Il jazz ha visto il suo sviluppo articolarsi nel periodo relativamente breve
di cinquant'anni ('20 – '70), periodo brevissimo se paragonato alla
storia della musica classica europea. E' proprio il paragone con la musica classica,
da più parti spesso effettuato, ad essere sproporzionato e fuorviante. La musica
classica si è sviluppata in una storia che è stata secolare. Essa rispecchia il
secolare sviluppo storico della società europea e delle classi dominanti vecchie
e nuove dalle quali è stata storicamente condizionata ed istituzionalizzata mentre
il jazz, genere con radici popolari e sottoculturali, rispecchia un periodo recente
e circoscritto della storia di una minoranza etnica emarginata, quella afro-americana,
accolta solo quando omologata, cosa diversa dall'emancipazione. Scrive l'estetologo
musicale Janos Maròty, "La ‘storia della musica' [...] è la storia delle
culture musicali dominanti" [...] "Lo stesso sistema istituzionale della cultura
musicale nasce e si mantiene in buona parte sul terreno della cultura dominante
[...] l'istituzionale significa anche l'ufficiale, l'accettato, il non-istituzionale
spesso il solamente tollerato, o anzi l'escluso, il perseguitato..." "E' nella natura
delle cose, inoltre, che la musica popolare sia di solito più rivoluzionaria di
quella delle classi dominanti". Se non altro per interessi di classe: l'interesse
peculiare dei potenti è la conservazione, quello dei subalterni il cambiamento."
(Maroty: "Musica e Uomo" p. 222 - 223, ricordi/unicopli, Le Sfere).
L'analogia tra jazz ed altre forme risulta invece calzante
se fatta con generi artistici (correnti letterarie, pittoriche ecc.) della
stessa epoca il cui sviluppo storico è stato altrettanto rapido. Il cinema, prodotto
della stessa epoca, non è però un genere, bensì un'arte-autonoma, questo spiega
come mai, a differenza del genere-jazz e analogamente all'arte-musicale, potrà continuare
a svilupparsi, attraverso diverse forme. Il jazz è invece solo un genere
e, in quanto tale, è destinato a passare alla storia come tradizione, dopo aver
dato se mai origine a nuovi generi. Come tutte le arti moderne del 900' il jazz
ha dato un peculiare contributo in termini di tecniche di produzione, di poietica.
Il linguaggio verbale e quello melodico, pur nelle reciproche differenze, presentano
affinità e analogie ("...un aumento della attività neuronale nella corteccia
prefrontale dedicata all'espressione di sé, che ad esempio si accende quando si
racconta una storia. Storia fatta invece che di parole di frequenze, di distanze,
di durate, di intonazioni" ["Algoritmo del jazz" di Marco Magrini - Il Sole 24 Ore
- 6 marzo 2008.]). Ciascuno di noi, così come avviene nell'improvvisazione musicale,
quando conversa nella vita quotidiana comunica improvvisando un discorso ricco di
inflessioni, toni, ritmi e dinamiche. In Africa la musica è sempre stato un evento
sociale allargato all'ascolto partecipante, fenomeno essenziale anche per la dimensione
estetica della musica, e il suono e il pulsare dei tamburi costituiscono un vero
e proprio mezzo di conversazione.
Nella comunità nera schiavizzata del nord-america la riappropriazione in chiave
afrologica di musiche occidentali (canti religiosi, ballate popolari, canzoni
nord-americane eseguite con la peculiare inflessione e carica ritmico propulsiva
dell'Africa nera) innescò una spinta compulsiva (quindi non sempre consapevole)
alla rottura degli argini inibitori della ribellione contro la cultura dell'oppressore,
una musica anti-borghese: "Le marce dell'esercito della salvezza inglese e gli
alleluia sentimental-religiosi si son trasformati nei canti rivoluzionari dei neri
d'America" (Maròty op. cit. p. 224). Ribellione a sfruttamento e razzismo, ma
anche alle rigide consuetudini della musica colta, gerarchiche e repressive, e quindi
a una instintualità sublimata. Ribellione che ha ritrovato nella improvvisazione
non solo le libertà negate, ma il vessillo per rivendicare le radici di una cultura
che concepisce la musica come "flusso degli eventi nel tempo" ("Musica dell'Africa
nera" D'Amico, ed. L'Epos p. 62).
