L'osservatore attento alla corrente pubblicistica sul jazz, leggendo articoli
e recensioni (di taglio sempre più spesso musicologico), o partecipando a
conferenze e dibattiti, non può fare a meno di appurare con inquietudine il suo
frequente allinearsi a quella ben nota critica musicale predisposta a compiacere
sia l'industria musicale ["...servizio dell'industria discografica, lubrificando
il desiderio di acquisizione di prodotti" (pag. 199) "...uno spauracchio, le case
discografiche" (pag. 208 - 209) (Gianni Sibilla:"I linguaggi della musica pop" ed.
Bompiani)] che il potere politico "...le pressioni strutturali si esercitano
eminentemente attraverso il mercato dominato dal grande capitale...le ideologie
estetiche elaborate dai servi culturali del potere nei seggi istituzionalizzati
della critica..." (Luciano Cavalli op. cit. pag. 92). Nell'assecondare il monopolio
politico del jazz certa attuale pseudo-musicologia finisce con l'assumere quella
"colorazione di materialismo volgare" dalla quale si distanzia Nattiez
trasformandosi così, pericolosamente, in qualcosa di analogo ad una indagine poliziesca.
Con questa provocatoria affermazione nulla si vuol togliere all'efficacia delle
moderne indagini di polizia, l'analogia consisterebbe più che altro nel voler trattare
il jazz alla stregua di una specie di inquisito da perseguitare, colpevole di essersi
da sempre millantato ed auto referenziato come diverso e migliore di quanto in realtà
sia. Questa pericolosa inclinazione può portare a voler dimostrare acrobaticamente
l'esatto contrario della verità storica, e per far ciò non potrebbe esservi strumento
migliore che l'empirismo volgare.
L'opzione di spiegare il jazz e l'improvvisazione
basandosi eccessivamente sugli aspetti quantitativi e su dati empirici avulsi dal
contesto è, già di per sé, insufficiente e parziale "E' illusorio stabilire verità
assolute in modo meccanico...anche in matematica non tutto il vero è dimostrato
con metodi automatici" (Giuliano Spirito). Nel volersi affidare a storiografie,
biografie, documentazioni archivistiche e dati empirici, come partiture o registrazioni
fonografiche, suddetta pseudo-musicologia finisce col sommergere i fattori con i
fatti. Essa, invece di avvicinarsi al suo obbiettivo se ne allontana, naufragando
nel nomadismo, nel relativismo, nel soggettivismo, nello scientismo, tutte derive
che trovano il loro epilogo nel revisionismo storico. Ora non credo proprio che
la vera-musicologia e la semiologia possano essere accusate di empirismo, anche
perché le analisi dialettiche di Nattiez e di Umberto Eco stanno lì
a dimostrare il contrario. Ciò non toglie che, per lo meno oggi, la corrente musicologia-jazz
faccia eccezione. Ad esempio quando l'oggetto dell'osservazione musicologica sono
i processi improvvisativi del jazz, si deve necessariamente tener conto anche di
altre variabili che finiscono col trascendere la testimonianza empirica del supporto
audio-tattile o la sua analisi meramente quantitativa. "Per poter stabilire se
un certo tratto è universale, bisogna dimostrare che si può incontrare effettivamente
ovunque o che non risente di contro-esempi. Finché questa dimostrazione non viene
fatta, i tratti devono essere considerati ipoteticamente universali..." (Nattiez,
op. cit. pag. 49). In altre parole, che a volte Parker nei vari takes
eseguiti in sala d'incisione riproponesse sempre lo stesso assolo, non dimostra
assolutamente che l'improvvisazione sia simulazione. Un artista innovatore come
Parker, nella fase della creazione di un nuovo linguaggio musicale, si preoccupava
di poter codificare su disco le ultime acquisizioni della sua ricerca linguistica.
Acquisizioni avvenute sulla lunghezza d'onda della forza propulsiva dell'improvvisazione.
Il supporto audio-tattile veniva quindi utilizzato come strumento di conservazione
non tanto di una tecnica improvvisativa, quanto dei suoi risultati sul piano
dell'innovazione di un sistema di fraseggio determinato dall'improvvisazione
e finalizzato all'improvvisazione! E ciò è molto di più di un ipotesi perché attuato
e dimostrato da tutti quei jazzisti (quelli "veri") effettivamente impegnati
in una autonoma ricerca linguistica ed espressiva, e non solo preoccupati di ostentare
un pedigree stilistico, o peggio una immeritata appartenenza araldica (...i "neo"
di tutti gli stili individuali!).
