Genova 23 luglio 2010
Ornette Coleman Quartet
Ornette Coleman - alto sax, trumpet, violin
Alan Mcdowell - guitar
Tony Falanga - bass
Denardo Coleman - drums
Scrivere oggi di un concerto di
Ornette Coleman è impresa assai ardua, ai limiti dell'imbarazzante.
La distanza che passa tra l'Ornette di "Tomorrow Is The Question"
e l'odierno è inversamente proporzionale a quella tra il sassofono in plastica
bianca tenuto insieme da elastici e nastro adesivo e quello luccicante in
ottone smaltato di oggi, smaltato di bianco ovviamente. Ornette superstar
della storia del jazz? Ornette, tra gli ultimi "sopravvissuti" di una specie
tutto sommato in via di estinzione. Ornette superstar del piccolo grande
mondo dello showbiz legato alle musiche afroamericane, simulacro di quell'avanguardia
free che rappresenta una delle ultime "rivoluzioni" nella, ormai non più
breve, storia del jazz? L'avanguardia del free sorta sul finire degli anni
'50 pare ormai metabolizzata e digerita dal carrozzone festivaliero italiano,
più nella superficie dei suoi aspetti formali, libertari e ideologico politici
che non nella sua sostanza sociale e musicale.
Ornette superstar suo malgrado. Biglietto a prezzo immotivatamente
elevato (38 euro in platea con prevendita rasentavano il doppio del prezzo
delle altre date) e una distinzione in settori che è sembrata fuori
luogo. Risultato: platea piena e spalti a metà, per un'affluenza tutto sommato
modesta se consideriamo l'importanza storica del personaggio. Stiamo parlando
di
Ornette Coleman e non di una popstar, anche nostrana,
il divario rimane incolmabile. Il pensiero corre allora al concerto di Billie
Holiday a Milano con la platea semivuota (raccontato mirabilmente da Polillo
promotore della data), e corre all'ultimo Lester Young e a
Bud Powell.
Qui come allora in realtà non molto è andato perduto della forza evocativa
e della poesia di una musica di originalità assoluta. Qui, come - e diversamente
da allora - le difficoltà psico-fisiche hanno condizionato e compromesso
pesantemente la qualità della musica ascoltata. In Ornette però l'aspetto
compositivo e di concezione generale della musica sono sempre stati di fondamentale
e primaria importanza e questo fattore rappresenta un vantaggio.
Sul primo brano preso "a freddo" su un tempo sostenuto
le difficoltà di emissione e di articolazione delle frasi emergono da subito
prepotentemente. Meglio le cose nel seguente tema (splendido e straziante),
quello Snowflakes che rimane uno dei vertici delle serate storiche
al Golden Circle di Stoccolma immortalate dalla
Blue Note.
E' il timbro scuro dell'archetto di Tony Falanga a sostenere il tutto;
ciò accade per tutto il concerto e Falanga appare il vero fulcro e motore
della musica. Meglio ancora nel terzo brano su un ritmo swingante e nel
brano successivo con nuovamente l'archetto di Falanga e radi suoni della
chitarra di McDowell. E' un blues lento dal tema accorato e straziante come
solo Ornette sa scrivere ed è poesia intatta e cristallina. L'Ornette superstar
è il primo a non credere in questo ruolo e continua (come sempre) ad eseguire
la sua musica, assolutamente personale ed incurante di ogni possibile moda.
Rimane immobile sulle proprie posizioni e scelte, con gli infiniti meriti
e i pochi difetti che però oggi prendono il sopravvento perlomeno da un
punto di vista tecnico. Problemi di emissione e di articolazione del fraseggio
rendono diversi assoli degli abbozzi incompiuti. Ma la poesia è ancora lì,
intatta e quasi come cristallizzata e nulla può far pensare ad un musica
concepita, nelle sue fondamenta, nei primi anni
'60.
Poi Turnaround in cui la matrice blues
(rhythm&blues) troppo scoperta e banalizzata, unita ad un ritmo eccessivamente
lento rendono imbarazzante un qualsiasi possibile confronto con la versione
originale: Denardo Coleman (elemento debole del gruppo) non è Shelly
Manne e Alan McDowell è chitarrista anonimo e privo di idee. I due
insieme obbligano Ornette a rifugiarsi in una serie di acuti ripetuti involontariamente
strazianti.
