Nel cercare di delineare un modello dell'estetica del jazz-moderno ribadiamo che
non si vuole arrivare ad affermare che tutto quello che esula dal purismo non sia
musicalmente e artisticamente valido, l'eclettismo in musica può essere insignificante
come invece stimolante e produttivo. Va valutato caso per caso!
Da un punto di vista estetico e filologico rimane però fuorviante e illegittimo
inscrivere nel jazz opere che, anche quando musicalmente significative, non appartengono
a questo genere musicale. Esse peraltro attuano ibridazioni tra generi diversi che
non sembra stiano portando alla nascita di nuovi cicli musicali "...bellissime
case in strade senza uscita" (cit. Marsalis). Opere, inoltre, troppo spesso
prigioniere del consumismo industriale.
Anche se vi può essere, e vi è, grande musica che vede al suo interno componenti
spurie ed eterogenee, tra le quali anche il jazz, in ogni caso non si può far finta
di non vedere il revisionismo.
Ai confini del jazz si è venuta a creare una zona franca, nella quale si clonano
organismi geneticamente modificati nei quali il jazz è dosato artificiosamente insieme
ad elementi jazzisticamente snaturanti quali il flamenco, il country-western, il
pop, il rock, la musica indiana, la musica celtica, ed oggi, ultimo grido, anche
il classico-romantico!
Anche quando ciò possa risultare musicalmente interessante non si toglie il fatto
che, se inscritto nel jazz, ciò comporti una revisione e una falsificazione storica.
Così come è da respingere qualsiasi pretesa del Jazz di collocarsi su un piano di
superiorità rispetto alla Fusion, così sono da respingere le pretese di quest'ultima,
non solo di essere la continuatrice del Jazz, ma anche soltanto di essere iscritta
in quel genere musicale. Dicendo questo non solo non si giunge a sminuire la Fusion
ma, al contrario, le si riconosce uno status e una dignità di genere che neanche
i suoi sostenitori le hanno mai conferito! Nel contempo, il riconoscimento di questo
status non solo non la esenta, ma la espone maggiormente al vaglio della critica
mettendola in guardia dalle derive consumistiche. Quando la Fusion viene invece
arbitrariamente inscritta nel jazz si attua un ennesimo tentativo di snaturare e
revisionare il jazz, genere che ha visto e vede contro di sé combinati e persecutori
un pre-modernismo austero e conservatore, e un post-modernismo qualunquista e radical-chic.
"L'unica musica autenticamente popolare, il jazz, è stata implacabilmente combattuta
dalla strategia erosiva dei media americani, che si sono adoperati per imborghesirla
all'interno delle società postindustriali che pretendono di aver abolito la divisione
in classi. Il jazz ha rappresentato una forza espressiva rivoluzionaria, che non
aveva nulla in comune con la fabbricazione standardizzata di prodotti di consumo
destinati dalla cultura commerciale popolare alla piccola borghesia ignorante. La
storia del jazz è caratterizzata dalla lotta per la sopravvivenza combattuta senza
tregua contro l'appiattimento e lo sfruttamento commerciale. La musica autentica
nera che canta il sesso, la miseria, la derisione, la protesta, l'impegno politico,
è stata impietosamente braccata e respinta dalla società americana, che ne ha lasciato
sopravvivere solo le forme atrofizzate: accettazione passiva, redenzione mistica,
rassegnazione. Il jazz è stato in gran parte ridotto a un prodotto inoffensivo,
sdolcinato, estetizzante. Il free jazz, che si è rifiutato di piegarsi alla logica
liberista e predeterminata, è stato allora inesorabilmente rifiutato e condannato
al silenzio" (Hugues Dufourt "MUSICA, POTERE, SCRITTURA" Le Sfere, ed. LIM-Ricordi
- pag. 81).
Vi sono degli assunti espressivi, ma anche deontologici che, nel caso del jazz,
risultano cruciali, essi coinvolgono l'intenzionalità e il suono ("feeling").
Quella naturalezza e sincerità nel porsi che risulta innanzitutto dal suono, ma
anche da quel particolare modo di costruire il ragionamento melodico che implica
un costante e sottinteso mettersi in discussione, una sorta di epoché sottoposta
al giudizio del pubblico il cui ascolto partecipato svolge un ruolo attivo. Una
comune lunghezza d'onda che rinvia (religiosamente) ad un esoterico idem-sentire
che non può assolutamente essere disatteso in quanto principio essenziale del fare
jazz. E' questa sottile linea di demarcazione a separare il pubblico-jazzista dalla
massa inconsapevole degli occasionali, disponibili per tutte le stagioni, sui quali
fa leva oggi il revisionismo per corrompere e sofisticare uno degli afrologici-attributi-essenziali
del jazz.
In questo un colpo ferale è inferto dalla tecnologia elettronico-consumistica nel
rendere banalmente grossolano il timbro jazz, privandolo di quel retrogusto essenziale
che, tanto per farci capire, in enologia è sacro e inviolabile.
L'africanità del timbro si coglie anche nell'individualità dell'inflessione del
jazzista, il suo infatti non è il timbro curato e studiato della musica occidentale:
"non lo si compra nel negozio assieme allo strumento." (Gunther Schuller).
Emblematico è il caso del chitarrista
Charlie Christian
le cui afrologiche qualità ritmiche e timbriche, a differenza di quelle indo-europee
di Django
Reinhardt, hanno fatto scuola non solo per la chitarra ma per tutti
gli strumenti!
Il non riuscire a cogliere le preziose sfumature espressive del timbro jazz e la
sua profonda spiritualità da parte di chi, formatosi al sound delle rock-bands-anni
'70 e già vulnerabile per una superficiale e
occasionale frequentazione del jazz, ha originato un equivoco che tuttora rimane
l'oggetto di una disputa difficilmente redimibile. La fusion è in realtà un genere
musicale diverso dal jazz, e il fatto che essa sia poi tendenzialmente consumistica
è un problema che non tocca il jazz, ma la fusion stessa! La chitarra jazz, benché
nata e sviluppatasi come espressione eminentemente artistica, si dirige oggi pericolosamente
verso lidi disimpegnati e consumistici. La chitarra jazz-contemporanea oscilla quindi,
con esiti eterogenei, tra la chitarra jazz-moderna e la chitarra-fusion. Questa
oscillazione la rende esposta ai peggiori parametri del post-modernismo, con le
sue ibidrazioni. Dato che l'estetica del jazz non ha mai avuto nulla a che vedere
con l'estetica dell' "orrido e del mirabolante" o del "magico incantatorio",
che felicemente caratterizzano la musica fusion, ne consegue che più la chitarra-jazz
contemporanea rimarrà ancorata alla tradizione moderna, maggiormente essa potrà
rimanere inscritta nel jazz, diversamente la sua identità risulterà più evanescente
e difficilmente catalogabile, ciò ovviamente non le impedirebbe di produrre opere
interessanti e artisticamente valide.
