European Jazz Expo 2010 di Daniela Floris
foto di Daniela Crevena
In una Cagliari tiepida malgrado la stagione autunnale, l'EJE è andato in scena
in una versione ridotta rispetto alle precedenti, il che ha permesso di seguire
tutti i concerti svoltisi all'Auditorium del Conservatorio ed al Teatro Lirico.
Non solo jazz bisogna dire (Pino Daniele, Paco De Lucia, Lee Ritenour
tra i grandi nomi coinvolti), e una grande attesa per la prossima edizione, presentata
in una affollatissima conferenza stampa, per la quale è prevista l'apertura del
grande spazio del Parco della Musica e un programma ricchissimo di nomi ed
eventi, non più a novembre, ma nel mese di maggio, turisticamente più promettente
e dunque più consono all'eco internazionale che gli organizzatori si ripropongono
di ottenere.
L'apertura del Festival è affidata al jazz innovativo di Francesco Bearzattied al "Tinissima Quartet" (Giovanni Falzone alla tromba, Zeno
De Rossi alla batteria e Danilo Gallo al contrabbasso), con il nuovissimo
progetto dedicato a Malcom X, una suite composta di dieci titoli eseguiti
senza interruzione. Potrebbe risolversi in un ascolto impegnativo ed invece l'ora
abbondante di concerto scorre destando continuamente l'attenzione in un susseguirsi
di atmosfere, episodi evocativi, suggestivi o onomatopeici, citazioni, contrasti
ritmici e sonori. Un progetto ambizioso, "intellectual" da un certo punto
di vista ma che non arriva ad avere quella "spocchia" che spesso connotano
simili iniziative, togliendo il senso alla musica vera e propria quasi per "nobilitarla",
come se un linguaggio, per essere completo (e compreso), avesse bisogno di un altro
linguaggio. La musica in questo caso rimane l'unica forma espressiva, alla quale
il progetto culturale sottende come un canovaccio, un vero e proprio percorso drammatico–descrittivo
in note. I contrasti tra "afro" e "americano" sono palesi e parlano di conflitto,
si passa da atmosfere "country" o "disco", con citazioni "pop",
a suoni ovattati, a ostinati ipnotici e tutti i suoni possibili dei sassofoni e
della tromba, allo scat di Falzone, alle note esili e altissime del sax tenore tenute
a lungo, con basso e batteria che disegnano lo sfondo dell'affresco. Tempi dispari,
cellule melodiche reiterate che parlano di angoscia ed alienazione, sax e tromba
che procedono omoritmicamente per terze, il tutto in un flusso coinvolgente per
il pubblico ma anche per gli stessi musicisti, che termineranno la performance in
una sorta di omaggio silenzioso fermi in piedi davanti al pubblico (e di spalle)
mentre l'"Epilogue" scorre con la voce di Napolean Maddox.
Il tempo di un cambio palco e si cambia anche completamente atmosfera: dal jazz
sperimentale–intellettuale alla fusion di Lee Ritenour, inossidabile,
funkeggiante, virtuoso, accompagnato da una notevole band (Melvin Davis basso,
Patrice Rushen tastiere, Edward 'Sonny' Emory batteria) che ne asseconda
e ne sottolinea integralmente il mood che lo ha reso famoso in tutto il mondo. E'
una fusion curatissima, certamente priva di nuovi spunti, ma in fondo chi ama il
genere e Lee Ritenour (che festeggia quest'anno i 50 anni di carriera) quanto ascoltato
è, giustamente, ciò che si aspetta ed il risultato è certamente piacevole e di alto
livello.