La rottura dei freni inibitori indotta dall'improvvisazione, collettiva prima
e individuale poi, ha fatto tracimare incontenibilmente il doloroso vissuto di un
popolo riversandolo nei contenuti semantico-culturali, ovvero la capacità della
musica di significare sentimenti condivisi che rimandano alla società e alla storia
(quindi non equivocabili!). I modelli espressivi: "...sono sempre acquisiti
all'interno, e per il tramite, delle relazioni sociali e delle emozioni ad esse
associate, il principale fattore della formazione dello stile, quando si debbano
esprimere dei sentimenti in musica, non può che essere il suo contenuto sociale."
(John Blacking: " Come è musicale l'uomo? " pag. 89 Ricordi-Lim, Le Sfere.).
Che questa rivolta sia perfettamente riuscita non è ancora stato perdonato al jazz,
da qui la sua odierna revisione per restaurare vecchi valori. Lo stile-improvvisazionale
generato e alimentato da quella peculiare disciplina dell'improvvisazione storicamente
determinatasi come nuova e rivoluzionaria, è rimasto e rimane il codice genetico
del jazz, la sostanza ontologica del suo linguaggio e della sua estetica. Proprietà
semantiche e culturali destinate ad essere esportate nel mondo interpretando la
modernità. Oggi questa musica, disattendendo alcuni suoi peculiari attributi essenziali,
percorre un falso sentiero, una deviazione negativa che rischia di rivelarsi esteticamente
insignificante e culturalmente pericolosa. Non è lo status di musica d'avanguardia
(così caro ai jazzofili!) a costituire per il jazz uno degli attributi essenziali,
questo status ha solo corrisposto ad una fase storica ormai conclusa, è invece attributo
essenziale la strategia di produzione: l'improvvisazione! Eppure oggi, pur di non
rinunciare allo status di avanguardista, il jazzofilo-medio è disposto a
sacrificare perfino l'improvvisazione (a "vendere sua madre a un nano" direbbe
De Andrè !). L'improvvisazione jazz, anche se fondata su di una rigorosa e consapevole
metodologia ("...non significa che questa pratica musicale [...] si verifichi
solo quando la musica è molto semplice o primitiva, ché l'esempio del jazz sta a
dimostrare il contrario" Fubini: "Musica e linguaggio nell'estetica contemporanea"
Einaudi, pag. 94), non può essere iscritta nella didattica della musica colta
così come è stata conosciuta nel secolo scorso, ma al contrario costituisce una
sua clamorosa smentita. Con ciò non ci sogniamo neanche di delegittimare, o tanto
meno scalfire, l'immortale tradizione della musica classica, ma ci riferiamo esclusivamente
al "sadismo pedagogico" di quella mentalità
rigida e amministrativa che ha censurato l'informazione e bloccato il pluralismo
nella didattica musicale nella storia recente del nostro paese. Didattica che ha
penalizzato il genere classico stesso: "Entrai al conservatorio...dove mi insegnarono
molte cose noiose e spesso false" (Intervista a Luigi Nono in "Vi insegnerò differenze"
pag. 14. Edizione non venale per conto della BPM; ottobre 2000).
Il jazz ha minacciato e minaccia pericolosamente la supremazia storica e l'egemonia
della musica colta ed istituzionalizzata europea: "Nei ritmi sovversivi e dissonanti,
piangenti e urlanti nati nel continente nero e nel profondo Sud della schiavitù
e della miseria, gli oppressi rifiutano la Nona Sinfonia e danno all'arte una forma
desublimata, sensuale, di spaventevole immediatezza, mobilitando, elettrizzando
il corpo, e l'anima in esso materializzata" (H. Marcuse: "Saggio sulla liberazione"
Einaudi - 1969 pag. 59 - 60). Oggi si riscontra quindi una frenetica attività
revisionistica per "aggiornare" la didattica ministeriale, quella stessa
didattica che per anni ha emarginato i timbri colorati e popolareschi della chitarra
classica, e che non a mai voluto riconoscere il jazz come genere autonomo, ostinandosi
a considerarlo come uno stile sincretico, di derivazione etnica, del genere pop.