Emblematico e chiarificante può risultare il confronto tra due concezioni collocate
agli estremi: l'estetica della chitarra-cool da un lato, e il chitarrismo-fusion
dall'altro. Senza voler istituire sterili gerarchie si può, anzi si deve, nell'interesse
di entrambe le concezioni, contribuire ad enucleare essenziali differenze, tratti
peculiari, diversità di presupposti. La chitarra-cool di gran lunga si distanzia
non solo dalla chitarra-fusion ma anche dalla chitarra jazz post-modernista che
della Fusion mantiene l'indelebile impronta: introversa ed intimista la prima, estroversa
ed eclatante la seconda, la chitarra-cool rifugge l'ostentazione virtuosistica dell'esecuzione.
Essa trova la propria ragion d'essere nella spiritualità che sgorga da un timbro
plastico e magnetico, nella attitudine meditativa e assorta, nella riflessione introspettiva,
nella rilassatezza ritmica, nella profondità contenutistica e nel razionalismo-nobile
dove la ragione opera spoglia da artifici intellettualistici e gli affetti si manifestano
nella continua ricerca di una sempre più intima e ricca conoscenza della propria
personalità. Affetti non mortificati né repressi da un'ansiosa ricerca nella quale
gli aspetti più esterni e appariscenti abbiano un rilievo predominante ed esclusivo.
Essenziale nell'improvvisazione cool è la estroversione dei processi animici
interiori, la riproduzione musicale della tensione delle dinamiche affettive e dei
ragionamenti subliminali su di esse radicati. Mai, come per la chitarra Cool
(steinerianamente) la melodia è pensare, l'armonia è sentire, il ritmo è volere.
Come avviene in tutta l'arte-vera lo spirito umano, calato nella realtà sociale
storicamente determinata, ne rispecchia i vissuti esperienziali alienati,
li rielabora trasformandoli nella forma di figure estetiche e modelli culturali
consapevoli e rivelatori. Per la chitarra-cool risulta essenziale ricreare un clima
fatto di chiaro-scuri e una scala dimensionale attenta ai timbri e agli accenti
dai quali l'improvvisazione possa sgorgare spontaneamente in successioni "inaudite"
e "pregnanti" (alla Jimmy Raney!!). Ciò che importa è non l'ostentazione
di a-solo esemplari e mirabolanti, ma riuscire a toccare "quelle particolari
corde espressive", riuscire a "coglier la luna!". La chitarra-cool è
la quintessenza della modernità; la chitarra neo-classicista la deriva nel citazionismo;
la chitarra-postmodernista il ristagno intellettuale con il conseguente spasmodico
perseguimento dell'onnipotenza professionale, che finisce poi col sacrificare le
naturali tendenze di un umanità schietta e viva. L'artista-cool (il poeta della
chitarra-jazz) non è un musicista per tutte le stagioni, una piattaforma girevole
adattabile a tutti i contesti, i repertori e le formazioni, la storia del jazz lo
ha ampiamente dimostrato e non solo riguardo al Cool. Il superdotato George Benson
non superò, come si evince dall'unica incisione a disposizione, la prova del quintetto
di Miles Davis. La figlia di Renè Thomas, Florance, mi confidò che
Montgomery
preferì non ‘jammare' a fianco di suo padre perché la troppo vigorosa pennata di
quest'ultimo avrebbe sovrastato le risorse limitate di chi, per quanto virtuoso,
utilizza solo il pollice; così come
Jim Hall
ha esplicitamente dichiarato di non trovarsi a proprio agio sui tempi molto sostenuti.
Lee Konitz più di una volta si sfogò con me lamentandosi per l'accompagnamento
di varie sezioni ritmiche, italiane e non, che godevano di una fama quasi indistruttibile.
Quanti ragazzi prodigio o musicisti con una ineccepibile educazione musicale non
hanno poi dato alcun contributo artistico e culturale, mentre talenti artistici
autodidatti e musicalmente semi-analfabeti ci hanno regalato irripetibili capolavori?!
Varrebbe la pena di aprire sull'argomento un capitolo di aneddoti e testimonianze,
sempre che il jazzista-medio fosse disponibile a mostrare anche l'altra parte di
sé, cosa di cui dubito! Al di là dei miti di onnipotenza bisognerebbe riportare
le cose nella loro giusta e umana dimensione, ciò non potrebbe dare altro che un
contributo di saggezza, il musicista imparerebbe così a convivere con se stesso
e con gli altri più serenamente. In questo campo il ruolo della critica-musicale
risulta tanto più essenziale quanto più pubblico e musicisti dimostrano di stentare
a comprendere che il fatto che si spadroneggi egregiamente il dominio musicale,
che si utilizzino al massimo grado le possibilità dello strumento, o che si sia
improvvisatori brillanti e fantasiosi, non significa assolutamente l'aver toccato
la quintessenza dell'espressione artistico-culturale: ancora una volta il senso
comune si perde negli aspetti quantitativi e trascura o ignora l'aspetto qualitativo
dell'evento musicale, la dimensione-profondità. Vi è una quantità di musicisti eccezionali
che non è mai riuscita ad eguagliare altri musicisti dalle capacità strumentali
inferiori ma artisticamente enormemente superiori come Davis, Monk,
Chet Baker,
Jim Hall
e Franco
Cerri! Chi possiede quindi una tecnica strumentale superiore? Colui
che possiede una assoluta padronanza della forma musicale, della meccanica dello
strumento e della inflessione, così come scolasticamente prescritta, o colui che
riesce a far vibrare spontaneamente, e non retoricamente, le corde dell'espressione
con un inflessione personale e inusuale?
Per la chitarra-cool la sezione ritmica gioca una funzione peculiare, deve essere
innanzitutto una sezione ritmica-consapevole che ne condivida i presupposti
poetico-filosofici, che vibri sinergicamente e contrappunti il fluire del discorso
melodico cogliendo intuitivamente ogni minima accentazione ritmica e sfumatura dinamica.
