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Time in Jazz
digit@l trance
Rea e Petrella: gli
Italiani di Berchidda
11/15 agosto, Berchidda (OT)
di
Antonio Terzo
Si svolge il 15 agosto,
davanti ad una distesa di persone accovacciate sull'erba, il piano solo di
Danilo
Rea a "l'Agnata", la casa di
Fabrizio
De Andrè. Ad accogliere con un caloroso benvenuto il numeroso pubblico, una
Dori Grezzi tanto
sorpresa quanto commossa, che anche in questa occasione ha toccato con mano
l'amore che lega molti amanti della musica – seppur di differente estrazione –
al suo e un po' anche nostro, caro Fabrizio.
L'interpretazione jazz di capolavori di De Andrè, pietre miliari della
canzone d'autore italiana, mette in rilievo la sensibilità musicale di
Rea,
che, come in Via del campo,
brano d'apertura, applica il linguaggio jazz ai vari temi senza tuttavia stravolgerne
lo spirito,
anzi
permettendo a chiunque abbia familiarità con il testo di canticchiarne in mente
le parole, fra accordi dissonanti e basso marciante. E l'intensità espressiva del
pianista si sposa perfettamente con la musica del cantautore genovese, anche quando
ne esegue una delle –apparentemente– più ingenue composizioni,
Girotondo, con inizio marziale
a rendere il senso "antimilitaristico" del pensiero deandreiano, per poi improvvisarvi
sopra vortici di scale. Ma a parte ciò che avviene sul prato – il silenzio raccolto
quasi mistico nel ricordo di De Andrè, gli accorati applausi alla fine di ogni esecuzione
– è piuttosto ciò che la suggestione del luogo e della musica,
di
quella musica, provoca all'interno di ciascuno, rivelando volti compenetrati ed
occhi socchiusi, a covare dentro il momento di particolare intensità emotiva. E
non stemperano la forza evocativa dell'evento neppure i brani più leggeri come
Don Raffae', rimasta
fino all'ultimo velata fra le mulinanti variazioni del pianista. Molte "canzoni"
sono fra loro concatenate,
Rea
non smette di saldare proprie invenzioni alle griglie armoniche, gli assolo agli
accordi, e l'estetica del suo pianismo si avvolge alla semplice ed immediata poetica
del compositore ligure. Su Crueza
de Ma il jazzista fa girare il basso, al particolare tempo composto dell'originale,
e giunta ormai la fine del concerto, dopo il lungo battimani, bis con
Canzone di Marinella, che
ospita
Paolo Fresu e la sua sordina, asciuttissima da riverbero, con
Rea
che mantiene il basso in sospensione, ovviando alle originarie modulazioni di tonalità.
Frangente improvvisativo del trombettista sardo, condotto adesso al flicorno, con
profonde e coinvolgenti geometrie, mentre l'assolo pianistico di Rea è invece contornato
dalla respirazione continua del fiatista. E per finire
Bocca di rosa, swingata
dal tratto spigliato di Rea, ottimo supporto, adesso, alle parabole di Fresu, ma
grande protagonista di un indimenticabile concerto.
Senza nulla togliere al collega jazzista e ad altri artisti pure di riguardo,
quale gladiatore di quest'estate jazz-festivaliera possiamo additare
Gianluca Petrella,
giovane trombonista
che
ad appena trent'anni ha già collaborato con importanti artisti nazionali ed internazionali
e ha licenziato, il 23 settembre
scorso, Indigo 4, l'album
pianoless per la BlueNote presentato sia a "Umbria
Jazz '05" a luglio, in anteprima, che al "Time in jazz" di Berchidda,
la sera del 15 agosto.