Didattica ministeriale che invece di procedere dalla pratica alla teoria (formazione
e non solfeggio!) è sempre andata in senso opposto provocando discrasie neuro-percettive
se non disturbi della personalità e che, dopo aver vessato col divisionismo-ritmico
intere generazioni di giovani, per aggiornarsi è ora costretta a ricorrere, guarda
caso, a quegli ex-orchestrali da night-club (...per giunta autodidatti!),
che sono i jazzisti i quali, dopo la riforma, rischiano di essere trasformati gradualmente
in neo-diplomati accademizzati, pronti a scandire il "4/4 swing"(...si fa per
dire!) con bacchetta in mano e cipiglio dirigista. Didattica-jazz che, se non
ne viene preservata la tradizione, rischia di venir reintegrata entro le compatibilità
di un sistema che reiteratamente ne falsificherà la narrazione per attribuirsene
i meriti. Ridimensionare prima, per abbandonare poi, la tradizione dell'improvvisazione
equivarrebbe a condannare il jazz alla progressiva estinzione.
Il "jazz al conservatorio" può andare benissimo solo se si concretizza
in "conservatorio del jazz"! Altrimenti si rischia di sottoporre il jazz
allo stesso trattamento del rock (col quale amava civettare Luciano Berio,
che invece poco amava il jazz!) che, partito da premesse afro-americane, a forza
di attingere dalla classica si è geneticamente-modificato sino divenire europeo,
gotico, celtico, e…satanico! Appare paradossale poi la pretesa del pensiero eurocentrico
di rivendicare le origini europee del jazz (musica afro europea [?])
partendo dal riscontro che esso, come genere musicale, si è strutturato all'interno
della forma canonica e della sintassi tonale (nate in Europa): ma l'armonia
non è una ragion sufficiente per la determinazione di genere! Avete mai sentito
parlare di genere armonico? Se così fosse tra i Concerti Brandeburghesi
e il Festival del Liscio non ci sarebbe diversità: "E' pur vero che esso
[il jazz] deriva da pratiche sincretiche, le quali però hanno sempre dovuto sottostare
alle priorità del Canone africano-americano, ivi compresa l'armonia di derivazione
europea" (Gianni Gualberto). Mentre i puristi del jazz-musica della nostro tempo
vengono liquidati come conservatori che guardano al passato, nei luoghi istituzionali
della Musica Classica si ripropongono e si celebrano le opere dei tempi passati
focalizzandone con scrupolo minimalista ogni passaggio e enfatizzandone i momenti
di libertà compositiva. Se una simile meticolosità filologica dovesse essere applicata
al Jazz, verrebbero appropriatamente garantiti non solo la sua memoria storica,
ma specialmente il suo futuro come musica d'arte. Futuro che in parte dipende da
quello che i musicisti decideranno di dire e di fare nella situazione attuale contro
le direzioni impresse dall'establishment della musica! Ciò esigerebbe il recupero
dell'originario spirito militante e rivendicativo del Bop-Movement e presupporrebbe
quindi quella consapevolezza che è oggi assolutamente disattesa: i jazzisti tradiscono
il jazz?
Nella genesi del jazz si potrà anche dibattere di gradualità e prevalenza tra
scrittura e oralità (...alcuni studiosi sostengono che: "il jazz è nato come
musica scritta"), ma per il momento ci accontentiamo di constatare, rivisitando
la nostra discoteca, che comunque lo si voglia far nascere: "Il Jazz è in primo
luogo l'arte dell'esecuzione e dell'improvvisazione" (Gunther Schuller).