Una sezione ritmica in grado di seguire e prevedere la durata e l'esito delle linee
melodiche, di fondere ritmo-armonico e melodia in un unico organismo, di assecondare
e tenere il passo col tempo e le accentazioni della melodia, non quindi "sgomitare"
e fare "sgambetti", sovrapporsi e interrompere (alla stregua dei conduttori
televisivi), un suonare contro che non ha nulla a che vedere con il
contrappuntare. Apparentemente questa concezione potrebbe indurre nell'errore
di considerare anonima, lineare e piana la batteria-cool, in realtà essa è invece
ricca di scomposizioni complesse e arditissime, ed il solo fatto che vengano eseguite
in una scala dimensionale contenuta non deve ingannare. Al Levitt e stato
un maestro in questa concezione troppo raffinata per poter fare oggi fare proseliti,
un altro esempio è il batterista Bill Goodwin. Lennie Tristano suonava
anche la batteria (non a caso sua figlia Carol è una batterista-jazz professionista)
e ha gettato le basi di una raffinatissima scuola di batteria oggi tanto ignorata
quanto osteggiata. Il fatto che Tristano si sia ritirato dalla scena del jazz in
polemica proprio con le sezioni ritmiche, la dice lunga sull'indirizzo che in seguito
il jazz avrebbe preso! Sarebbe necessario che il contesto ambientale e musicale
in cui si agisce recuperasse l'estetica-cool, ma oggi questo accade sempre meno.
Oggi ci si scontra quasi sempre con quella volgare mentalità performativo-spettacolare
rivolta prevalentemente a mostrare i muscoli e a compiacere un pubblico occasionale
piuttosto che ad esprimere qualcosa: le logiche del pensiero-unico prevalgono anche
nelle spontanee relazioni tra musicisti! Nel jazz poi oggi si riscontra il tentativo
di voler uniformare ad un unico parametro il criterio di giudizio sui singoli musicisti,
e ciò è particolarmente in uso tra i musicisti stessi. Una sindrome pervade silentemente
le coscienze: la Sindrome del Tempo! Una nevrosi che, diffusa sapientemente
nella comunità dei jazzisti, serve alla coalizione dei più accreditati e quotati
a tracciare una linea di confine per autotutelarsi dalle invasioni sempre in agguato.
Una coalizione di pretesi primi della classe detta legge riguardo ai criteri
di giudizio, ovviamente meramente quantitativi. Dietro la supponenza di chi si auto-elegge
a detentore della verità, a perito tecnico del tribunale della critica, i musicisti
vengono gerarchizzati tra "primi della classe" e non, e a ciò si accoda ovviamente
una pubblicistica tecnicamente disarmata e un pubblico spaesato. In questo contesto
opportunismo e gregarismo si rinforzano reciprocamente.
Tra le concezioni ritmiche
pro-pulsiva e depulsiva oggi, a discapito dello swing, è in gran voga quella de-pulsiva,
non a caso si tratta di una concezione metronomica nella quale, come nella catena
di montaggio, si è attentissimi ai tempi di produzione. Nessuna libertà
o licenza poetica è consentita, la camicia di forza è di rigore e buona parte di
grandi del jazz moderno (alla Tal Farlow o alla Barney Kessel)
verrebbe così esclusa. Si spiana così la strada al prototipo scimmietta-ammaestrata,
clonato e privo di originalità, consentendogli di prevalere in virtù delle sue affinità
elettive con le componenti più amorfe e quantitative della musica e realizzando,
infine, quella agognata rivalsa nei confronti della qualità a lui negata: una personale
cifra stilistica! Una cosa è eseguire grande jazz altra cosa inventare
grande jazz: i neo-classicisti eseguono grande jazz, i neo-modernisti
inventano grande jazz! Per tornare ad un esempio per chitarristi, Bireli Lagrene
è un neo-classicista, Christian Escoudè un neo-modernista. La differenza
consta nel fatto che dietro ogni stile individuale vi deve sempre sottostare una
ricerca compositiva nel linguaggio-jazz, ricerca finalizzata all'esecuzione e all'improvvisazione.
Ricerca poetica minimalista che, ancora oggi, dimostra di rimanere aperta a sempre
nuove soluzioni e possibilità e che fa del jazz un linguaggio vivo ed attuale. Questa
prerogativa essenziale è oggi disattesa perché, certi odierni pretesi jazzisti questo
semplice fatto preliminare o non lo hanno capito oppure, consapevoli di non avere
nulla da dire, vogliono solo emulare e ben eseguire senza neanche tentare di mettere
qualcosa di personale a livello di composizione e di elaborazione melodica, quindi
di fraseggio improvvisazionale! Nel postmoderno:
"...con il crollo dell'ideologia modernista dello stile-unico e inconfondibile
quanto le impronte digitali...i produttori di cultura non possono che rivolgersi
al passato: all'imitazione di stili morti...cioè il saccheggio indiscriminato di
tutti gli stili del passato...il primato crescente del ‘Neo' " (F. Jameson: "Postmodernismo" pag. 35, ed. Fazi),
e così proliferano i neo-coltraniani,
neo-evansiani, i neo-bensoniani, i neo-methiniani-scofieldiani, ecc. E non stupitevi
se tra questi ultimi vi inscriva anche i gettonatissimi Scofield e Metheny. Se il
fatto che il be-bop fosse separato dal dixieland e dallo swing da poco più di dieci
anni non impedì agli avanguardisti-snob di allora di tacciare questi ultimi stili
come ormai "superati", e quindi storicizzati, non si vede il motivo per il
quale oggi, che quasi quarant'anni (anni '70!)
ci separano dai ben congegnati e sovrastimati aspetti jazzistici degli stili di
Metheny e Scofield, non possano anch'essi considerarsi ampiamente storicizzati e
quindi classici del postmoderno. Metheny e Scofield si pongono quindi storicamente
sullo stesso piano (mantenendo le dovute distanze artistiche!) di
Jim Hall
e Jimmy Raney. Così come, ad esempio, lo stile di ‘Trane' non è oggi
meno storicizzato di quello di‘Pres'. Oltre a ciò bisogna tener conto che
nella teoria contemporanea postmoderna i fondamentali "modelli della profondità"
sono stati sostituiti dalla "...superfice o da più superfici (in questo senso
ciò che spesso viene chiamato intertestualità non riguarda più la profondità.)"
(Fredric Jameson, op. cit. pag. 29) se quindi nel Moderno "il soggetto è
alienato" (Jameson) e supera con l'arte l'alienazione (Maroty), nel post-moderno
"il soggetto frammentato" (Jameson) rischia pericolosamente di perdersi nella
"parodia dell'arte" (Perdetti, op. Cit. pag. 90).