In entrambi i casi il concerto di presentazione del disco è pressoché lo stesso,
più nutrito di brani il primo, ma più rilassato il secondo. Cominciano i borbottíi
free del trombonista e del suo fido ancista
Francesco Bearzatti,
sul pedale trapuntato dall'elegante contrabbasso di Paolino Dalla Porta
e ritmo libero per la spingente batteria di Fabio Accardi, che solo
in un secondo momento assume la connotazione di un tempo dispari, di cui l'assolo
di Bearzatti
stravolge il tema, inerpicandosi su scale per tutta l'estensione del suo sax. Il
tenore si fa funky sul battito dritto portato da Accardi per
Lazy Moon – successo dei
discotecari Groove Armada –,
incedere non singhiozzante, con
Petrella
che prima si affida alla sordina per bordare di dorate cromature l'interpretazione
solistica del sassofonista, e successivamente detona appieno la propria voce, suonando
con energia tale da rendere ogni nota scolpita nell'aria. Intro drum&bass
su cui Dalla Porta sprigiona tutta la flessibilità di navigato ed eclettico
contrabbassista, sempre in grado di dare il meglio proprio fuori d'ogni struttura
preconfezionata. Acute giustapposizioni fra i fiati,
Bearzatti
adesso al clarinetto, netti i "vocalizzi" di
Petrella,
sfilato il suo slide, ricche le frasi come pure il suo repertorio "effettistico",
fra sordina, wha-wha, harmonizer e versi dentro l'imboccatura: e mentre il
contrabbasso varia continuamente di velocità, e si distende a rimarcare toniche
e scampoli di griglia armonica, il giovane barese fa risuonare la rotondità del
proprio trombone, ruggente, grintoso, fondendosi sull'obbligato in un tutt'uno con
il tenore. Il tempo raddoppia per il solo di
Bearzatti, a sfruttare i canali modali della
composizione del trombonista che ne sottolinea gli spezzoni motivici, per
trascinare il tenorista in un felice unisono, denotando una meravigliosa
intesa.
Solo a Perugia il trombonista regala un numero singolare, che non manca
di lasciare sbigottiti i puristi fra il pubblico. Prolusione del contrabbasso con
punteggiatura quasi classicistica di grande presa, quindi compare sul palco
Petrella
con la sola coulisse del trombone, mutilo della campana, al posto della quale
il nostro utilizza a mo' di cassa armonica un comunissimo bicchiere di plastica:
e
mentre sul fruscio sabbioso di Accardi, Dalla Porta dà conto dell'armonia,
il giovane leader infiocchetta la linea di quel basso con una sorprendente
Body & Soul. Eppure
la sua "trovata" scatena un'indicibile tensione, stemperata da
Bearzatti
che al suo turno si appoggia alla melodia. Ma dopo la chiusura, il musicista pugliese
osa ancor di più: effetti su trombone e contrabbasso per un nuovo brano dal timbro
cavernoso e metallico, nel quale provocatorio risulta l'uso della radiolina a captare
eteree frequenze da piegare all'estemporaneità della musica. Omaggio a Duke Ellington
con Mood Indigo, scarificata
fino a ridurre il ritornello ad una nota staccata per battuta, sincronizzata per
tutto il quartetto, e senza preavvisi: il capolavoro ellingtoniano, nonostante l'arrangiamento
minimalista, si riesce a seguire perfettamente. L'inciso è affidato al sibilante
clarinetto di Bearzatti,
che dopo il contrappunto solitario di Dalla Porta, divide con il leader
le note del tema in un'alternanza sospinta dall'affidabile walking bass.
Seguono i chorus in assolo, vorticoso quello del clarinettista, seghettato
quello del trombonista, controllatissimo fino allo sciame di coda, in cui invece
sfoga il suo approccio fisico allo strumento. È la volta di Accardi, sommessa
la partenza, il suo spazio poco a poco si ispessisce, inglobando dentro la scansione
dei 4/4 minuziose scomposizioni e tante coloriture dinamiche. Al Morlacchi di Perugia,
il quartetto invece si congeda con una ritmata
Calypso minor, ancorata
agli impulsi di Accardi e al martellante contrabbasso di Dalla Porta,
struttura portante su cui i due solisti sviluppano ciascuno la propria personalità
jazzistica, aggressivo il leader, strepitoso il sassofonista.
