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Intervista a Mimmo Langella
di Emanuele Capasso
gennaio 2008

Partiamo dall'inizio, Mimmo. Cosa ci puoi dire della tua formazione musicale?



Ho iniziato a suonare la chitarra a 12 anni, per imitare, come tutti i ragazzi. C'era qualcuno dei miei amici che già suonava la chitarra e così mi sono fatto insegnare i primi accordi in primo manico. Suonavamo per lo più nei momenti di aggregazione.

Quanto ha influito nella tua formazione musicale il fatto di essere nato e vissuto a Napoli?

Credo che la cultura napoletana sia presente un po' in tutti i napoletani, non solo negli artisti. Però credo che l'estro, l'inventiva propri dei napoletani si manifesti in misura maggiore nell'arte e specialmente nella musica. Abbiamo tutto un bagaglio, una tradizione della canzone napoletana, che è poi l'inizio della canzone italiana. Credo che le melodie napoletane influenzino molto un musicista. Anche se uno non compra dischi di musica napoletana, basta camminare per strada… è nell'aria.

In seguito hai completato i tuoi studi musicali negli Stati Uniti. Per quale motivo sei andato fin in America per studiare.

Ho sempre avuto una gran fame di conoscenza. All'inizio, tra i 12 ed i 14 anni, la musica era solo un gioco. Verso i sedici anni la musica stava diventando qualcosa di più serio per me, iniziavo a guadagnare e quindi a considerare la musica anche come una professione. Essendo ambizioso, volevo fare le cose per bene e quindi conseguire il diploma di conservatorio, anche per acquisire un titolo, per essere riconosciuto come un maestro di musica, come vorrebbero tutti. In Italia l'unica scuola di musica riconosciuta è il conservatorio. Però una volta visti i programmi, fui steso dalla quantità, dalla difficoltà e dall'inutilità delle cose che avrei dovuto studiare: setticlavio, chitarra classica, ecc… Era una mole di lavoro immenso, molto lontano da quello che in realtà volevo fare; all'epoca ascoltavo la Mahavishnu Orchestra, John Mclaughlin, Al Di Meola, Jeff Beck. Nonostante volessi essere un musicista istituzionale e riconosciuto, tutto questo programma di chitarra classica e specialmente il solfeggio col suo setticlavio, mi scoraggiarono e pensai che il conservatorio non fosse per me. Attraverso la rivista "Chitarre" ebbi l'occasione di leggere un'intervista ad un musicista romano, Gianfranco Diletti, che poi in seguito mi ha sponsorizzato per la rivista "Axe" e per altre cose. Lessi che era andato a studiare in America, al G.I.T., una scuola di livello mondiale. Così mi dissi – è una scuola di livello mondiale: devo andare a studiare in questa scuola! -. In Italia era impossibile studiare chitarra elettrica e ottenere un titolo di studio riconosciuto; al conservatorio avrei impiegato dieci anni per studiare... chitarra classica. Poi a 17 anni frequentai un corso estivo ad Umbria Jazz: era la prima volta che la Berklee veniva in Italia; nei 15 giorni di quel corso imparai più di quanto avessi mai imparato. Capii che la loro didattica era ad un altro livello, in Italia eravamo indietro anni luce. Così mi decisi: devo andare a studiare in America! La scelta era tra la Berklee ed il G.I.T.. La prima era un po' costosa, invece il G.I.T. di Hollywood offriva un corso intensivo di un anno e quindi più economico e fattibile. Così scelsi il G.I.T..

Quali sono i musicisti, chitarristi e non, che ti hanno maggiormente influenzato?