Questo fenomeno risulta
più evidente comparando gli stili dei postmoderni con i grandi del jazz moderno.
Oggi i tempi sono favorevoli al modello ben confezionato da scuola di dizione-privo
di contenuti, che è il prodotto performativo (nel senso dell'efficienza della
prestazione!) che va per la maggiore! I luoghi ove si è tradizionalmente annidato
un pericolo revisionista per l'integrità del jazz, le zone sensibili, sono sempre
stati le grandi orchestre e in particolare i cantanti, tra questi ultimi, nonostante
Louis Armstrong
e
Chet Baker,
la retorica e il parossismo-narcisista hanno sempre pericolosamente allignato, ed
oggi sono in esponenziale incremento. Luoghi da sempre assiduamente frequentati
dei consumatori di jazz piccolo borghesi e incompetenti, coloro i quali, per intenderci
sanno tutto sulle date delle incisioni, le formazioni e le case editrici e poi non
sanno distinguere il battere dal levare, il minore dal maggiore e, quel che è peggio,
l'arte dallo spettacolo. Sono rari casi in cui un cantante riesca a rinunciare al
ruolo gerarchico di prima-donna, alla declamazione manieristica del testo
e alla recitazione performativa scegliendo di equiparare invece, pariteticamente,
la voce alla stregua degli altri strumenti musicali e improvvisando estemporaneamente
come fa Chet
Baker nei trii cameristici con Niels Pedersen e Doug Raney
(ed. Steeplechase),
senza fronzoli né moine o altre inutili decorazioni. Oggi si passa sopra
i contenuti col rullo compressore dell'autocompiacimento per una esecuzione motivata
dal solo narcisismo del professionista competitivo che solo vuole stupire nella
sfilata di moda dell'ufficialmente riconosciuto, e questo è l'unico messaggio che
si finisce col comunicare. In questo circolo vizioso l'esasperata professionalità
e l'ostentazione del virtuosismo finiscono col giocare-contro la significanza artistica
e fanno rimpiangere i bei tempi provinciali in cui si riusciva sempre, tra ingenuità
e cedimenti, a compenetrare e trasmettere il più genuino spirito del jazz! Nelle
"nuove tendenze" gli influssi determinatori non provengono più dal "ghetto"
della provincia ma, con buona pace del mito giovanilistico dell' "american-garage",
direttamente dalla Banca Mondiale! Anche per quanto riguarda la chitarra-jazz in
senso stretto gli influssi della concezione postmoderna sono oggi vivi e presenti
nel senso comune dei chitarristi, vi sono strumentisti (emblematici sono Benson
e Metheny) la cui poderosa tecnica del plettro permette di esplicitare un fraseggio
ritmicamente energico e travolgente, incisivo, frastagliato e ricco di punteggiature,
oggi si tende ad eleggere questa "scuola di pensiero" a modello assoluto
quando invece la storia del jazz dimostra l'esatto contrario. Nella storia del jazz
vi sono infatti ampie dimostrazioni di concezioni ritmiche opposte, meno aggressive
ed incisive, che hanno prodotto una musica estremamente più discorsiva profonda
e significativa. Per nulla sanguigna e mozzafiato, ma rilassata e intellettuale
nell'articolarsi razionale ed interlocutorio di un discorso costruito passo per
passo e con pause di riflessione.
Anche e soprattutto nella concezione dei Bauer,
degli Zoller e dei Raney si esplica il più intimo ed essenziale atteggiamento
animico del vero jazzista che non vuole celare dietro il paravento di una ostentata
perfezione esecutiva le differenti fasi dell'improvvisazione, fatte di alti e bassi
in uno sviluppo discorsivo nel quale è centrale "il processo e non il prodotto".
Ascoltate lo "Stella By Starlight" di
Attila Zoller con
Martial Solal
in "Zo Ko So" della SABA 15061, o Billy Bauer in tutta la discografia
Tristaniana, o Jimmy Raney con Teddy Charles in Ezz-Thetick
della Prestige NJ 8295 e capirete cosa intendo! La cultura post-modernista
emargina chi riesce a realizzare poetiche pregnanti e significative perché controcorrente
e quindi culturalmente scomodo. Il vero-jazz richiede una attenzione minimalista
e dialettica in grado di captare le qualità essenziali, capacità che solo poche
sensibilità riescono a raggiungere, la massa si ferma all'ascolto all'ingrosso,
incapace di oltrepassare l'apparenza della confezione esteriore. E nella massa includo
paradossalmente i musicisti, perché il pubblico molto spesso, anche se solo intuitivamente,
riesce a cogliere nel vero-improvvisatore quella intenzionalità che il professionista
oggi invece prevarica con supponenza. L'estetica-fusion, se applicata alla chitarra-cool,
sarebbe letale per un patrimonio insostituibile in termini di approccio alla musica,
di contenuti espressivi e di spiritualità. Nella chitarra-cool questo depauperamento
avverrebbe sia se si attuasse l'ibridazione con il rock, sia nel caso si perseverasse
col minimizzare, o peggio oscurare, le essenziali differenze di presupposti! Un
patrimonio, quello della chitarra-cool, che dagli albori del bop, ha dato un contributo
determinante al caldo e sobrio colore timbrico del jazz moderno. Falsificarlo equivarrebbe
alla de-costruzione dei suoni naturali ed aperti, organologici e umanistici (in
questo senso afrologici, che è cosa diversa da africani!), alla Billy Bauer
e Johnny Smith,
Jim Hall e Jimmy Raney, Attila Zoller e Jimmy Gourley,
Mundell Low e Barry Galbraith, Joe Puma e Chuck Wayne, Dennis Budimir
e Dave Koonse, Derek Phillips e Dave Cliff, Doug Raney e Joe Cohn,
Sal Salvador, Sacha Distel, Rune Gustavson, Ed Bickert e Louis Stewart, Mike Gari,
Colin Oxley e tanti altri misconosciuti coolsters modernisti e neo-modernisti.
Un discorso a parte merita il geniale ed inesauribile Renè Thomas, inizialmente
essenzialmente Cool in quanto discepolo di Jimmy Raney, ma successivamente
configuratosi come torrenziale artista di be-bop. Premettendo che con "stile-cool"
non si intende esclusivamente la scuola di Lennie Tristano, si noti come,
pur essendo i su-citati chitarristi essenzialmente artisti di cool-jazz, la loro
produzione discografica, salvo pochi casi, solo episodicamente rende giustizia alla
loro più intima connotazione poetica.
