quelli
principali.
Il pianista Giovanni Guidi ha presentato
il nuovo album "Avec Le Temps", pubblicato dalla ECM, il cui titolo è ispirato
a una delle canzoni più emozionanti del repertorio dello chansonnier francese Leo
Ferré. Nel suo quintetto, con
Francesco Bearzatti
(sax tenore), Roberto Cecchetto (chitarra), Thomas Morgan (contrabbasso)
e Joao Lobo (batteria), si trasforma in una specie di maestro cerimoniere
che introduce, commenta, sostiene la musica con un pianismo ricco, incessante e
onnipresente, ma che al contempo sembra starsene in disparte (come del resto fa
Cecchetto con la chitarra). È un Guidi che si è irrobustito, pur mantenendo intatta
la sua spiccata vena melodica e senza rinunciare a lunghi episodi impressionistici
e scorrevoli, professando senza remore un'arte che con lui è tornata di forte denuncia
politica e sociale, tanto da interpretare l' "Internazionale" e "Fischia il vento"
(del resto Ferré era anarchico), riprendendo poetiche (contenutistiche, ma anche
formali) che erano state di
Charlie
Haden e di Carla Bley.
I Lapsus Lumine del contrabbassita e compositore Stefano Risso, con
Jim Black alla batteria, Ernst Reijseger al violoncello e tre eccellenti
coriste, Giulia De Val, Sabrina Oggero Viale ed Erika Sofia Sollo,
su commissione dello stesso festival, hanno presentato composizioni originali basandosi
sull'opera di Louis Thomas Hardin, meglio conosciuto come Moondog, un allucinato
poeta e musicista di strada (nel senso che viveva sulla strada, era un homeless),
antesignano della musica minimalista, del postmodernismo e della new age. Risso
nelle sue composizioni si è ispirato soprattutto al lato vocale della musica di
Moondog, lasciando così amplissimo spazio alle tre vocalist che si sono espresse
in sofisticati contrappunti, però de-minimalizzandola, rendendola più forte e greve,
concentrandosi su quella che è stata chiamata, in riferimento all'opera di Moondog,
"l'inventiva selvaggia della musica fatta da un bambino", mantenendone l'andamento
reiterante, ma in modo più veemente e passionale, soprattutto per l'apporto dei
travolgenti Black e Reisinger, e formando un tutt'uno compatto con le voci.
Il trio scandinavo Rymden è la riproposizione, dieci anni dopo la scomparsa
del pianista
Esbjorn
Svensson, del gruppo E.S.T., dove il pianista norvegese Bugge Wesseltoft
prende il posto di Svensson, mantenendo al contrabbasso Dan Berglund e alla
batteria Magnus Öström. Anche il jazz da loro espresso è sulla falsariga
di quello dell'E.S.T., molto raffinato, giocato su sottigliezze di sonorità, su
ritmi sofisticati e complessi, su tocchi delicati, su tempi sfilati con qualche
afflato rockeggiante, su atmosfere oscure, tirate, sempre riflessive, anche nei
momenti più intensi.
Musica futurista, invece, per gli Ossi duri di Marco Tardito
con lo spettacolo multimediale "Eleven. Undici solfeggi futuristi", dove
Tardito al sax alto e clarinetto, Giuseppe Virone alla tromba, Alberto
Borio al trombone, Riccardo Conti al vibrafono, Martin Bellavia
alla chitarra, Gualtiero Marangoni al basso elettrico, Ruben Bellavia
alla batteria e l'attrice Paola Roman (tutti sotto la scenografia di Marta
Massano e con apparato multivisivo di Roberto Tibaldi) hanno messo in
scena testi recitati e musiche ispirate al movimento futurista con proiezione di
video d'epoca, dando anche la possibilità al pubblico, attraverso votazioni digitali
collegate con gli smartphone, di dare un indirizzo allo spettacolo piuttosto che
un altro. I brani, arrangiati modernamente con una certa complessità strutturale,
in perfetta sintonia con il contenuto dei testi recitati con compassata foga dalla
Roman, sono stati eseguiti con grande maestria strumentale e continuo senso del
gioco e dell'ironia.
Il trio torinese di jazz manouche Accordi Disaccordi, formato dai chitarristi
Dario Berlucchi e Alessandro Di Virgilio (che ha suonato per l'occasione
una chitarra Selmer utilizzata da
Django
Reinhardt durante la permanenza italiana del 1948) e il contrabbassista
Elia Lasorsa, assieme alla guest star Florin Niculescu, violinista
allievo di Stéphane Grappelli, hanno costruito attraverso le letture dell'attore
Giorgio Tirabassi (che pure si è cimentato in qualche assolo alla chitarra)
la vita musicale ed extra-musicale di Django, commentandole via via con una serie
di brani del classico repertorio gypsy e qualche original. Lo spettacolo è riuscito
perfettamente, sia per la buona scelta degli interventi letterari sia per la bravura
dei protagonisti, fra i quali hanno spiccato per l'eccezionale levatura tecnica
sia Di Virgilio che Niculescu.
Con il gruppo guidato dal contrabbassista Kyle Eastwood, figlio del
celeberrimo attore Clint, di cui è nota la sua passione per il jazz, si è tornati
al jazz canonico del mainstream, con il coltraniano (e adderliano) alto sassofonista
e sopranista
Stefano
Di Battista, in serata di grazia, Fabio Gorlier al pianoforte
e Alessandro
Minetto alla batteria; il repertorio non è però costituito da standard,
ma perlopiù da colonne sonore fra cui quelle di "Gran Torino" (che ha dato
il titolo al concerto), "Grande Cinema Paradiso" e "Mystic River"
(per il bis, Di Battista ha chiamato sul palco, a duettare con lui, il direttore
artistico Diego Borotti, che è musicista professionista).