L'abuso dell' empirismo in musicologia fa allontanare, per assuefazione,
da quelle che in filosofia si chiamano "verità immediate evidenti". Verità
che si colgono intuitivamente nella fruizione musicale e si razionalizzano nell'esperienza
musicale. Indagine musicologica che rischia di perdersi in interventi estenuanti,
sovraccarichi di date, discografie, citazioni e verbalismo accademico, con risultati
spesso vaghi e indeterminati e conclusioni retoriche che perdono di vista i contenuti
semantico-culturali, ovvero quella intenzionalità "petardo epistemologico in
musicologia" [Nattiez] che prima di tutto definisce l'essenza e la ragion d'essere
di una musica. "Intenzionalità" quindi come tensione protesa ad una realizzazione
mai completamente attuata, ma pur sempre percepibile nell'azione creativa. Intenzionalità
che è da sempre descritta dall'estetica musicale poiché non misurabile. Ben lungi
dal voler cadere nel vecchio luogo comune che vorrebbe sacrificare la musicologia
all'estetica, non si può tuttavia far finta di non vedere come in Italia e non solo,
il drastico passaggio dall'estetica alla musicologia stia oscurando la peculiarità
del jazz, e consenta l'applicazione a questo genere musicale di anacronistici criteri
a lui estranei. Non a caso i contributi che in Italia maggiormente rendono giustizia
al jazz provengano da lavori redatti da filosofi e non da musicologi. Oltre a
Massimo Donà col suo bellissimo "Filosofia della Musica" (Bompiani),
mi riferisco in particolare al qui ampiamente citato Davide Sparti, filosofo
le cui opere sono state fatte oggetto di critiche viziate da un tale trasporto emotivo
da costringerlo a controbattere quanto segue: "Per non suscitare l'astio di qualcuno,
dichiaro sin d'ora di non essere musicologo, né musicista e nemmeno storico della
musica. Essendo un filosofo e uno scienziato sociale, si potrebbe porre la questione
della mia legittimità in questa sede. Cosa ci si può aspettare da chi lavora sui
concetti che stanno alla base di pratiche estetiche? Ebbene la capacità di mettere
in questione, di problematizzare una serie di presupposti assunti come 'ovvietà'
e interrompere così il circuito ‘virale ' della loro replicazione. (Davide Sparti:
"Il corpo sonoro"; Introduzione pag. 11; Il Mulino).
Ciò nonostante è proprio da importanti studi musicologici che provengono
contributi strategici per il jazz. Se infatti è vero che: "...possiamo vedere
la storia della musica occidentale come la differenziazione successiva dei parametri,
l'autonomia crescente e l'eventuale sintatticizzazione dei parametri così differenziati"
(Meyer) e ancora "...di fatto nel corso della storia della musica tonale
abbiamo assistito all'integrazione del parametro timbro, al punto che questo diventa
la variabile strategica fondamentale della musica elettroacustica; la musica seriale
integrale applica al ritmo, alla durata e al timbro i principi che riguardavano
solo le altezze…" (Nattiez, op. cit. pag. 113), è altresì vero che nel jazz
il parametro melodico-improvvisazionale ha assunto una sempre maggiore
"autonomizzazione" (Molino) sino a divenire la "variabile strategica"
e ribaltando così radicalmente l'ordine del discorso. Di regola nella musica
classica, o generalmente composta, tutte le variabili sono equilibratamente interattive
o altalenanti rispetto alla produzione contrappuntistico-orchestrale di un'opera
dalla forma compiuta e definitiva (...forma che costituisce spesso un limite
anche per la libertà dell'interpretazione classica). Nel Jazz al contrario è
il contesto generale, benché essenziale, ad essere funzionale e interattivamente
subordinato rispetto alla produzione di una variabile strategica completamente autonomizzata:
la melodia improvvisata! Melodia che dall'humus e dal clima del contesto in cui
si svolge prende la mosse per il suo sviluppo discorsivo. Tutta la storia del jazz
procede nel senso di una melodia che si sviluppa sino a disintegrarsi nel Free Jazz.
E' quindi su questa variabile-strategica che va focalizzata l'analisi se si vuole
verificare la lettura del jazz come unità organica (ivi. Scott DeVeux). Qualsiasi
altro approccio analitico significherebbe perseverare nell'errore di applicare al
jazz i criteri della musica classica europea e generalmente composta.