Per fare maggiore chiarezza riterrei opportuno
citare alcuni importanti chitarristi jazz che nulla hanno a che vedere con lo stile Cool: Barney Kessel, Tal Farlow, Herb Ellis, Joe Pass,
Wes Montgomery, Grant Green, Kenny Burrell,
Franco Cerri
e Sandro Gibellini, Cal Collins, Pat Martino, George Benson, Emily Remler, Christian Escoudè, Bireli Lagrene, Martin Taylor, Russel Malone,
Garrison Fewell, ecc. tra i quali si trovano modernisti di prima
generazione, attuali e originali neo-modernisti e i neo-classicisti modernisti,
ovvero i cloni del moderno. Un'altra precisazione è poi necessaria, vi sono i chitarristi
che hanno direttamente contribuito allo stile-cool ed altri che via hanno contribuito
indirettamente con un apporto in termini di fraseggio che è stato necessario reintegrare
nell'estetica cool. Il caso poi delle incisioni (commerciali) dell'ultimo
Wes Montgomery e specialmente di George Benson, è emblematico di come
la melodia, in ultima analisi, costituisca effettivamente la "variabile strategica"
del jazz. Variabile "autonomizzata" che riesce a "resistere"
e a "sopravvivere" anche quando inserita in contesti di sdolcinata musica-Leggera
o di anonimo rhythm & blues. Ciò nonostante non credo proprio che suddette produzioni
possano venire inscritte nel jazz. Ciò dimostra che, per quanto la melodia si sia
strategicamente autonomizzata, sia da sola insufficiente alla produzione di vero
jazz e quindi, come abbiamo detto, quanto il contesto sia dialetticamente essenziale!
Vi sono poi postmodernisti-borderline in diverse gradazioni con il
pop e il rock o quant'altro: Larry Coryell, John Mclaughlin,
John Abercrombie, Philip Catherine,
John Scofield,
Mike Stern,
Pat Metheny,
Sheryl Bailey e Jack Wilkins, John Stowell,
Bebo Ferra,
Riccardo Bianchi e Roberto Cecchetto, chitarristi straordinari ai
quali si aggiungono ogni giorno nuove e agguerrite leve di postmodernisti e (ultima
novità!) di neo-classicisti del postmoderno, categoria estetica sulla
quale bisognerebbe oggi riflettere più approfonditamente. La differenza tra un
postmodernista-storicizzato e un neo-classicista del post moderno
è la stessa che intercorre tra Scofield e Metheny e i loro imitatori: i primi sono
degli ibridi-originali i secondi dei cloni, ciò non toglie che oggi
possano sempre emergere dei post-modernisti originali: i neo-postmodernisti, ad
esempio Rosenwinkel e Adam Rogers. Pur operando queste distinzioni,
si deve tuttavia rimanere consapevoli di quanto in generale le reciproche influenze
possano aver agito trasversalmente, ma questa considerazione non è una ragion sufficiente
per rinunciare alle classificazioni stilistiche: una cosa è riscontrare come il
jazz si è di per sé delineato, altra cosa è cercare di risalire alle occasioni mancate
che sarebbero potute scaturire dalle potenzialità incompiute!
Quest'ultima ricerca
risulterebbe sicuramente più pregnante di quella che pretende di "ri-narrare"
la storia del jazz! Il chitarrista-cool sconta il suo mancato riconoscimento come
conseguenza della incapacità di rappresentarsi all'esterno in quanto corrente estetica,
incapacità derivante dalla inconsapevolezza di sé e della propria musica: a questa
regola hanno fatto eccezione Jimmy Raney, Renè Thomas e Jimmy Gourley
i quali, per un breve periodo, manifestarono la loro comune appartenenza ad una
corrente stilistica addirittura vestendosi in modo quasi sacerdotale, in uno stile
vagamente e sottilmente "clergyman". Troppo spesso in balia delle tendenze
dominanti, il contributo del chitarrista cool, spesso limitato a poche stagioni,
si è disperso nei tentativi, tipici del jazzista, di auto affermarsi nella professione
o nella carriera; di rendersi visibile costi quello che costi; nell'ansia della
prestazione di dover essere sempre, comunque e acriticamente, presente nelle ultime
tendenze, qualsiasi esse siano. Troppo stesso si sono sprecate risorse, preziose
intuizioni sono rimaste irrealizzate, e questa auto-svalorizzazione ha spesso danneggiato,
oltre che la dignità dell'artista, soprattutto la musica e la chitarra. Troppo spesso
il jazzista si è rivelato il peggior nemico di sé stesso ed il chitarrista-cool
si è esposto alla volgarità delle peggiori influenze, non sapendo tutelare la sua
musica della quale egli stesso per primo è spesso inconsapevole! Lo spontaneo sviluppo
stilistico della chitarra-jazz aveva preso negli anni 60/70
un indirizzo nel quale gli artisti guida erano a mio avviso da individuare in Attila Zoller e nel primo
James Ulmer (con
Ornette
Coleman) per l'improvvisazione atonale ("The Horizon Beyond"
Act 9211-2 / Berlin-Germany, 1965 - Mercury
138145) in Derek Bailey per le sue esplorazioni dello spettro sonoro organologico;
in Ed Bickert e Dennis Budimir per l'improvvisazione tonale (Edizioni Rivelation).
Un indirizzo estetico che è stato prevaricato e travolto dalle attuali tendenze
impostesi non per forza propria ma perché pesantemente promosse dall'industria musicale.
Per quanto si riscontrino oggi generazioni di chitarristi-jazz ricchi di talento,
professionalità, competenza e brillante fantasia, ciò non è sufficiente in assenza
di una più profonda consapevolezza artistica e culturale.
Quando ci si uniforma
alle frasi ad effetto, eclatanti, inusuali e che vogliono stupire, alla frase imprevista
che ricorre agli aspetti meccanici dell'artigianato musicale, viene da chiedersi
se sia proprio questo il criterio artistico a cui ispirasi: un fraseggio che vuole
solo emozionare senza esprimere sentimenti! Spesso il rampantismo dei chitarristi
avanguardisti-regrediti, nello spasmodico tentativo di affermare la propria
supremazia di gruppo, il proprio protagonismo frustrato e annullato da una scena
musicale massificata, si spinge sino a misconoscere le opere del passato cercando
di sminuirne i meriti e ironizzando sulla debolezza (solo apparente!) di
un non-ostentato virtuosismo! Irridendo lo stile "alla vecchia" si tradisce
una mal celata tracotanza e l'ignoranza sia del passato che del presente: uno dei
chitarristi oggi eletti ad emblema di uno status-simbol avanguardista,
Mick Goodrick, smentisce la pratica e la teoria dei suoi odierni epigoni scrivendo
quanto segue: "Di solito, quando pensiamo a chitarristi aventi una ‘grande tecnica',
il nostro giudizio dipende da: quanto suonano veloci; come suonano puliti [precisi].