Nel secondo set della medesima serata si è passati a un tipo di musica totalmente
diverso, sempre jazz, ma che non sembra nemmeno imparentato con il precedente. Questo
dell'Eivind Aarset Quartet è invischiato nella sperimentazione attraverso
sonorità trattate elettricamente ed elettronicamente, attraverso subbugli di ritmi
(e poliritmi) inesorabili e cacofonie ad alto volume. Sul palco, con Aarset (ex
Nils Petter Molvaer)
alla chitarra elettrica ed elettroniche, ci sono Audun Erlien al basso elettrico,
Erland Dahlen e Wetle Holte alle batterie e percussioni: il capogruppo,
più che Aarset, immoto nella sua postura da gran sacerdote di profilo rispetto al
pubblico, è sembrato essere il più esagitato Erlien; in ogni caso, tutti insieme
hanno espletato un'abbacinante irruenza sonora attraverso un massiccio groove, spesso
ipnotico, lunghi affastellamenti di ininterrotti poliritmi percussivi, ridondanze,
echi e riverberazioni tenebrose, che a tratti si si sono trasformate in intergalattiche
atmosfere dilungantesi nell'incertezza e nell'indefinito.
Chi si aspettava con il gruppo Tres Coyotes un qualcosa che si avvicinasse
al rock, o comunque che fosse appetibile per gli affezionati del genere, è rimasto
certamente deluso, perché John Paul Jones, bassista e co-fondatore dei Led
Zeppelin (qui anche al mandolino e alle elettroniche), con questo trio formato anche
da Anssi Karttunen, violoncellista di impostazione classica concertistica,
e Magnus Lindberg, pianista e compositore tra i più apprezzati in Europa,
ha presentato una musica da camera di marca colta sperimentale, in cui la libera
improvvisazione è stata preponderante, comunque assorbita come parte integrante
delle composizioni che, molto aperte e possibiliste, impostate sull'alea, sono spesso
state adoperate come semplici tracce. Musica pacata, a tratti onirica, ma che si
indurisce in diversi passaggi facendosi spinosa e avviluppandosi in spirali di maelstrom.
L'ultima sera, il 4 maggio, alla O.G.R., ci sono stati ben tre concerti, due dei
quali con rinomati jazzisti di Torino (Boltro e Rava). Ha aperto il BBB Trio
del trombettista
Flavio Boltro,
con il contrabbasso di Mauro Battisti e la batteria di Mattia Barbieri
(dalle iniziali dei tre cognomi le tre B) con ospite il sassofonista e clarinettista
francese Michel Portal. Già Boltro, esuberante hard bopper dalla tecnica
eccelsa, ha secondo noi trovato, nel trio pianoless, la sua giusta dimensione, perché
con meno pastoie armoniche si sgancia maggiormente dai canoni prestabiliti dal genere,
dando maggiore incentivo all'esplicarsi della sua fertile creatività; in più, con
la vicinanza di uno dei più aperti, liberi e personali solisti del jazz moderno,
per imitazione e irradiamento, si libera ancora di più dalle pastoie del bop (ben
inteso che non si considera negativamente il genere, ma si considerano positivamente
solo gli aneliti ad andare oltre). Il risultato è stato che il jazz di Boltro, sempre
espressivo ed estroverso, pieno di swing e felici soluzioni melodiche, si è stemperato
vicino agli interventi più eterei e astratti di Portal, l'uno influenzando l'altro
in una dimensione generale di grande afflato emotivo.
A Boltro nato a Torino, è subentrato il gruppo di un altro torinese, anche se d'adozione
(essendo nato, lui stesso dice "per caso", a Trieste):
Enrico Rava,
festeggiato per i suoi ottant'anni (e sessanta di carriera). Non è esagerato dire
che Rava sia il più importante e significativo jazzista espresso dall'Italia: lo
è per la sua storia, per le sue opere, per il suo stare al passo coi tempi e per
la sua umanità. Con il New Quartet, rincontrando i giovani compagni di tanti concerti
e di un disco molto bello del 2015 per la ECM, "Wild Dance", cioè il chitarrista
Francesco Diodati, il contrabbassista Gabriele Evangelista e il batterista
Enrico Morello, ha trovato ancora un terreno fertilissimo per fare fiorire
le sue improvvisazioni alla tromba (per la precisione, al flicorno, che sta suonando
ultimamente), sempre tese, pulsanti, inquiete, introspettive nei brani lenti, astratte
e sfrontate nei più mossi. Complessa e riuscita perfettamente l'interazione coi
compagni, che producono una base sfrangiata e audace, con Diodati che ha preso begli
assolo aspri e puntuti.
Ha chiuso lo svizzero Nik Bartsch al piano solo, dando una prova esaltante
di come si possano sviluppare continue minime variazioni melodiche e ritmiche partendo
da nuclei tematici elementari, dando origine, con il loro avvicendarsi, a una forma
complessa insistentemente variata pur nella sua sostanziale uniformità esteriore.
La sua è una poetica che nasce dai concetti di essenzialità e circolarità della
cultura orientale zen che rendono il suo suonare un gesto rituale, oltre che musicale,
una poetica che si rifà a precise strutture matematiche ma che al contempo è legata
a doppio filo ai ritmi biologici del nostro corpo, producendo un continuum ossessivo
e ipertrofico che alla fine torna su sé stesso avviluppato su più piani e più metriche.