Poi un brano su un ritmo free-funk in cui riemergono
inesorabili le difficoltà ed i limiti. E ancora Falanga con l'archetto,
con intonazione perfetta e cavata profonda e sicura, esegue il tema di una
delle Suite per violoncello di Bach, mentre Ornette continua a prodursi
in fraseggi discontinui, scomposti e in sovracuti, ora in assonanza ora
in discordanza con l'atmosfera generale del brano. Onestamente un pastiche
incomprensibile che diviene difficile pensare sia nato da Ornette e che
probabilmente è firmato da Tony Falanga.
Poi ancora un blues d'antan con un tema indimenticabile,
eseguito con giovanile baldanza dai tre e Ornette a corto di fiato che non
riesce ad esporre il tema per intero, forse non ricordandolo completamente,
forse per conservare il fiato per l'assolo. Che arriva inesorabile ed è
ancora una volta una serie di sovracuti a denuciare con un grido la propria
impossibilità fisica di una articolazione di fraseggio ed un controllo dell'emissione
non più possibili. I pochi frammenti di energia lasciano intravvedere una
lucidità di pensiero musicale quasi intatta.
E poi ancora Falanga all'archetto che esegue l'attacco
del Sacre di Stravinsky con la chitarra e i sovracuti di Ornette
fuori contesto. Un altro parto inverosimile di Falanga?
Ancora un brano su ritmo sostenuto e scomposto secondo
la logica free-funk, con Denardo in evidenza e con lui tutti i suoi limiti.
Anche se Denardo, oggi più che cinquantenne, non è più quello dell'album
"At Twelve" e ha completamente metabolizzato l'estetica e i ritmi
scomposti del free-funk, tutto avviene in modo sgraziato e goffo, senza
controllo delle dinamiche e alcun guizzo di intelligenza musicale degno
di nota. E poi Little Simphony, una delle invenzioni più irresistibili
di Ornette nella sua carica ipnotica e nella esibita banalità e cantabilità.
Caratteristiche che sollecitano il gruppo e Ornette appare più attivo e
concentrato, fors'anche per la coscienza che il concerto sta per finire.
Un ultimo brano su un ritmo ancora tirato e sostenuto,
da Falanga prevalentemente, con Ornette più presente e tutto il gruppo risulta
concentrato, senza suonarsi addosso.
Applausi e fischi di approvazione in quantità indistintamente
elargiti strappano un sofferto bis. Ornette suona in piedi ora uno dei più
bei temi della storia del jazz quel "Lonely Woman" originariamente
in apertura di "The Shape Of Jazz To Come" è entrato di prepotenza
nel repertorio dei musicisti e dei cantanti più attenti. Alzandosi in piedi
il suono ne guadagna e diventa più pieno e penetrante. Commiato dal pubblico
plaudente in piedi a manifestare il proprio gradimento, per un concerto
sovente imbarazzante e per omaggiare un pezzo vivente di storia del jazz.
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Genova 25 luglio 2010
Brass Bang!
Paolo
Fresu - tromba, flicorno
Steven Bernstein - tromba, tromba a coulisse (slide
trumpet)
Gianluca Petrella
- trombone
Marcus Rojas - tuba
Inizio di concerto "folgorante": nessuno sul palco e
i suoni (registrati? eseguiti dal vivo?) che provengono dai quattro angoli
dell'Arena del Mare; poi le voci narranti in sequenza/sovrapposizione. Vengono
così messe in gioco da subito le coordinate culturali e musicali del gruppo
e della musica che ascolteremo: approccio giocoso, volontà di mischiare
le carte e i generi, utilizzo aggiornato, ironico e disinvolto dell'elettronica,
musica come teatro e narrazione.
Poi l'ingresso dei musicisti e un tema suadente, Zero
di Lester Bowie e la sua Brass Fantasy, dà inizio alle "danze". Rojas
e Fresu in evidenza, con il loro timbro levigato e centrato. Subito,
con forza e chiarezza, appare come la musica dei BrassBang! sia quanto di
più lontano da una jam session, anche se la formazione è stata messa insieme
per caso e per gioco, come gustosamente le presentazioni raccontano e come
riporta Fresu in apertura. I brani appaiono scritti, arrangiati e accuratamente
provati dai quattro che hanno raggiunto un interplay e una coordinazione
sopraffini. Abilità tecnica, personalità spiccata, doti compositive non
comuni, musicalità assoluta, rispetto e stima reciproca, voglia di divertirsi
e divertire: tutte componenti che galvanizzano la formazione che riesce,
grazie soprattutto al tuba di Rojas, a produrre uno swing irresistibile.