Oggi, nell'era della tecnologia audio, il ruolo svolto dal supporto audio nella
trasmissione del jazz è di gran lunga più diffuso e importante di quello svolto
nel periodo fertile di questa musica. Allora la tradizione orale svolse un ruolo
centrale, la musica dal vivo sul territorio era diffusa enormemente, chiunque avesse
voluto commissionare della musica era costretto a ricorrere ai musicisti in prima
persona, e i contatti diretti tra musicisti e pubblico erano all'ordine del giorno,
sia negli innumerevoli locali, che nelle sale da concerto. Oggi, che col disco la
tradizione "audio-tattile" (Vincenzo Caporaletti: "I processi improvvisativi
nella musica" LIM Ed.) è predominante e che lo spirito originario della tradizione
orale va disperdendosi, la scena è essenzialmente dominata da quei super-mercati
che sono i festivals. Il problema attuale dell'improvvisazione è l'uso che se ne
fa, dovuto all'approccio manieristico scolastico oggi dominante, la perfetta de-costruzione
reazionaria dell'approccio artistico bop: "Ci sono tanti bravi musicisti ma pochi
grandi jazzisti, gente che inventi qualcosa di nuovo. Non abbiamo più un
Ornette
Coleman che cerca di imparare da solo a suonare e inventa uno stile
facendo tesoro dei propri errori. Appena si ascolta un musicista si può dire immediatamente
chi ha studiato...in passato... il lavoro era più personale, autoctono" (Intervista
ad A. B. Spellman; "Musica jazz" Maggio 2007").
Approccio manieristico che cerca ossessivamente una rivincita negli aspetti artigianali
della musica e nella prestazione fine a se stessa e che, non riuscendo ad approdare
a nulla al di là della mera clonazione degli stili, rifluisce nella composizione
e nell'arrangiamento con prodotti accuratamente confezionati, immancabilmente seduttivi
e rigorosamente alla moda, l'ideale per i referendum delle riviste specializzate
(…una cosa è la composizione come mezzo, altra cosa come fine!!). Solo che
il jazz ha sempre implicato e continua ad implicare ben altro che questi prodotti
da degustare con autocompiacimento nei salotti esclusivi e radical-schic sotto l'ala
protettiva dell'ufficialmente riconosciuto. Ai Monk e ai
Bud Powell
certe frequentazioni sarebbero andate strette, ambizione e rampantismo non si possono
sostituire al dolore della vita reale, per dirla con De Andrè:
"...non mi piaccion le gran dame, preferisco le puttane!".
L' improvvisazione melodica del jazz, nella sua estemporanea auto-generazione,
è un fenomeno dinamico con profonde ed inesplorate implicazioni psicologiche subliminali
determinate dalla velocità d'esecuzione. Nei confronti dell' improvvisazione non
vi è superamento storico da parte delle nuove musiche elettroniche euro-colte, ma
se mai, analogia e reciprocità, come evidenziato dalla loro presenza simultanea
nella storia dell'arte moderna. Nella musica del '900 il timbro-organologico
dell'improvvisazione (afrologico!) e l'azione spazializzante del suono elettro-acustico,
convivono nella medesima concezione dialettica dell'espressione, centrata non tanto
sul prodotto quanto sul processo (presso la tribù sud-africana dei Venda "...è
il procedimento del fare musica ad essere valorizzato, non meno, ed a volte anche
di più, del prodotto finale" [Blacking pag. 69]). Entrambi contribuiscono alla
modernità musicale anche in virtù delle rispettive peculiarità ricche di soggettivismo
umanistico (il primo) e di architetture dinamiche (il secondo). Dinamismo
dialettico che non è ottenibile esclusivamente con la decostruzione della
sintassi tonale e del timbro (nel Jazz ciò avviene con il Free), ma che è
ottenibile anche con l'atto improvisativo! Se superamento storico vi è da parte
delle nuove musiche improvvisate ed elettroacustiche del '900, esso avviene
nei confronti di musiche a morfologia statica appartenenti a generi ed epoche diverse,
ma così presenti nella tradizione italiana dalla Lirica a San Remo. Vi sono melodie
orecchiabili e ripetitive che risolvono in breve su se stesse (prodotti finiti),
e melodie sempre cangianti dalla linea complessa e potenzialmente inesauribile
(processi). Dato che, nell'800 ed oltre, le melodie della musica euro-colta
sono state prodotti-finiti di una estetica compositiva che rispecchiava i rapporti
familiari repressi e sublimati della società, è fisiologico che nella prima metà
del secolo successivo ('900) si siano affermate concezioni musicali che cercassero
di superare quel tipo di melodia, e si siano invece ricercate, tout-court, al di
là della melodia, quella estemporaneità e quella instintualità divenute pulsioni
sociali emergenti: "E' comunemente acquisita la svalorizzazione dell'improvvisazione
nella cultura occidentale, in cui si è affermato, in particolare nella seconda metà
dell'ottocento, l'ideale della fedeltà all'opera..." (Vincenzo Caporaletti: "I processi
improvvisativi nella musica" LIM ed pag. 63.). Da qui la presenza simultanea
di elettronica, alea ed improvvisazione-jazz. Facendo nostre le preziose categorie
coniate da Luigi Pastalozza, l'ottocento è il secolo meno libero,
il secolo dell'autoritarismo musicale al quale si reagisce con una pulsione
verso la rivolta e la libertà da ogni dover-essere e ordine accademico.