A
confermare che al vulcanico jazzista le idee non difettano, sono parimenti le altre
sue due esibizioni "berchiddesi", entrambe in duo: con il contrabbassista
Furio Di Castri
(insieme al quale il simpatico trombonista ha all'attivo un album,
Under Construction),
a Nughedu San Nicolò il 14
agosto, nella chiesa di Sant'Antonio;
e lo "Special Mountain Project"
del collega Steve Bernstein, nella fiabesca foresta demaniale del monte Limbara,
a Semida, il 15 agosto.
Il pubblico è stipato nella piccola chiesetta di Sant'Antonio, ma il brusio
scema all'istante non appena
Petrella
fa partire la rumoristica del proprio strumento, "implementato" dai marchingegni
elettronici e svariate "protesi" di cui il trombone si avvale – sordine, coppe,
plunger e quant'altro –, e soprattutto dai caratteristici glissati della
coulisse: dopo l'obbligato in connubio con
Di
Castri,
Petrella torna ad arricciarsi sulla quinta dominante, quasi a prendere
la rincorsa per imbastire i propri voli sul walking dell'amico, liquidi e
boppeggianti. Quindi una insistente figurazione ritmica apre all'assolo del contrabbassista,
cantabile e ritmato, mentre per la conclusione il barese sdoppia il suono del trombone
con mugugni interni. Raccolta l'approvazione per questo primo pezzo, è adesso
Di Castri
a farsi percussivo e ad "incidere" un sample che andrà a costituire scheletrato per
il successivo: il risultato è quasi ipnotico, specie quando il contrabbassista
suona tamburellando sulla fascia dello strumento ed il trombone passa da sonori
barriti a traccianti frasi ben congegnate ed articolate, con ottimo controllo delle
coloriture dinamiche. Ancora
Di Castri
campiona un tiro d'archetto, grave ed intenso, per sovrapporvi una suggestiva introduzione
che gli consente di girare su armonie rarefatte e struggenti, ricostruibili unendo
gli apici dei suoi precisi arpeggi.
È
il turno di Petrella,
che aggiunge lirismo a lirismo con toni malinconici e sinceri che divengono striduli
e più marcati all'ottava superiore. Più pungente il brano successivo, scattante
il fraseggio dei due jazzisti: è il contrabbasso ad imprimere il pulse, ora
rallentando – e permettendo a
Petrella
di divenire addirittura sensuale in un blues su cui le cadenze in settima si sprecano
–, poi esaltando sia lo svolgimento che il piglio ironico, assecondato dal wha-wha
che Petrella
usa per controllare le aperture del suo periodare, fino all'ultimo giro, a firmare
la splendida intesa fra i due.
Petrella propone qui
il suo numero del trombone smontato con bicchiere di plastica al posto della campana,
ma a differenza di Perugia, questa volta è assecondato anche dal contrabbasso, vibrato
da Di Castri
con un fuscello: ciarliero il trombone – o quello che ne rimane – che viene rimontato
in "corso d'opera" per C'mon baby
light my fire dei Doors. Segue una sorta di sfida a tinte caraibiche
fra i due jazzisti, con accenni a
Brazil: sciame di poderose
e strombazzate note introduttive, e i due danno vita a svaganti e svagati siparietti
che evitano che il gradevole spettacolo, condotto da due soli protagonisti, possa
diventare anche soltanto a tratti monotono: si rincorrono per il palco, proseguendo
a suonare, fino a guadagnare a turno l'uscita e rientrare, sempre suonando. L'ultima
parte del concerto si svolge così all'esterno, su un prato scosceso ricoperto da
tutta la gente riversatasi fuori: ed ancora sulla scia di Brazil – prima
lentissima, poi via via più accelerata, quindi vestita di rumba, di bossa, di samba
– sibila il trombone, corroborato in un crescendo dall'insostituibile contrabbasso
che tesse adesso trame ispaniche, snaturando l'originaria versione festosa e carnevalesca.
