North Sea Jazz Fest Ahoy Rotterdam 13/15 luglio 2018
di Vittorio Pio foto di Fabio Orlando
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Quella del North Sea Jazz Fest resta una sigla che solletica
la fantasia di qualunque jazzofilo, vista la pregiatissima letteratura che già lo
riguardava quando era di stanza presso il palazzo dei congressi all'Aja fino a circa
dieci anni fa, con tentativo (abortito quasi subito), di ripeterne i fasti dopo
l'improvvisa scissione. La prima edizione, nel 1976, incluse trecento artisti e
si ebbero novemila visitatori: gli archivi testimoniano una line-up comprendente
leggende come Count Basie, Oscar Peterson, Sarah Vaughan,
Dizzy Gillespie e
Stan Getz. La formula fu subito quella del solo weekend, con sei palchi
dove si suonava in contemporanea ogni tipo di jazz con l'unica eccezione del blues,
almeno nei territori propedeutici o di confine: un successo capace di ogni clamore,
con un costante incremento di pubblico che, specie da quando ci si è spostati nel
più moderno e polifunzionale Ahoy a Rotterdam, nonostante qualche polemica dovuta
alla distanza, ha fatto schizzare le cifre sino alla fin troppo eloquente (e per
certi versi clamorosa), cifra di 60/70.000 paganti, che fanno oggi del NSJ il più
importante e frequentato festival jazz indoor del mondo, quest'anno con oltre mille
artisti per 150 concerti e quindici palchi diversi, in sale dalla capienza che andava
da 200 a 20.000 posti. Tutto questo al coperto, nonostante la data celebri a poche
settimane di distanza, l'inizio dell'estate.
Artisticamente se ne occupa la Mojo, potente organizzazione
dedita massimamente al rock/pop, che cala ogni anno i suoi assi, capaci di attirare
folle di gioventù di vario lignaggio ed orecchie (non troppo) raffinate. Qualcuno
di questi poi devia sulla manciata di icone in jazz rimaste ancora a distillare
un'arte finissima. Ma ognuno, se vuole, può trovare la sua dimensione all'interno
del NSJ: se si ama la musica a tutto tondo, ci si dovrà dotare di mappa, pazienza
ed energia per farsi largo in mezzo a molti altri contendenti, in buona parte intenti
soprattutto a "pasteggiare", spizzicando di qua e di là tanta buona musica.
Al contrario nel caso in cui non si volessero oltrepassare le stimmate del jazz,
ci sono un paio di sale appositamente dedicate, dove in questa edizione hanno trionfato
il trio di Fred Hersch, il benvenuto rendez-vous (dopo circa trent'anni di
assenza), fra John Surman e
Bill Frisell
ed il sestetto di Vijay Iyer. Per loro non ci sono superlativi, più che aggettivi,
per architettura sonora, sintesi stilistica e per (l'apparente) irrisoria facilità
in cui testo scritto ed improvvisazione, entrambi molto laboriosi, riescono a legarsi
senza soluzione di continuità.
L'artista cui invece è stato concesso
lo spot principale con una residenza variabile per formazione e scelte è stato il
trentaquattrenne Michael League, l'epicentro dei francamente non troppo entusiasmanti
Snarky Puppy, che invece sono un fenomeno di culto nelle fasce giovanili.
Il bassista californiano (il più giovane nella storia del festival a godere di questo
privilegio), ha presentato a Rotterdam il suo più recente side-project denominato
proditoriamente "Bokantè", un chiassoso miscuglio di world music, blues e
rock senza però un'anima realmente sincera. Per League è andata molto meglio invece
nei perfetti ingranaggi della locale Metropole Orkest e con il trio ad alta gradazione
tellurica formato insieme ad Antonio Sanchez e Pedrito Martinez, una
formazione appositamente costituita che si ritroverà presto in studio per fissare
la musica viscerale e sanguigna proposta, con assoli di pregio e un'organizzazione
sonora parecchio intelligente, anche se non di prima mano. Sanchez ovviamente rimane
il perno della nuova primavera di
Pat Metheny,
tornato su ottimi livelli dopo un evidente periodo di appannamento, grazie agli
stimoli trovati con il quartetto che lo accompagna da qualche tempo completato da
Gwilym Simcock e Linda Oh.
Altro mirabile esempio di togetherness sono stati il quartetto
delle meraviglie di
Charles
Lloyd (con lo stesso Frisell, Eric Harland e Reuben
Rogers), quello di Billy Hart che ospitava Joshua Redman ed il
collettivo Hudson, accreditato pariteticamente a
Jack DeJohnette
(sempre efficacissimo dietro ai tamburi per quanto smemorabile al canto),
John Scofield,
Scott Colley e John Medeski, davvero sensazionali per l'interazione
dimostrata da tutti i musicisti: ognuno di essi pensava ed agiva in senso compositivo
ed orchestrale e pur avendo ogni solista una ben distinta personalità e specificità
timbrica, nessuno di loro ha mai preso un ruolo preminente o risolutivo: un trionfo
di sapienza e perizia.
Esibizioni dense di luci e scintille quelle dei The Roots,
Marcus Miller
e Robert Glasper. Ottimo per acume ed intensità anche il set condotto da
Maria Schneider con l'ensamble Denada. Gli irriducibili del jazz (che
ormai rappresentano una minoranza nettissima, direi carbonara), hanno continuato
la loro peregrinazione facendo zig zag fra birre ed hamburgers, per avere una ben
meritata ricompensa nei gruppi accreditati a Roy Hargrove (uno dei migliori
concerti applauditi per ispirazione ed estro), David Sanborn, Pharoah
Sanders, Chico Freeman, Stanley Clarke,
Kurt Elling,
Mike Stern
e Randy Brecker, con menzione speciale per i più giovani Gilad Hekselman
e Maciej Obara.
Moltissimo altro intorno nella larga fascia dedicate alle altre
musiche, compreso le declinazioni soul funk del leggendario Nile Rodgers,
che ha rispolverato gli Chic in un doppio set opposto a quel che è restato dei magnifici
Earth Wind & Fire, capeggiati ancora da Verdine White, Ralph Johnson
e Phil Bailey, il cui falsetto resta insuperabile quasi quanto la sua
attuale pinguedine. Ma il repertorio di questi campioni degli anni'80 resta qualcosa
di unico ed i fans sono andati letteralmente in visibilio per quegli hits come
Fantasy,September e Let's Groove che hanno ricordato a tutti
i presenti il tempo della ruggente giovinezza. Il passaggio da una sala all'altra
risultava comunque senza traumi particolari, specie se si era dotati di cuore e
mente bene aperti.
Molta attenzione anche alle voci femminili con la sfolgorante
presenza di Emeli Sandè, Angelique Kidjio, Oumou Sangarè: tre
modi diversi di abbinare bellezza e talento in orgogliosa blackness. Assai godibili
invece le esibizioni di Chaka Khan (scaletta killer), MeShell che
sul finire del set ha omaggiato con cuore e rispetto Prince, e in ultimo il blues
ruspante di Deva Mahal, figlia d'arte che ha chiuso un' edizione certamente
riuscita, il cui riverbero continuerà nelle prossime settimane al fine di poter
meglio sedimentare questa (parzialmente scampata), indigestione in musica