Nel jazz si reagisce con la ricerca di uno stile fantasiosamente disordinato
(alla Tal Farlow), sino a giungere all'angoscia e al deserto
esistenziale che trapelano dalle poetiche di Miles Davis e di
Steve Lacy.
Autoritarismo e ordine accademico che oggi ritornano con le nuove tendenze. Se si
negasse la morfologia dinamica della melodia improvvisata jazz, sempre aperta sviluppi
imprevisti (regno della possibilità), a maggior ragione si dovrebbero negare
tutte le analoghe forme di produzione artistica in arte figurativa, letteratura
e poesia (prosodia-bop), cinema e, con loro, la stessa "azione spazializzante"
dell' elettronica musicale ("Musica e Realtà" n. 77, luglio 2005, Ugues Dufourt:
"Il dinamismo genetico del materiale musicale e il suo movimento generatore di spazio").
In ultima analisi l'esplorazione elettroacustica dello spettro sonoro non è
l'unica forma di produzione musicale moderna e rivoluzionaria del '900. Il
mancato riconoscimento della melodia-improvvisata del jazz (che oggi ancora una
volta si vorrebbe imbrigliare nella variazione tematica) tradisce quindi la
vecchia pretesa egemonica, di origine classista, della musica colta ed eurocentrica
che elude e disconosce il jazz cercando di appropriarsi furtivamente dei sui meriti,
come testimoniato dagli studi di George E. Lewis (Davide Sparti "Suoni Inauditi"
il Mulino 2005, pag. 34 - 35). Ricollegandomi
alle preziose considerazioni fatte da Ted Gioia (pag. 136, 148, 155, 156
e 157) del suo libro "L'Arte imperfetta" (ed. Excelsior 1881) ci terrei
anche a specificare che il jazz "è noioso" solo per chi non lo capisce, e
a ribadire che la melodia-jazz per continuità, articolazione e profondità, non solo
non ha nulla da invidiare a qualsiasi melodia di Bach (...avete mai provato a
memorizzare vocalmente una improvvisazione di Parker o di Tristano, di Konitz o
di Marsh, di Jimmy Raney o di Billy Bauer?) ma, ovviamente, costituisce un suo
superamento storico per i contenuti sociali contemporanei da essa significati! In
ultima analisi oggi si ricicla il vecchio arnese razzista e colonialista eurocentrico
che da sempre distorce e sottovaluta l'apporto culturale dell'Africa nella storia
dell'umanità. Allorché, con il jazz, questo apporto ha oltrepassato il nostro cortile
di casa, si è sempre cercato di corromperlo, sofisticarlo e omologarlo.