Che la scienza non sia neutrale e se ne faccia un uso politico non è una
novità. Anche certa musicologia, sbilanciandosi e appiattendosi miopemente sugli
aspetti quantitativi, oltre a denotare una malcelata incapacità di saper cogliere
pienamente la sostanza qualitativa dell'arte, potrebbe in realtà nascondere finalità
politiche indirizzate a censurare i contenuti sociali insiti nel messaggio artistico.
Contenuti evidentemente non graditi perché non allineati alle politiche culturali
del potere costituito e degli interessi vigenti: un uso quindi politico della musicologia?
Marcuse distingue la logica dei fatti dalla logica dialettica: "La realtà
è qualcosa di diverso da ciò che è codificato nella logica e nel linguaggio dei
fatti;" "E' questo l'intimo legame tra pensiero dialettico e il tentativo della
letteratura d'avanguardia: lo sforzo di superare il potere dei fatti sul mondo"
" La dialettica e il linguaggio poetico, piuttosto, si trovano sullo stesso piano".
(Herbert Marcuse: "Ragione e rivoluzione", op. cit. pag. 10). Senza necessariamente
aderire al suo pensiero, si potrebbe tracciare un collegamento con Nelson Goodman
e il suo: "rifiuto del dato, di qualsiasi teoria o piano osservazionale neutrale
rispetto ai dati culturali" e che "l'opera d'arte è percepita attraverso i sentimenti
così come attraverso i sensi" (Abbagnano "Storia della filosofia" Utet).
Ed i sentimenti sono prodotti dell'elaborazione, sia inconscia che morale, di
precedenti vissuti significativi, sono quindi cosa diversa dalla percezione che
ha più a che vedere con le emozioni (ivi. Andreoli: "Musica delle emozioni-musica
dei sentimenti"); tuttavia nel linguaggio comune le dicotomie "impulsi/emozioni"
ed "emozioni/sentimenti" sono spesso sinonime ed intercambiabili: il
termine "emozioni" è a volte assunto per significare "impulsi", ed
altre volte, in una accezione più profonda, per significare "sentimenti".
Da un'angolazione sociologica, focalizzando l'osservazione sulla funzione
giocata dall'evento rispetto al suo contesto storico se ne possono trarre chiarificanti
contributi.
L'analisi funzionale, metodo tradizionalmente usato in etnologia,
ben accolto in sociologia e accuratamente evitato dalla pubblicistica musicologia-jazz
corrente, è impegnata a determinare i sistemi (economici, socioculturali ed istituzionali),
rispetto ai quali altri eventi culturali e comportamentali possono essere funzionali
o dis-funzionali. Considerando il jazz situato nel suo contesto storico sociale,
non si incontra nessuna difficoltà nel rilevare il ruolo dis-funzionale giocato
da questa musica nei confronti del sistema istituzionalizzato, quando si applichi
lo stesso criterio alle nuove tendenze oggi così potentemente sponsorizzate, con
altrettanta facilità si potrebbe constatare come, non solo non stia avvenendo nulla
anche di solo lontanamente paragonabile ai "tempi d'oro del jazz" ma che,
al contrario, oggi prevalga un atteggiamento tutto funzionale agli attuali rapporti
di produzione: "A quel tempo a New York, specialmente nella parte sud di Manhattan,
c'era una scena artistica molto vivace, accessibile a tutti. Nella pittura un grande
fermento: dall'espressionismo sino a Larry Rivers o Jeff Koonse. Alle mostre d'arte
si suonava jazz. Tra pittori, poeti e musicisti c'era una relazione molto intima...Credo
fosse come a Parigi negli anni venti...Oggi invece...non c'è più quella scena artistica,
quel tipo di comunità...Forme d'arte così rivoluzionarie che l'industria non ha
potuto far proprie. Ma è successo. Oggi c'è meno urgenza o senso di rilevanza nei
confronti del mondo. Non vedo in giro la potenza, la forza di certe opere di allora,
che ti colpivano in fondo, che ti facevano strabiliare. Vedo ad esempio tanta arte
visiva che è molto 'hip ‘, molto intelligente, ma sembra condurti verso il nulla.
Nel jazz o nel teatro nemmeno ci si avvicina alla forza di una volta." (Intervista
ad A. B. Spellman; "Musica jazz" Maggio 2007").
05/04/2017 | LEZIONI (chitarra): (B. Patterson, T. De Caprio, M. Ariodante, G. Continenza, G. Continenza, G. Fewell, N. Di Battista, A. Ongarello, D. Comerio, A. Tarantino, S. Khan, A. Bonardi, M. Falcone, A. D'Auria) |
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Data pubblicazione: 01/03/2010
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