All'inizio ascoltavo musica leggera, quella che girava in casa. Mia sorella ad esempio ascoltava i Pooh, cose semplici, mio fratello maggiore Eduardo Bennato, Baglioni, De Gregori. La prima cosa che mi colpì era il Rock & Roll, il Rockabilly, Elvis Presley. È un tipo di musica in un cui c'è sempre l'assolo di chitarra ed a me 'sta cosa mi attirava molto. Poi conobbi un bassista che ascoltava musica più complessa e mi fece scoprire John Mclaughlin, Al Di Meola e Jeff Beck, il top della chitarra nella seconda metà degli anni Settanta. Ascoltavo e riascoltavo dischi come "Wired" di Jeff Beck, "Casino" ed "Elegant Gipsy" di Al Di Meola, "Electric Dreams" ed "Electric Guitarist" di John Mclaughlin. Questi sono stati i primi chitarristi che ho ascoltato, ma non posso dire che mi abbiano influenzato molto, perché all'epoca, a 15-16 anni, il mio orecchio coglieva il senso di quello che ascoltavo, ma non ero ancora in grado di trascrivere o suonare quel materiale. Questa è la prima fase.

E la seconda?

Nella seconda fase focalizzai la mia attenzione su due chitarristi in particolare: John Mclaughlin e Pat Metheny. All'inizio degli anni '80 erano come i Beatles e i Rolling Stones: o eri per Pat Metheny o per John Mclaughlin. In questa fase avevo una maggiore coscienza per meglio capire e apprezzare delle cose. In particolare ci fu un chitarrista che mi colpì molto e fu il primo che iniziai a trascrivere: Dean Brown. Il mio batterista mi passò dei dischi di Billy Cobham, tra questi c'era "Billy Cobham's Glass Menagerie: Observation &" in cui suonava appunto Dean Brown. I suoi assoli in quel disco mi piacevano tantissimo e lui è stato il mio primo guitar hero, nel senso che volevo proprio suonare come lui. Stavo delle ore a tirare giù le sue frasi dal disco. Dopo ci fu un'altra fase.

La terza? [ridiamo]

Sì! Ormai avevo acquisito una certa dimestichezza tecnica ed il mio orecchio si era sviluppato di più così che riuscivo a trascrivere la musica che ascoltavo. I chitarristi più importanti in questa fase e per la mia crescita sono stati John Scofield, Robben Ford e Mike Stern.

Siamo negli anni '80 quindi?!

Sì, nella prima metà degli anni '80. Ascoltai Scofield per la prima volta in "Decoy", l'album di Miles Davis. Era un suono che avevo sempre avuto in testa, questo suono così bluesy, ma allo stesso tempo complesso, con sonorità outside. Quando lo ascoltai dissi: -ecco!- Il suono che avevo in testa si era materializzato. Mi piacciono tutti i chitarristi che hanno una forte vena blues e quindi Robben Ford. Di Stern mi catturava l'energia e la scrittura dei pezzi, in particolare nel suo primo disco "Upside Downside". I dischi che ascoltavo all'epoca erano appunto "Upside Downside", "Decoy" di Miles Davis e "Still Warm" di Scofield, "Talk To Your Daughter" di Robben Ford e "Mirage À Trois" degli Yellow Jackets, in cui Robben Ford suona degli assoli straordinari. Tra i dischi che ho letteralmente consumato ci sono anche "Kind Of Blue" di Miles Davis, "Incredibile Jazz Guitar" di Wes Montgomery e "Alone Together" di Jim Hall & Ron Carter. Molta chitarra, dunque: io amo il suono della chitarra!

Da anni sei impegnato nella didattica. Cosa ci puoi dire di questa esperienza?

L'insegnamento è una vocazione ed io credo di averla. Insegno ormai da 22 anni e non mi sono rotto ancora le scatole [ride]. Molto ragazzi che vengono da me sono musicisti a tempo pieno, lo fanno per professione e questa per me è una soddisfazione. Cerco di trasmettergli tutto il mio bagaglio di conoscenze, di dargli una preparazione professionale, a prescindere dal tipo di musica che vogliono suonare. In questi 22 anni ho anche ricevuto molto, specialmente dai migliori allievi. Quelli bravi, quelli che hanno qualcosa da dire, che hanno doti spiccate di musicalità, non sono tanti. Ho imparato molto da loro, ma anche da quelli meno dotati perché è un confrontarsi continuo, quotidiano, che ti permette di scoprire tante cose, anche su te stesso. Credo che tra i musicisti che mi hanno influenzato dovrei citare anche tutti i miei allievi!