Ma la tecnica ha a che fare con ben più altre questioni. Include anche quando suonano
lenti; come suonano sporchi [imprecisi]; ed ogni altra cosa che sta in mezzo agli
estremi. La tecnica è tocco. In più è anche movimento. La tecnica è il punto dove
ciò che sta dentro di voi [intenzioni, pensieri, sentimenti, etc.] incontra lo strumento
e si trasforma in ciò che sta fuori di voi[suono, musica]" (M. Goodrick "The advancing
guitarist" versione italiana pag. 105 Carish).
Se la tecnica è il tocco i segreti
dell'incatenatura della tavola armonica, la qualità e la stagionatura del legno,
unitamente alla benché minima inflessione e sfumatura del concertista, costituiscono
il requisito strategico e inalienabile di quella concezione, "organologico umanistica",
che pone al centro la sinergia tra lo strumento di liuteria e l'intervento umano.
Il non riuscire a cogliere le preziose sfumature espressive del timbro jazz, e la
sua profonda spiritualità, da parte di chi, formatosi al sound delle rock-bands-anni
'70 e già vulnerabile per una superficiale e
occasionale frequentazione del jazz, ha originato un equivoco che tuttora rimane
l'oggetto di una disputa difficilmente redimibile. Dopo anni e anni in cui sono
state scritte pagine e pagine di recensioni sul suono naturale e aperto delle trombe
di Louis Armstrong
e Miles Davis,
sul vibrato inimitabile di Coleman Hawkins e di Ben Webster, sugli impasti
sonori dell'orchestra di Ellington e le ensemble di Mingus, sulla convergenza stilistica
(hard-bop) tra "l'attacco del colpo-di lingua" di Miles Davis
alla tromba e "l'attacco" carnale e desublimato del pollice di Wes Montgomery
sulle corde della chitarra; sullo spettro sonoro dell' "attacco di plettro"
di Jim Hall;
sulle diverse prerogative che intercorrono tra la chitarra-a plettro con corde di
metallo di Charlie
Christian, discretamente-amplificata, e la chitarra-a pizzico con le
corde di nylon di Charlie Byrd; sul contributo del liutaio italiano Maccaferri al
suono evocativo della chitarra manuche di
Django
Reinhardt; sulle essenziali differenze tra il timbro solare di
Stan Getz e quello lunare di
Sonny Rollins;
per non parlare poi di Ornette e di Coltrane, di Monk e di
Bill Evans
e via dicendo. Nessuno, dico nessuno (con l'autorevole eccezione di Arrigo Polillo!),
ha protestato e ha testimoniato-contro per l'invasione dell'orda di chitarristi
super-effettati che ha letteralmente massacrato il jazz mistificandone il suono
e continua a farlo impunemente! Equipaggiatura effettistica che non viene usata
con quella discrezione ed equilibrio compatibili con l'integrità del tocco, ma di
cui si abusa creando sonorità fittizie, stoppose, ovattate, piatte e uniformi e
prive di chiaroscuri, con un uso del riverbero che enfatizza il risultato così come
una diva del cinema potrebbe usare il fondo tinta per truccarsi. Oppure timbriche
offuscate da distorsioni ruvide, fastidiosamente acide, fredde e prive di profondità.
Francamente non si capisce come mai il vituperato sordo tonfo del basso elettrico,
a differenza del caldo e palpitante respiro del contrabbasso, sia sempre stato considerato
unanimemente estraneo al jazz, e lo stesso criterio estetico non venga poi applicato
alla chitarra elettrica "super-effettata". Dove è finito oggi il ruolo della
critica musicale? Dove è finito il prezioso minimalismo dei musicologi? Perché le
poche voci che dissentono vengono aggredite con volgare ignoranza?! Chi snobba la
tradizione per "l'idolatria del nuovo in quanto nuovo" trascura il fatto
che, come dice il prof. Zecchi docente universitario di estetica: "Il nuovo può
anche essere orribile, indecente, può essere fatto da un accozzaglia di babbei!"
(TV-La7 - "Omnibus" del 23-02-08 - ore 8,30).
Quando in arte protagonismo e rampantismo prevaricano i più basilari fondamenti
deontologici, quando lo spirito competitivo incita alla rincorsa dell'ufficialmente
riconosciuto, allora ci si contendono stili e formule di successo per impressionare
il pubblico, per accreditarsi presso gli altri strumentisti ma, e soprattutto, per…depauperare
l'Io degli altri chitarristi !
Si potrebbe aprire un capitolo di aneddoti e situazioni ricorrenti sull' "Edipo
per Mamma-Chitarra" (...complesso dal quale, beninteso, neanche chi scrive si ritiene
immune!) e sul vario bestiario delle "compensazioni-narcisistiche" !
Pur consci di non poter pretendere dalla musica quello che la musica non può dare;
consapevoli dell'odierno generale riflusso-creativo e del fatto che il jazz, non
essendo più avanguardia, ha perso il suo originale sex-appeal, non si può
tuttavia fingere di non vedere come oggi, accanto ad un altissimo livello artigianal-musicale,
si riscontri una uniformità stilistica che non era riscontrabile tra i chitarristi
dalla prima generazione. Artisti che si differenziavano tra loro in quanto inimitabili
"universi poetici" a sé stanti, la cui principale esigenza era quella di
riuscire ad esplicare in musica il proprio modo di sentire e di dire. Basti pensare
agli opposti caratteri ritmici, timbrici e d'inflessione che intercorrevano ad esempio
tra Tal Farlow e
Jim Hall,
tra Raney e Kessel, tra Zoller e Grant Green, tra Pass
e Montgomery, e come
invece i postmoderni si dibattano, biunivocamente e sterilmente, prigionieri degli
unici due stili ufficialmente riconosciuti e sponsorizzati: Scofield e Metheny.
Nella prima generazione si trattava di una concezione melodico-compositiva che si
svolgeva sulla lunghezza d'onda di quella ispirazione spirituale, oggi completamente
violentata e castrata, che solo può nascere dall'esplicazione del sé, come sono
appunto riusciti a fare
Jim Hall
e Jimmy Raney, e non quella fredda e ingegnosa costruzione intellettuale
fatta a tavolino frutto di quell'artigianato musicale al servizio del più cinico
e spoetizzato disincanto che caretterizza la contemporaneità. Espedienti artigianali
che vengono oggi venduti in un supermercato della musica nel quale tutti indiscriminatamente,
siano essi artisti o meri arrivisti, competenti o incompetenti, sono merce e consumatori.