Come anticipato, l'EJE di quest'anno è stato un festival in cui il jazz ha viaggiato
insieme a molteplici altri generi musicali che con il jazz, o il blues, hanno comunque
qualche legame, ed in questo senso si legga dunque il concerto di Pino Daniele,
in gran forma, che ha fatto cantare la platea gremita scegliendo di ripercorrere
tutti i suoi successi più amati rivisitati con nuovi arrangiamenti, e riproposti
ad un pubblico affezionatissimo, in particolare, al Pino Daniele della prima fase,
quella più musicalmente legata al blues piuttosto che al pop: tutti brani che si
ritrovano nel suo nuovo lavoro "Boogie Boogie man". Le linee melodiche delle
canzoni di Daniele sono indiscutibilmente belle e suggestive e connotate da una
(accattivante) "napoletanità": ad ascoltarlo dal vivo viene da pensare che
questo maturo e autorevole artista potrebbe cambiare pagina senza perdere neanche
un briciolo del suo pubblico, lasciandosi alle spalle effetti fumo, pop/rock, rimpicciolendo
la compagine della sua band e tramutando i suoni verso una più intima suggestione
acustica: non tanto per una ricerca di raffinatezza stilistica fine a se stessa,
ma per una rilettura sonora ancora da scoprire e che probabilmente darebbe molte
sorprese. Notevoli i musicisti che hanno affiancato Daniele sul palco, uno fra tutti
il potentissimo batterista Omar Hakim, ex Weather Report, ma anche
Rachel Z
al piano, Solomon Dorsey al basso, inarrestabile, Mel Collins al sax
e Gianluca Podio alle tastiere.
Il legame con il blues e in certo qual modo con il jazz tenuti in vita da Pino
Daniele si assottigliano divenendo impercettibili con il concerto di Chiara
Civello, cantante e autrice certamente abbastanza talentuosa da poter lavorare
oltreoceano, ma che con il jazz oramai non presenta davvero più nulla a che
vedere, e della quale si giustifica la presenza all'EJE solo pensando che in realtà
questo Festival abbia aperto le finestre, come dicevamo, a vari generi musicali.
Chiara Civello canta proprie composizioni e classici della canzone d'autore
(tra cui Sergio Endrigo) accompagnandosi anche con chitarra e pianoforte; non è
chiaro se l'operazione sia quella di "intellettualizzare" la musica leggera
facendola penetrare nel mondo del jazz, o al contrario facendo entrare un nonnulla
di jazz nel mondo della musica leggera. Il risultato è piacevole ma, ad essere sinceri,
nulla di più. Non tanto perchè la Civello non sia brava, assolutamente, ma perchè
in questo ambito è parsa piuttosto "fuori contesto", leggera come la sua
musica. Come un po' fuori contesto (rispetto non certo al festival ma al genere
di musica) sono apparsi i musicisti che l'hanno accompagnata in questo concerto:
i bravi Marco Siniscalco al basso, Fabrizio Fratepietro alla
batteria, Antonio Iasevoli alla chitarra.
Il concerto che segue dopo il cambio palco è anche stavolta (come il giorno prima
tra Bearzatti e Ritenour) in fortissimo contrasto con il precedente: vanno in scena
Antonello
Salis, (pianoforte ed accordion) Gavino Murgia (sax),
Paolo Angeli (chitarra sarda preparata) e Hamid Drake
(batteria e tamburo a cornice), con il progetto "Giornale di bordo". Come
per Francesco Bearzatti,
siamo davanti ad un jazz completamente fuori dal "mainstream", e anche in questo
caso molto spazio è dato ad un'improvvisazione più che estemporanea, una ricerca
dei suoni e delle suggestioni reciproche tra musicisti che nasce al momento. Il
concerto si apre in un'atmosfera sospesa, destrutturata, con il sax soprano di Murgia
distorto elettronicamente e che si libra su un sottofondo di suoni "naturali". Questo
episodio iniziale "onirico" sfocia ben presto nell'entropia totale di dissonanze,
ritmi martellanti ed energia allo stato puro, in cui i musicisti si lasciano andare
alla creatività più istintiva possibile, per poi ritornare ad un tranquillo e fluttuante
mood "orientale". Si strutturano quindi "ponti sonori" di raccordo (che tendono
ad un respiro tranquillo quasi meditativo) tra episodi energici, percussivi e spesso
volutamente urlati e a pieno spessore sonoro, contrasti acustici dunque quasi da
cardiopalma. Salis al piano indugia con la destra sul registro acutissimo e con
la sinistra sull'estremo opposto, l'amore per il contrasto emerge da ogni punto
di vista, anche tra il suono dolce della chitarra sarda di Angeli e il "cantu a
tenore" ipnotico di Gavino Murgia. Non mancano episodi melodici molto suggestivi,
legati alla musica tradizionale, durante i quali si viene irrimediabilmente agganciati
in una sorta di "incanto uditivo": fino a quando non si viene di improvviso gettati
nelle parti atonali, durante le quali il segreto è invece mollare gli ormeggi e
farsi sovrastare di suoni impazziti. La batteria di
Hamid Drake
è a volte poetica a volte addirittura violenta ed ha un dialogo preferenziale con
Antonello
Salis. Uno degli ultimi episodi veramente notevole è la rilettura entropico/jazzistica
della struttura ripetitiva tipica del balletto sardo, che per chi vi scrive, sarda
di origine, è stata veramente emozionante. Un jazz sperimentale estremizzato ma
saldamente intrecciato alla Sardegna archetipica, e che risulta difficile ma estremamente
coinvolgente.