Veniamo ora al tuo nuovo disco, Funk That Jazz, che è appena uscito. Da dove nasce questo progetto?

Questo progetto è il continuo di The Other Side che è uscito a Natale del 2002. Sono passati circa 5 anni, anche se in realtà Funk That Jazz è stato registrato nel gennaio del 2006, dopo poco più di 3 anni dal disco precedente. Si tratta della prosecuzione del concetto e del suono di The Other Side, un suono che ho elaborato negli anni con i miei ascolti, con le mie esperienze musicali sia in ambito jazzistico e di musica strumentale sia di musica leggera. Nel frattempo sono riuscito a trovare i musicisti giusti per realizzare questo "suono" ed è arrivato il mio primo disco, The Other Side, a 33 anni. A volte invece capita che il musicista ceda alla voglia di essere presente a tutti i costi nell'establishment musicale e ha fretta di registrare qualcosa di suo, senza una reale urgenza espressiva, giusto per dire: "Ci sono anch'io". Questo presenzialismo non fa bene alla musica, si va solo ad alimentare un calderone dove alla fine non si capisce più niente, bisognerebbe comportarsi come quando si parla: se non si ha niente da dire, meglio rimanere zitti piuttosto che dire sciocchezze. Ritornando a The Other Side, quello per me era il momento giusto, il momento in cui potevo convogliare tutte le mie esperienze per realizzare finalmente il "suono" che avevo in testa, con i brani che avevo composto con quel "suono" e i musicisti giusti per realizzarlo, vale a dire Pasquale De Paola alla batteria, Guido Russo al basso e Sacha Ricci alle tastiere. Quest'ultimo disco segue una linea ancora più diretta, più genuina, ci sono più pezzi cantati e c'è anche una collaborazione importante. È un progetto che continua: il suono di The Other Side nel 2008 diventa Funk That Jazz. È funk strumentale; io lo chiamo funky-jazz perché il beat è funk, ma sopra c'è un'improvvisazione di tipo jazzistico.

Hai accennato alle differenze con The Other Side. Quali sono le altre differenze con il nuovo disco, Funk That Jazz?

Credo che The Other Side sia più jazzistico, c'è più improvvisazione, i pezzi sono più lunghi. È un classico primo disco, in cui uno vuole mettere tutto se stesso, i pezzi sono un po' più dilatati. In Funk That Jazz c'è una mentalità più matura, dove non c'è bisogno di assoli lunghissimi, è un disco da studio mentre l'altro è più vicino ad un live. Naturalmente anche Funk That Jazz è registrato live in studio, senza riprese di errori, senza copia e incolla ecc… Abbiamo registrato semplicemente delle take come nel jazz ed abbiamo selezionato le migliori.

Ho trovato il suono del tuo disco molto asciutto, con pochissimo ambiente. È una scelta di produzione?

Sì. Anche The Other Side ha un suono molto asciutto, segue la stessa linea. Trovo che il suono dei riverberi e dei delay sia molto anni '80, artificiale. Perché usare questi riverberi e questi delay quando io non sto… suonando in una caverna?! Ho cercato di avere un suono quanto più fedele possibile alla realtà perché la mia musica è diretta, senza fronzoli, molto lineare, primitiva e quindi il suono deve essere primitivo: come se suonassimo in una stanza, con pochissimo ambiente. Credo che così la musica sia più diretta. È un "suono"! Un musicista che produce un'opera credo debba produrre innanzitutto un "suono" proprio, personale. Per me è importante che il mio gruppo abbia un "suono" caratteristico, distintivo e originale.

Che strumentazione hai usato per registrare il disco?