Tutto ciò non fa che degradare la situazione generale, in una totale deriva nell'indeterminato
e nello svilimento del pensiero unico, nella più completa abdicazione di uno spirito
critico ormai anestetizzato e non più in grado di distinguere la spiritualità dell'artista
dal mordace calcolo del parvenu. Le più stantie ed abusate formulette di
stampo bluesy o rockeggianti, richiamo della foresta per la tribù degli stolti,
quando anacronisticamente inserite nel linguaggio jazz vengono accolte con conformistico
entusiasmo, mentre le più significative, colte e raffinate soluzioni del vero jazz
passano assolutamante inosservate da parte di chi, a buon mercato, si auto-referenzia
come esperto e si contrappone, ottusamente e con arroganza, alle più ragionevoli
e ovvie osservazioni critiche. Chi si gratifica e si accontenta dei meri prodotti
contemporanei non ha mai conosciuto la vera arte! E mentre ciò avviene i musicisti,
in un generale fermento, si rincorrono nell'adeguarsi ai modelli "vincenti":
se sei un prodotto buono per la vendita e un uomo per tutte le stagioni il successo
è assicurato (…questa è almeno la lusinga!). Sono questi i valori che hanno
fatto grandi i René Thomas e i Wes Montgomery?
Con le potenzialità
della odierna tecnologia audio si può poi attuare una pericolosa manipolazione revisionistica
del suono. Così come è avvenuto nel film "Bird", con la sovrapposizione del
sax di Parker ad una nuova sezione ritmica avulsa dal clima espressivo originale,
si potrebbero produrre edizioni postume di takes inediti, "salvati" con timbriche
ritoccate, finalizzate ad avvallare l'estetica virtuale ed incantatoria imposta
oggi. "Sia chiaro: l'appassionato di jazz - se è veramente tale - non dovrebbe
dare nessunissima importanza all'alta fedeltà: un opera d'arte o un prezioso documento
storico, anche se sono malridotti, vanno fruiti così come sono. Nessuno, crediamo,
vorrà buttare nella pattumiera la Venere di Milo." (Marcello Piras "Musica
Jazz" Ag. Set. 1988 – pag. 70). Revisionismo
del jazz quindi non solo nella narrazione, ma nella musica stessa. Troppo spesso
poi ci si imbatte in pseudo-jazz sacrificato sull'altare di una malintesa "performance",
e ridotto a colonna sonora della messa in scena del corpo fisico dei musicisti
(G. Sibilla: "I linguaggi della musica Pop" Bompiani,
2003), spesso con vere e proprie cadute nella goliardia musicale.
Allestimento che oggi, rimandando alle categorie della civetteria, dell'effimero,
del velleitario, utilizza sia la gestualità che una vera e propria "lingua ‘vestiaria'
[...] la cui variazione determina un cambiamento del senso (portare un berretto
o un cappello duro non ha lo stesso senso)" (R. Barthes "Elementi di semiologia"
pag. 28 - Einaudi); "Prendi una nuova, o apparentemente nuova corrente, scegli alcune
(non troppe!) personalità originali, falle pettinare in modo bizzarro, insegna loro
degli atteggiamenti particolari, falle intervistare, fotografare, reclamizzare sulla
stampa...con dischi e edizioni musicali, ecc.: il procedimento è noto. Gli americani
lo chiamano plugging (inculcare qualcosa nell'opinione pubblica)..."(Jànos Maròty:
" Musica e Uomo" Le Sfere p. 246 ed. 1987).
In nome della performance, si apre oggi la strada a quelle che Bruno Pedretti, nel
suo recente libro "La forma dell'incompiuto" (pag. 90 - Utet), ha felicemente
definito come "Le parodie del mondo della finzione contemporaneo che, simili
al matto che crede di essere Napoleone solo
perchè ne indossa lo sesso tipo di cappello, si crede un'opera d'arte solo perchè
se lo è messo in testa!"", ovvero tutto ciò che altrove è stato definito
"ciarpame postmodernista.
Impatto de-costruttivo tipico di una concezione performativa spettacolare e edonistica,
a volte demenziale (alcuni strumentisti si presentano sul palco in camice bianco![?]),
che spesso controbilancia e compensa un accademismo decadente ed austero. Ma nella
storia umana non vi è nulla di nuovo sotto il sole, come dice il prof. Paolo Zenoni
a proposito del teatro dei greci: "Man mano che i contenuti perdono di spessore
l'attenzione del pubblico si sposta sugli aspetti più scenografici" (P. Zenoni "Rapporto
tra spettacolo e territorio" Uninettuno, Rai-2: 27 – 2 -
2008, ore: 5). La carenza di "trasmissione di grandi valori"
trasformò progressivamente il teatro dei romani in "spettacolo circense",
sino a giungere alle pubbliche stragi dei cristiani nel colosseo: anche quella
era performance! L'arte-performativa è sempre di più l'ideologia estetica
del tardo-capitalismo. La performance nel jazz è un aspetto, per quanto indissolubile,
pur sempre immanente e collaterale, essa consegue alla estemporaneità dell'improvvisazione,
una spontanea riverberazione che non può essere determinata artificiosamente senza
essere privata della sua stessa peculiarità performativa: l'autenticità di una sorta
di teatro-vivo! Oggi il sentimento, ridotto a retorico sentimentalismo, sacrifica
la più autentica espressione. Anche da questo punto di vista i jazzisti più consapevoli
si pongono con l'autenticità dell'opera-vera che nel jazz è tutt'altro che un mito,
e per rendersene conto basta aver partecipato anche solo una volta ad un concerto
live del pianista
Bill Evans.
Autenticità lontana sia dal manierismo in doppio-petto del neoclassicismo che dal
divismo da pop-stars della fusion. Non a caso, oggi così in voga, questa concezione
performativa è diametralmente opposta all'improvvisazione, la quale: "...implica
in genere una concezione dell'evento musicale agli antipodi dello spettacolo e più
vicina invece al rito religioso in senso lato, dove la partecipazione compatta della
collettività ad un medesimo ideale etico-musicale garantisce la felice fusione delle
singole personalità componenti il gruppo" (Fubini: op.cit. pag. 94).
Se poi fosse anche vero il mito ecumenista di una nuova sintesi storica tra Jazz,
Classica e Musiche Pop, i cui prodròmi, sottoposti al vaglio della critica, lasciano
perlomeno perplessi, questa decostruzione-ibridazione potrebbe essere definita in
tutti i modi tranne che Jazz.