Per un istante ci stupiamo che una formazione senza l'amato
contrabbasso e la batteria riesca a produrre un tale swing ed un impulso
ritmico così poderoso, poi rammentiamo subito di come, prima dell'invenzione
del walkin bass, fosse proprio il tuba a fornire la propulsione ritmica
e ci torna alla memoria lo swing esilarante e impeccabile delle formazioni
di Jelly Roll Morton e Fletcher Henderson.
In Dissonanze Cognitive di Fresu bastano due sordine,
nel flicorno di Fresu e nel trombone di Petrella, per virare completamente
la tavolozza timbrica della formazione e a ricordarci ancora come siano
stati gli ottoni, prima e più delle ance, gli strumenti cardine del linguaggio
musicale che siamo soliti chiamare jazz. Nel seguente Chorale firmato
da Rojas le canne degli ottoni si trasfigurano in quelle dell'organo da
cui discendono. Da suoni sparsi e spaziati, figli di un puntillismo sonoro
che ha nell'avanguardia euro colta, e più vicino nel Rova, i diretti progenitori,
nasce e cresce lentamente l'Ellingtoniano Rockin' In Rhythm: esilarante,
travolgente, reso senza apparente sforzo dalla Brass Bang con ancora lo
swing poderoso del tuba di Rojas. E poi arriva un brano più avanzato nella
concezione e nelle soluzioni timbriche e di sviluppo formale, in cui la
voce registrata e i suoni (registrati e no) sono abilmente e sapientemente
mischiati. Come la scaletta poi ci conferma, si tratta di Shorty,
un brano che non poteva non essere parto della sapienza e fantasia di Bernstein.
Poi la "sezione" delle trombe è contrapposta a tuba e trombone con una abilità
di scrittura rare che simula una concezione "orchestrale" strabiliante per
un quartetto di fiati. Da un piano l'energia cresce ma sempre subordinata
ad un controllo formale e delle dinamiche assoluto. A tali caratteristiche
si uniscono in ogni istante uno swing poderoso e trascinante, grande relax
ritmico e divertimento che fanno della Brass Bang! una delle formazioni
più divertenti ed interessanti in circolazione.
Suoni gracchianti tenuti contrapposti a piccole percussioni
aprono Electric Clam e Mongole Elettri (di Fresu il primo,
di Petrella il secondo) in successione senza soluzione di continuità. Poi
un pedale elettronico agghiacciante e Rojas a strapazzare i piatti per un
brano dai tratti apocalittici. Finito il diluvio tutto si placa su una sequenza
del tuba di Rojas, dalla quiete emerge un tema pacificante affidato alla
tromba di Bernstein che ci conduce al bel tema di Mick Jagger As Tears
Goes By reso qui con sapori e timbri dichiaratamente gospel. Petrella
e Rojas improvvisano un dialogo vocalizzante e serrato, che diventa subito
swing e pura percussione sugli strumenti. E poi ancora un uso accorto e
sapiente dell'elettronica ad omaggiare Hendrix e per suo tramite il miglior
Gil Evans. Ancora vapori sonori e poi il flicorno di Fresu a campana aperta
canta e ci conduce ad un tema tradizionale sardo, accorato e dolente come
una banda ad un funerale o ad una processione.
E' di nuovo il tuba di Rojas a dettare le coordinate
ritmico timbriche della bella chiusa. Brano che nasce dal nulla su una sequenza
ritmica, poi la tromba sordinata di Bernstein improvvisa senza citare il
tema che arriverà, lentamente e gradualmente, solo più tardi e sarà un gustoso
e sentito omaggio all'Italia, al mare e a Genova con un brano di uno dei
più interessanti e sottovalutati cantautori del dopoguerra italiano, quel
Fred Buscaglione autore tra l'altro di questo conclusivo Guarda Che Luna.
..::Foto di
Massimiliano Farinetti::..
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