Ho usato la mia Hamer Newport Pro sulla quale ho montato i pickup Seymour Duncan Phat Cat, che sono dei P90 dalle dimensioni di un humbucking. Come amplificatore ho usato un Victoria Victorilux, fatto a mano come i vecchi Fender. Per il resto ho usato un overdrive Bixonic Expandora che tengo quasi sempre acceso, perché mi piace il suono crunch: così ho una tavolozza di colori ed un range dinamico più ampi. Il suono pulito della chitarra jazz lo trovo un po' "fermo". Ho usato anche il chorus a mo' di Leslie in un paio di brani.

Che tipo di chorus usi?

Uso un TC-Electronic SCF Chorus/Flanger. Inoltre ho usato anche il wah in un pezzo. La strumentazione che uso oggi è il risultato di anni di prove, ripensamenti, nel senso che come tutti ho comprato e venduto tanti strumenti. Per esempio, partendo dall'ampli iniziai comprando un testata e cassa, munito di loop effetti, diversi canali, ecc... Poi mi resi conto che per la mia musica usavo un solo suono sull'ampli, quindi mi son detto: "perché avere tutta ‘sta roba?!" Un amplificatore complesso fa compiere al segnale della chitarra un percorso più lungo e articolato, cosa che secondo me non aiuta il suono; così non hai il suono vero, diretto. Quindi pensai che avevo bisogno di un amplificatore primordiale, come la mia musica e più primordiale del Victoria non c'è niente! Infatti sono completamente soddisfatto di questo amplificatore. Un unico canale: più diretto di così!

E cosa ti ha portato a scegliere questa chitarra invece?

Questa è un'altra storia. Io sono un gibsoniano e mi piace il suono del pickup al manico. Però il pick al manico di una Gibson in distorsione non ha un suono molto definito, è un po' flautato e non mi piace. Prima avevo una Fender Robben Ford con la quale usavo il pickup al manico splitatto, cioè usavo un solo avvolgimento dell'humbucking. Il suono mi soddisfaceva (così ho registrato il mio primo disco The Other Side) perché riuscivo ad avere un suono grosso ma allo stesso tempo intelligibile, molto crunch, con il tipico edge che aiuta a rendere tutto chiaro ed intelligibile. Ma lo split è comunque un compromesso, perché ottieni sì un pickup a singolo avvolgimento, ma poco potente.

Non è mai uguale ad un singol coil vero.

Infatti. Un singol coil anche se vintage ha una resistenza di poco inferiore ai 6 kOhm, invece utilizzando solo una bobina di un humbucking stile vintage siamo intorno ai 4 kOhm. Questo compromesso non mi piaceva. Allora ho deciso di montare sulla mia chitarra un vero singol coil, dal suono bello grosso, grasso, e la scelta è caduta sul P90. Era quello il mio suono! Il suono del singolo al manico, il suono delle prime semiacustiche, primordiale, il suono di Grant Green, che io adoro. Grant usava un amplificatore Fender in studio, il suo meraviglioso suono leggermente distorto probabilmente era causato dalla scarsa potenza dell'ampli. Lui usava il P90 al manico ed io fin da piccolo adoravo questo suono. Scoprii Green grazie alla storica "Grande Enciclopedia del Jazz" (Edizioni Curcio) del mio batterista, avevo circa 15 anni. Dopo molti anni, quasi inconsciamente, sono tornato a ricercare quel suono.

E la Hamer?

Si tratta di una semiacustica bellissima, come l'ho sempre desiderata. È simile ad una 335 Gibson, ma un po' ridotta in scala e quindi più leggera. Ho dei problemi di schiena e dunque prediligo strumenti leggeri. In situazioni più pop uso sempre la mia Blade Texas Vintage 62, trovo che sia una chitarra molto versatile. Sia sulla Hamer che sulla Blade monto corde Galli RS 200, hanno diametro 010/046 e avvolgimento al nickel.

Come è nata la partecipazione di Scott Henderson nel tuo disco?