E' sempre emozionante ascoltare Paco De Lucia apparso, qui a Cagliari,
veramente al meglio, in un'ora e mezzo di flamenco da lasciare senza fiato per l'intensità
espressiva e poetica dimostrata da questo gigante della chitarra e dai suoi musicisti.
I lamenti delle voci e delle chitarre sono talmente pulsanti e "terrestri" e così
poco rassegnati da diventare sanguigni e vibranti, ed è immediata la sensazione
di essere avviluppati in un'atmosfera solo apparentemente ripetitiva. In realtà
è un mondo espressivo che riesce a stupire e coinvolgere sia nei suoi momenti morbidi
che in quelli più secchi e addirittura "taglienti", poichè le varianti ci sono eccome:
ondate di intensità che gradualmente si assottigliano e si inspessiscono, in cui
persino i battiti di mano (precisi come orologi) hanno dinamiche raffinatissime;
contrasti tra la tastiera e le chitarre acustiche; e poi le voci, così connotate
e preziose per la tipica emissione vocale legata a questo genere musicale, preziose
come è prezioso il "canto a tenore" sardo di Gavino Murgia, perchè pregne
di secoli di cultura tradizionale, e fondamentali in un mondo musicale oramai quasi
sempre omologato e da "cartolina". Così come fondamentale è stato l'apporto del
ballo di Farru, (Antonio Fernandez Montoya), strutturando momenti di pause
tensive proprio (non a caso) sugli accordi di settima di dominante che sprigionano
tutta quella tensione nel risolversi sull'accordo di tonica. I piedi del ballerino
si uniscono con la loro valenza ritmica al resto della compagine strumentale, e
il tutto ha un sapore di drammaticità assertiva, ribelle ed energica.
Concerto innovativo e davvero molto interessante quello di Marc Ayza,
giovane batterista – pianista e compositore di Barcellona che propone una sorta
di Hip Hop – Rap acustico: un rapper (Core Rythm), appunto, e poi pianoforte,
contrabbasso e batteria, con aggiunta di dj (Dj Helios) che "scratcha"
su vinile, come in discoteca. Gli arrangiamenti sono di gusto, gli strumentisti
eseguono del buon jazz rivisitato con stilemi degli anni più recenti, proponendo
un jazz funk di buon livello. Episodi basati sulla ripetitività ipnotica tipica
di un certo Hip Hop meno commerciale (frasi ripetute allo spasimo dal rapper Core
Rythm), intro di pianoforte (Franco Piccino) molto jazzistiche, come
molto jazzistico è il contrabbasso di Tom Warburton, il tutto è apparso molto
garbato e di buon gusto. I brani (quasi tutti tratti dal cd "Offering") sono
ben assemblati in un riuscito mix di improvvisazione e di cura del particolare.
Spesso partono da un inizio in totale relax per poi intensificarsi ed accelerare.
Come batterista Ayza è certamente talentuoso e tende ad amalgamarsi con il resto
del gruppo cercando (e trovando) una efficace coesione sonora, anche negli improvvisi
cambi di registro. Quando vi sono ripetizioni quasi ossessive di cellule melodiche,
la batteria compensa con una notevole creatività improvvisativa. Sicuramente la
vera sorpresa dell'EJE.