Euroentrismo paratattico che, per insinuarsi, adotta reiteratamente l'espediente
della inversione delle variabili, scambiando la eccezione con la regola. L'improvvisazione
nel Jazz è la regola, invece nel Classico è l'eccezione, la ricreazione, la "rottura
delle righe"o meglio del...rigo musicale, visto che i professori d'orchestra
sono tutti "rigo-dipendenti" perché l' indirizzo didattico è sempre stato
e rimane la "lettura a prima vista"e "l'interpretazione". Ciò risulta
evidente a chiunque abbia compiuto un esperienza didattica o concertistica nella
Musica Classica (...a meno che non si voglia acrobaticamente estendere il significato
di improvvisazione all'interpretazione!). Quanti sono nel
'900 ed oggi, gli orchestrali classici in grado
di improvvisare liberamente e articolatamente rispettando correttamente i canoni
della sintassi tonale? Una volta tanto un dato statistico può essere posto al servizio
della verità storica! Ciò nonostante gli opinionisti di regime, sguinzagliati in
tutte le principali testate giornalistiche, continuano a insinuare, tra le righe,
che in fondo il jazz non avrebbe poi inventato nulla di nuovo perché nel classico
si sarebbe sempre improvvisato! Peccato che tutta la letteratura musicale della
storia della musica classica si edifichi prevalentemente su composizioni!!
"Se si concepisce il termine improvvisazione in modo così ampio da comprendervi
l'intera prassi musicale della società primitiva e di molte civiltà oggi ancora
fiorenti da un lato, e dall'altro, ad esempio, l'improvvisazione estemporanea di
un Bach o di un Mozart, e infine ancora, determinati aspetti dell'odierna pratica
musicale – ad esempio le libere combinazioni dei jazzisti – è chiaro che il contenuto
del termine non potrà essere che molto vago: andrebbe poco più in là di una definizione
di attività musicali non scritte." (Georg Knepler: "La storia che spiega la musica"
pag. 18 Ricordi Unicopli - Le Sfere) - Nel Jazz quindi la composizione
è funzionale all'improvvisazione, nella Classica l' improvvisazione è funzionale
alla composizione: "...quello di Schubert non è un caso di improvvisazione ma
una forma di composizione il cui processo compositivo ha delle somiglianze e richiama
l'improvvisazione. Il fatto che si possa improvvisare per individuare spunti compositivi
non significa che il musicista abbia composto improvvisando, poiché si tratta di
schizzi musicali che vengono poi confrontati coi requisiti di correttezza e coerenza
legati alla partitura o all'opera nel suo complesso." "Nel metodo compositivo di
Cage [...]: l'inatteso ha così luogo per necessità, senza che il compositore abbia
alcuna possibilità di controllarne o anche solo influenzarne il risultato finale.
Ma nessuna improvvisazione jazz è puramente aleatoria; non si basa cioè sull'idea
di fare un ‘testa o croce ‘ per stabilire quale evento sonoro seguirà." (D. Sparti:
"Suoni inauditi" Il Mulino, pag. 35-36).
Inversamente, su un secondo versante, si affaccia poi la pretesa euro centrica
di ricondurre il jazz entro le proprie logiche insinuando che il jazz non sarebbe
"poi così tanto" improvvisazione, ma piuttosto composizione e arrangiamento
[!?], e l'improvvisazione, "a ben vedere", sarebbe tutto sommato
"simulazione". Si giunge inoltre a manipolare la narrazione delle radici
stesse del jazz: tradizioni afroamericane, debitrici di musiche occidentali colte,
vengono così arbitrariamente riciclate come pedigree per il jazz, come già respinto
a suo tempo da Gunther Schuller: "Queste ricerche hanno confermato che
molta di questa musica arcaica o non era jazz, o non voleva neanche esserlo" - "Molti
di quegli uomini non erano jazzisti; molti ebbero un educazione regolare, o strettamente
classica" (op. cit. Cap.: ‘I Primi passi' pag. 99), e invece le tradizioni
strettamente africane, diversificate ed eterogenee dell'area sub-sahariana, vengono
utilizzate come piattaforma girevole dalla quale i revisionisti possono attingere
per avvalorare le proprie tesi pretestuose.
05/04/2017 | LEZIONI (chitarra): (B. Patterson, T. De Caprio, M. Ariodante, G. Continenza, G. Continenza, G. Fewell, N. Di Battista, A. Ongarello, D. Comerio, A. Tarantino, S. Khan, A. Bonardi, M. Falcone, A. D'Auria) |
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Data pubblicazione: 28/06/2010
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