La partecipazione di Scott Henderson era un sogno che è divenuto realtà. Dopo il primo disco pensavo che il secondo avrebbe dovuto avere qualcosa di speciale, pensavo ad un ospite importante. Scott è il musicista di fama mondiale che conosco meglio, dai tempi del G.I.T.. Avevo già avuto modo di fargli ascoltare il mio primo disco e mi aveva fatto i complimenti, gli era piaciuto. Così l'ho contattato e lui è stato subito felicissimo di suonare nel mio disco. Ci siamo incontrati nella primavera del 2006 a Roma, in occasione del concerto di Scott Kinsey al Big Mama, e gli ho dato i brani da registrare. Lui ha registrato le sue parti di chitarra a casa sua, nel suo studio personale, come fa sempre. Queste sono state le uniche parti di chitarra non registrate live, per forza di cose naturalmente.

Per il resto hai registrato tutto il disco live, con la band in studio?

Tranne gli ospiti, il resto è tutto registrato live in studio. Oltre a Scott Henderson gli altri ospiti sono Marcello Coleman, che ha registrato le voci, e Giovanni Imparato, che ha registrato la voce e le congas su un pezzo.

Che cosa significa per te suonare la chitarra in un disco che vede la partecipazione di un chitarrista di fama mondiale come Scott Henderson?

È una cosa pericolosa, significa che sono un temerario! Eh, eh! [ride]. Chiesi a Steve Khan cosa ne pensasse della partecipazione di Scott e mi disse che non è una buona idea far suonare un chitarrista in un disco di un chitarrista. Diceva che avrei sentito la presenza di Scott Henderson in studio, che avrebbe condizionato il mio modo di suonare, avrebbe peggiorato il mio playing. Mi consigliò di contattare un musicista che suonasse un altro strumento perché la presenza di Scott Henderson mi avrebbe distratto dalla musica ed avrei potuto avere un approccio più tecnico e meno sincero. In realtà non è andata così e sono stato fortunato per questo. Quando ho registrato avevo tante cose a cui pensare che non ho avuto il tempo materiale di pensare a Scott, me n'ero completamente dimenticato [ride]; sono anche il produttore del disco e oltre a suonare la chitarra dovevo badare anche a tutte le parti degli altri strumenti, ai suoni, ai take, ecc....

Sei riuscito a vivere la cosa col mood giusto.

Esatto! Proprio perché avevo altro a cui pensare. Piuttosto è successo il contrario: alla fine riascoltando il disco mi sono accorto che i due pezzi in cui suona Scott sono proprio quelli che prediligo per le mie performance solistiche, ma senza che lo avessi voluto coscientemente.

Qual è il tuo approccio alla composizione, come scrivi i tuoi pezzi?

In questo genere musicale cerco ciò che si chiama "hook", il gancio. Nel funk ho bisogno di un riff, di un qualcosa che dia forza al pezzo. Di solito è una linea di basso. Trovato il riff di basso si instaura il groove, con basso e batteria; dopo nasce l'idea melodica. Altre volte parto da una vamp di accordi. Talvolta può succedere che nasca prima la melodia, ma subito sento spontanea la linea di basso ed il groove. Questa di solito è la parte "A" del pezzo, il tema principale. È la parte istintiva, il momento creativo, la composizione spontanea. Poi viene il "B", il continuo del pezzo, che è la parte più impegnativa della composizione, in cui bisogna lavorare di più. È là che mi vengono in aiuto tutte le mie conoscenze musicali.

La tecnica.

Esatto. Però cerco di usare un sistema che non soffochi la spontaneità: ogni tanto mi suono la parte già composta per trovare altrettanto spontaneamente un continuo. Ci provo per 10-15 minuti, giusto il tempo per vedere se viene fuori qualche cosa di buono. Poi un bel giorno, per magia, arriva il continuo.

Secondo te come si sta evolvendo la musica strumentale ed il jazz nei giorni nostri?