Dal Jazz – novità di Marc Ayza, sempre nel segno del contrasto, sale sul
palco un leone del sax, David Sanborn, accompagnato da un altro virtuoso,
Joy di Francesco, con il suo organo Hammond, ed insieme ripercorrono il meglio
del soul e del Rythm&Blues, in linea con il nuovo cd di Sanborn, dedicato a Ray
Charles, "Only everything". Come per il concerto di Ritenour, è musica
che volutamente non innova e così facendo non tradisce le aspettative del suo pubblico:
Sanborn è uno stilista del sax, il suo suono, echeggiante e pieno, è inconfondibile,
così come il suo fraseggio, le sue note lunghissime, i suoi vibrati. E' un virtuoso
del quale si apprezza più che l' espressività il perseguire della bellezza del suono
del suo strumento, e in fondo è anche piacevole e rassicurante risentire tutti gli
stilemi tipici, ad un soffio dallo stereotipo, del soul e del R&B: patterns, frasi
ripetute su accordi più che codificati, raddoppi di tempo; Sanborn non lascia nulla
all'immaginazione, esegue ad una ad una tutte le note che ci si aspetta che esegua,
non aggiunge ne' toglie, percorre una strada già percorsa ma con la cura e la maestria
del grande ed esperto sassofonista: ed il pubblico, in effetti, applaude – giustamente
– entusiasta.
Finisce con Sanborn questo week end di musica non solo jazz, ed il bilancio può
considerarsi positivo: si possono delineare suggestioni comuni "trasversali" tra
artisti diversi (una moderna valenza "ipnotico rituale" ad esempio in
Francesco Bearzatti
e Marc Ayza; una forte componente "Etnico – tradizionale" ad esempio
in Salis – Murgia – Angeli e Paco De Lucia; i legami con il pop e/o
il R&B o la fusion in Sanborn e Ritenour ma anche in Pino Daniele).
Il Jazz "vero e proprio", pur nelle profonde differenze stilistiche è stato
decisamente percepibile nei concerti di Bearzatti – Falzone, Salis
– Murgia, e Marc Ayza. L'innovazione è ascrivibile proprio alla
musica di questi ultimi tre. E' apparsa isolata dal contesto la cifra stilistica
di Chiara Civello, che come legame con il jazz ha avuto forse quello di avvalersi
della collaborazione di validi jazzisti che comunque non hanno suonato jazz, ma
musica pop di buona fattura.
E' importante sottolineare che parallelamente, anzi intrecciate alla musica,
ci sono state le belle ed intense "Conversazioni d'autore" organizzate dall'Associazione
Culturale "Prohairesis" nella rassegna "Leggendo Metropolitano", che hanno
preceduto i concerti all'Auditorium del Conservatorio, e che sono consistite in
interviste aperte con scrittori riguardanti il loro rapporto con la musica ed in
particolare con il Jazz: dunque Vittorio Jacopini (autore de "Il ladro
di suoni" – Ed. Fandango, legato alla storia molto "jazzistica" di Dean Benedetti
e del suo maniacale lavoro di registrazione dei soli di Charlie Parker), Francesco
Forlani e Grazia Verasani (scrittrice musicista), hanno parlato dei loro
lavori in una forma libera con Sergio Bononi, a metà tra la conversazione
e la vera e propria "performance" (quale quella appunto di Forlani), e che hanno
aperto le porte dei suoni alla letteratura e alla parola. Un importante valore aggiunto
nell'ottica del superamento dei soliti "compartimenti stagni" tra le arti.
Intervista a Viviana Maxia:
Ricordo di Roberto Aymerich
Daniela Floris e Daniela Crevena incontrano Viviana
Maxia per ricordare il fotografo Roberto Aymerich: un pomeriggio di
racconti, parole ed immagini.
Jazzitalia da ora in avanti dovrà rinunciare al prezioso aiuto di Roberto Aymerich,
che da Cagliari ogni anno mandava le sue foto che parlavano degli eventi
dell'European Jazz Festival e di tutto il jazz che va in scena
in Sardegna. Roberto combatteva con una malattia insidiosa degli occhi,
il glaucoma, che ha preso via via il sopravvento, togliendogli non solo
gradualmente la vista ma purtroppo anche la forza di lottare e la speranza
di guarire: per un fotografo perdere la vista è naturalmente l' evento
più angosciante e definitivo che possa capitare. Viviana Maxia,
che è tra le poche donne in Italia a scrivere di Jazz, è stata la sua
compagna amatissima negli ultimi due anni di vita, e con lei ricostruiamo
il lavoro, le passioni, la figura così particolare di questo fotografo
appassionato di musica, e che ha dato agli articoli di Viviana (lei
stessa collaboratrice di Jazzitalia) colori ed immagini. (click)