Ciarpame post-modernista? "L'ascoltatore regredito minimalizza le distinzioni.
Parker e i Beatles non si possono mettere insieme e, come ha detto Keith Jarret,
‘Mischiare classico e jazz sarebbe letale per il jazz! ' " (Davide Sparti:
"Suoni inauditi"). L'estetica di Parker e quella dei Beatles, se e per quanto
possano avere pari dignità, sono estetiche tra loro inconciliabili perché portatrici
di contenuti tra loro inconciliabili, non è possibile una sintesi, ma solo il reciproco
annullamento (né carne né pesce) o il prevalere dell'una a discapito dell'altra,
così come storicamente è avvenuto, ad esempio, da parte del be-pop nei confronti
degli Standards nord-americani in quel processo di metamorfosi che si chiama
riappropriazione. Il vero jazzista è in grado di compiere questa ri-appropriazione
(nel conflitto tra opposti antagonismi: "Il pesce grande mangia quello piccolo"),
ma quanti altri tentativi oggi rimangono né carne-né pesce?! Questo fenomeno
avviene sempre in presenza di quelle forme di eclettismo che, cercando velleitariamente
di sintetizzare verità tra loro antagonistiche: o una divora l'altra, oppure entrambe
finiscono col perdere senso e identità rimanendo sterilmente compresenti…"Perché
se si parla di jazz, si parla di un linguaggio che ha una sua peculiare specificità
(e non mi si dica che è cosa nuova: molto più in piccolo, provate a sentire come
Carlos Kleiber pronuncia dirigendo la musica di Johann Strauss e provate a paragonarlo,
che so, a Muti...,tanto per fare un esempio ovvio), soprattutto una specificità
culturale di derivazione fondamentalmente etnica. E ciò comporta delle regole linguistiche
precise, questioni di grammatica e vocabolario. Altrimenti, per conoscere le lingue
basterebbe saper parlare, e non è così..." (Gianni Gualberto). All'emergere
di nuovi e personali artisti di jazz già da anni non corrisponde più, come una volta,
la nascita di nuovi stili. I più noti musicisti oggi di punta, sia di vecchia che
di nuova generazione, sono tutti riconducibili al jazz-moderno e ai suoi stili,
anche quando si siano aggiornati alcuni attributi non-essenziali, l'essenza della
musica rimane quella di sempre. Negli Stati Uniti è avvenuto un dibattito-scontro
tra i Neo-classicisti del jazz e i sostenitori della Fusion, dibattito del quale
nel nostro paese sono giunti soltanto gli echi. Così affermava Miles Davis
(Alton, 26 maggio 1926 – Santa Monica, 28 settembre 1991):
"Un sacco di vecchi musicisti sono pigri bastardi, fanno resistenza al
cambiamento e si attaccano alla vecchia maniera perché sono troppo pigri per tentare
qualcosa di diverso...divengono come pezzi da museo...continuando a suonare quella
vecchia stanca merda." ("Il jazz tra passato e futuro" a cura di Maurizio Franco,
Quaderni di Musica e Realtà – pag. 16 [6] - Lim ed. 1995
- 2001). [grassetto nostro].
Chi se la sentirebbe di definire, ad esempio, Lester Young
"vecchia stanca merda" ? Ebbene, la…resistenza
a volte può essere un grande valore! Wynton Marsalis invece era su posizioni
opposte a quelle di Davis: "...sebbene possa aver prodotto buona musica, lo sforzo
della fusion mi sembra definitivamente finito e fu in qualche modo persino un errore...ci
possono essere bellissime case in una strada senza uscita" (M. Franco: Op. Cit.
pag. 15), e ancora: "Non penso che la musica sia progredita negli anni
'70. Penso che si sia persa. Tutti cercavano
di diventare delle pop stars, ed imitavano gente che si pensava le stessero imitando...Quello
che dobbiamo fare ora è reclamare[...]" (M. Franco op. cit. - p. 15 [6] [Mandel
18]).
Il seguente è il giudizio del musicista ed intellettuale francese Hugues Dufourt:
"In musica, come negli altri campi, il decennio degli anni
'70 è segnato dalla stessa indifferenza per
le categorie estetiche e dalla analoga rinuncia alle ambizioni universali della
storia. Il transitorio, l 'effimero, l'accidentale diventano valori dominanti."
(Hugues Dufourt: "Musica, Potere, Scrittura" Le Sfere pag. 339 ed.
1997, BMG-Ricordi). Gli anni settanta quindi
potrebbero corrispondere a quei periodi storici di riflusso così ben descritti da
Schelling: "Nelle epoche di grande fioritura artistica...le grandi opere sorgono
e maturano l'una accanto all'altra quasi nello stesso tempo, e quasi come ad opera
di un afflato comune...allorché una siffatta epoca felicemente e puramente produttiva
è trascorsa, subentra la riflessione e con essa l'universale scissione: ciò che
là era spirito vivente, diventa qui tradizione" "...un'epoca nella quale gli idoli
più venerati sono tutto ciò che è frivolo, che titilla i sensi o che alla nobiltà
mescola la bassezza" "dagli artisti di indole propriamente pratica di un'epoca siffatta
non è perciò possibile, fatte poche eccezioni, saper nulla dell'essenza dell'arte
perché generalmente fa loro difetto l'idea dell'arte e della bellezza". (Friedrich
Wilhelm Joseph Schelling "Filosofia dell'Arte" [1802] pag. 67- 68, Fabbri
Editori).
05/04/2017 | LEZIONI (chitarra): (B. Patterson, T. De Caprio, M. Ariodante, G. Continenza, G. Continenza, G. Fewell, N. Di Battista, A. Ongarello, D. Comerio, A. Tarantino, S. Khan, A. Bonardi, M. Falcone, A. D'Auria) |
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COMMENTI | Inserito il 22/12/2010 alle 13.04.40 da "ropie" Commento: mai ascoltato marc ducret? od il vituperabile tonfo sordo del basso elettrico di stomu takeishi, giusto per far due nomi? | | Inserito il 18/1/2011 alle 2.10.54 da "postmaster" Commento: Ciao Giovanni , sono d'accordo con tutto quello che hai detto. Sacrosante parole !!!! Complimenti per come ti esprimi nel dirle. " è tutto davvero chiaro per me " Gabriele Falchieri. Viva la vera chitarra jazz !!! | |
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Data pubblicazione: 05/12/2010
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