Secondo me le cose più interessanti sono quelle che vanno oltre il jazz. I personaggi più interessanti sono quelli che tendono ad usare l'elettronica nel jazz, i computer e gli altri aggeggi elettronici. Ovviamente fanno cose interessanti i creativi, quelli che hanno delle idee ed usano le macchine non per maschere delle lacune o una mancanza d'idee, ma per trovare nuove strade. Mi riferisco a personaggi del calibro di Eivind Aarset o lo stesso Scofield in dischi come Überjam, oppure Up All Night, dove tra i musicisti compare anche il laptop, il computer portatile, come un altro strumento. O ancora Nils Petter Molvaer, il trombettista con cui suona Eivind Aarset, anche lui usa molto i loop. Mi interessano tutti quelli che si muovono in questa direzione, credo che sia una zona nuova, da esplorare. Credo pure che la musica sia stata sempre viva dal punto di vista della creatività. Puzza di retorica il discorso che oggi non ci sono più idee. Bene o male c'è sempre gente interessante in giro, gente creativa; c'è sempre stata e credo che ci sarà sempre. Il problema della musica, piuttosto, è un problema commerciale, il download illegale ed il poco interesse per la musica strumentale o per la musica comunque di ricerca, questo è il vero problema della musica. I musicisti oggi si trovano in una condizione difficile per sopravvivere. Credo che sia questo il dramma della musica oggi.

Quindi non sei a favore del peer to peer e del formato mp3?!

Da un lato sì. È bello che tutti possano condividere musica senza pagare, possedere centinaia di dischi a prescindere dalla classe sociale. Io essendo figlio di operai avevo un budget ridottissimo e dovevo stare attento a quanti dischi compravo. Oggi puoi trovare tutti i libri ed i dischi che vuoi, però ‘sta cosa danneggia molto gli artisti, chi scrive i libri, chi fa i dischi. Se non c'è un ritorno economico non si può investire in nuovi progetti e quindi finisce l'opera artistica.

E riguardo al formato mp3?

Il suono dell'mp3 è molto più povero di quello di un CD. Io tra l'altro vengo dal vinile e quindi ho una cultura del suono molto radicata. Mi piace che la musica si senta bene, con un suono "grosso"; il suono dell'mp3 invece è piatto e bidimensionale. Questo formato da un lato ti dà il vantaggio di poter essere scambiato in rete rapidamente perché è meno pesante, ma il suono non è assolutamente lo stesso di quello del CD; ovviamente di un CD registrato bene!

Un'ultima domanda: cosa consigli ad un giovane che oggi si avvicina alla musica, al canto o ad uno strumento?

Di getto mi viene da dire –Non farlo-!!! [ridiamo]. Volendo essere più seri, direi che è importante amare veramente la musica. Spesso si può cadere nell'errore di fare musica per apparire, per stare su un palco. Invece se uno ama la musica ha la possibilità di vivere un'esperienza davvero unica e di poter arrivare lontano, perché senza l'amore per la musica, visti tutti gli sforzi richiesti per vivere questo viaggio, non si arriva molto lontano. Il consiglio è quello di ascoltare buona musica e di suonare con quante più persone è possibile, di non snobbare nessuno perché suonare insieme ad altri è anche un'esperienza sociale, un condividere qualcosa insieme ad altri e si cresce comunque. Poi consiglio di studiare tanto, studiare più che si può; tutto ciò che investiamo, le nostre energie, il nostro tempo, prima o poi darà i suoi frutti: è come un salvadanaio, alla fine trovi ciò che ci metti! Più passano gli anni, più aumentano le responsabilità e meno tempo si ha per studiare. Quindi ad un giovane sento di consigliare vivamente di non perdere tempo, di studiare il più possibile in quell'età in cui si dispone di più tempo libero.







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Bern 1998 Switzerland. Joe Henderson - tenor; John Scofield - guitar; Conrad Herwig - trombone; Tommy Flanagan - piano; Georg Mraz - bass; Bill Stewar...
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Miles Davis & John Scofield
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COMMENTI
Inserito il 1/4/2011 alle 0.24.17 da "mauroviglione2010"
Commento:
maestro sono un tuo ammiratore ,ti faccio i migliori auguri per tutti i progetti futuri.un abbraccio da mauro , per gli amici omauro.
 


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Data pubblicazione: 16/03/2008

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