Sulla
stessa falsariga d'ironia e versatilità virtuosistica il concerto al boschetto del
monte Limbara, che vede l'ingresso di un
Petrella
"georgico", con tanto di erbetta a coibentare gli interstizi fra la campana e la
sordina, sulle scivolanti note di Bernstein: ancora trovate r/umoristiche
di Petrella
che fa vibrare uno stelo, contrappuntando il disegno della tromba, mentre l'atmosfera
si arricchisce di misteriosi armonici orientaleggianti ad opera del gong di Kenny
Wollesen per procedere sulla stessa linea con mazze lievi ed ovattate che accompagnano
gli intrecci bluesy del collega newyorkese. Di seguito una lenta marcia in
stile neworleansiano che
Petrella
rifinisce con accenti sul registro basso, di cui Bernstein si serve come
sostegno per il refrain di
8 e ½ di Rota, in un avvicendarsi
e rincorrersi, fra i due, di grande presa ed avvincente estemporaneità. È la tromba
di Bernstein ad aprire il pezzo successivo, un cicaleccio trascinante di
note sottolineato dal fitto drumming sui piatti di Wollensen, dove
il frangente arabesco mette in luce la genialità di
Petrella
anche come accompagnatore e rifinitore di armonie. Parti invertite, adesso, con
Petrella
che improvvisa su Black cat funk,
scortato dal controcanto del compagno fiatista: il vento e le vibrazioni sonore
repentinamente stoppate da Wollensen si confondono,
Petrella
si lascia andare a corali nenie pseudo-tibetane e – colpo di scena! – ad un cenno
del batterista, il pubblico tira fuori delle ronzanti "raganelle", cui si aggiungono
specialissimi effetti di bolle di sapone… surreale. Si succedono altri brani, che
incontrano tutti il favore del pubblico, ben ripagato della notevole scarpinata
– parte in auto e parte a piedi – che ha dovuto affrontare per raggiungere l'amena
location, e gli applausi sono convinti e fragorosi, degni del bis di chiusura:
una articolata Yardbird Suite, che gioca sulla
velocità esecutiva e che conclude il concerto con quel tocco di jazz al cui mondo
entrambi i polimorfici strumentisti si ascrivono.
27/08/2011 | Umbria Jazz 2011: "I jazzisti italiani hanno reso omaggio alla celebrazione dei 150 anni dall'Unità di Italia eseguendo e reinterpretando l'Inno di Mameli che a seconda dei musicisti è stato reso malinconico e intenso, inconsueto, giocoso, dissacrante, swingante con armonizzazione libera, in "crescendo" drammatico, in forma iniziale d'intensa "ballad", in fascinosa progressione dinamica da "sospesa" a frenetica e swingante, jazzistico allo stato puro, destrutturato...Speriamo che questi "Inni nazionali in Jazz" siano pubblicati e non rimangano celati perchè vale davvero la pena ascoltarli e riascoltarli." (di Daniela Floris, foto di Daniela Crevena) |
15/05/2011 | Giovanni Falzone in "Around Ornette": "Non vi è in tutta la serata, un momento di calo di attenzione o di quella tensione musicale che tiene sulla corda. Un crescendo di suoni ed emozioni, orchestrati da Falzone, direttore, musicista e compositore fenomenale, a tratti talmente rapito dalla musica da diventare lui stesso musica, danza, grido, suono, movimento. Inutile dire che l'interplay tra i musicisti è spettacolare, coinvolti come sono dalla follia e dal genio espressivo e musicale del loro direttore." (Eva Simontacchi) |
15/08/2010 | Südtirol Jazz Festival Altoadige: "Il festival altoatesino prosegue nella sua tendenza all'ampliamento territoriale e quest'anno, oltre al capoluogo Bolzano, ha portato le note del jazz in rifugi e cantine, nelle banche, a Bressanone, Brunico, Merano e in Val Venosta. Uno dei maggiori pregi di questa mastodontica iniziativa, che coinvolge in dieci intense giornate centinaia di artisti, è quello, importantissimo, di far conoscere in Italia nuovi talenti europei. La posizione di frontiera e il bilinguismo rendono l'Altoadige il luogo ideale per svolgere questo fondamentale servizio..." (Vincenzo Fugaldi) |
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Data pubblicazione: 20/11/2005
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