29 luglio 2010
Teatro La Fenice Paco De Lucia Band Paco De Lucia - chitarra
Antonio Sanchez - chitarra
Alain Perez - basso elettrico
Piranha - percussioni
David De Jacoba - voce
Duquende - voce
Antonio Farruco - danza
1°Agosto 2010
Palazzo Grassi Paolo Fresu e Daniele Di Bonaventura Omaggio a Hugo Pratt Paolo
Fresu - flicorno Daniele Di Bonaventura - bandoneon
Pino Ninfa - Progetto e immagini
Veneto Jazz continua ad avere successo a Venezia, con la terza
edizione del Jazz Festival, anche se non tutti i concerti di richiamo, come sta
succedendo un po' ovunque, propongono musica definibile come jazz.
A 33 anni dalla costituzione, arrivato
ai 56 anni di età,
Pat Metheny
corona uno dei suoi sogni, esibendosi in Piazza San Marco alla testa del
Pat Metheny
Group, che non è più la formazione ampia cui eravamo abituati, bensì un quartetto.
Il chitarrista del Missouri è in grado di crearsi uno tra i più vistosi casi di
consenso e riuscendo a mantenerlo per un così esteso arco di tempo, così ha fatto
sfiorare il tutto esaurito anche nella città lagunare, dov'è accorso un pubblico
emozionatissimo nell'ascoltare il proprio beniamino immerso in uno storico contesto
ambientale. La durata del concerto supera di poco i 100 minuti durante i quali vengono
eseguite 12 composizioni più due bis. Sin dalla prima, "Phase Dance", dalla
ritmica funkeggiante e con un riff che si ripete, inserito in un orecchiabile tema
melodico, sia il leader che gli affiatati partners – il pianista Lyle Mays,
cofondatore del Group, il bassista Steve Rodby, che vi entrò nel
1981 e il giovane batterista messicano Antonio
Sanchez, inseritosi nel 2003 – dimostrano
di essere in ottima forma. Metheny, assistito da tecnici più veloci della luce,
cambia chitarre in continuazione, senza alcuna pausa tra un pezzo e l'altro, il
che dà allo spettatore la sensazione di ascoltare una lunga suite. Il terreno preferito
su cui si muove il chitarrista è quello della melodia, in modo da rendersi accessibile
ad un pubblico eterogeneo, che ad ogni assolo rimane ipnotizzato dalla tecnica e
dalla pulizia sonora, soprattutto negli episodi più vicini al jazz. In quelli più
leggeri, il leader spesso utilizza la chitarra synth, con la consueta espressione
rapita e una tensione che cresce fino ad esplodere. Immancabile l'intermezzo in
solitudine con la chitarra Pikasso, dotata di 42 corde e inventata dal musicista
stesso insieme alla maestria liuteristica della canadese Linda Manzer, per eseguire
"Into the dream", un pezzo che richiama la tradizione celtica, in primis,
e, comunque, catalogabile come "new age". Ovazioni quando il gruppo attacca
"Last train home", che risale al 1989
e per cui venne girato un gettonatissimo videoclip. Caratteristica del brano è il
fraseggio delle spazzole sul rullante, quasi a riprodurre l'avanzare incalzante
di un treno a vapore. E' il momento dei bis. Gli spettatori lontani si alzano di
scatto, come ad un segnale convenuto, corrono verso il palco e cominciano ad agitarsi,
felici di una serata, per loro, indimenticabile.
Anche Norah Jones fa il pienone in Piazza San Marco, tappa
di un tour in sestetto, con il quale sta promuovendo il suo ultimo lavoro, "The
Fall". Labbra rosse, miniabito bianco a pois neri, la 31enne cantautrice indoamericana
– suo padre è il sommo Ravi Shankar, mentre la madre è una cantante di soul – non
sembra muoversi sul terreno del jazz. Le sue canzoni ricordano di più la grande
tradizione americana del Country and Western, del Blue Grass, oppure un certo pop
melodico discendente da quello degli anni '60,
particolarmente affine ai Beatles. Il batterista Joey Waranker, infatti,
un mancino molto sciolto e bravo, tuttavia, con entrambi gli arti, attutisce le
pelli dei tamburi come spesso faceva Ringo Starr ed accompagna frequentemente con
il rullante e il timpano. Il concerto si apre con una melodia dolce, accattivante,
facile da imprimersi nella mente. Una di quelle canzoni da ascoltare al calduccio
davanti al fuoco di un caminetto con l'amato/a accanto. Saranno 22 le canzoni eseguite
– 19 + 3 bis – per una durata che sfiora i 100 minuti. Molto affiatato e professionale
il quintetto di musicisti, tra cui spicca l'inappuntabile Smokey Hormel,
autore di pregevoli assolo alla chitarra elettrica e che nei bis ha utilizzato il
dobro, strumento tipico del Country e del Blues, mentre Sasha Dobson, gradevole
seconda voce, si è cimentata come percussionista di timpano e rullante in "It's
gonna be chasing". La leader ha alternato la chitarra elettrica ad un piano acustico
in stile Saloon, sopra il quale era appoggiato un abat-jour che emanava una luce
soffusa. Al piano ha eseguito anche "Don't know why", uno dei pezzi del disco
d'esordio che, uscito nel 2002 per la
Blue Note,
vendette quasi 20 milioni di copie. Finale affidato al brano che dà il titolo all'album,
"Come away with me": "Vieni via con me. Vieni via con me nella notte,
ed io ti scriverò una canzone".
Piacevolissima, come sempre, del resto, la serata nel giardino
della Collezione Guggenheim, in cui si possono udire i vaporetti e i natanti che
vanno su e giù lungo il Canal Grande. Gran merito, comunque, spetta al chitarrista
e compositore Duck Baker, nato nel 1949 a Washington D.C., vero maestro del
fingerstyle. 14 i brani ascoltati, a cominciare dal primo, in solitudine, che rende
omaggio a Thelonious Monk, "Straight no Chaser". Dal secondo entrano i due
giovani musicisti, attentissimi alle indicazioni del leader. Un compito più di accompagnamento
per il contrabbassista, ricco di assolo, invece, quello del clarinettista, che esibisce
un'ottima tecnica ed un timbro morbido e sognante, soprattutto nei brani lenti.
E' un jazz che si ascolta con piacere, collegato anche agli esordi di questa musica,
tuttavia molto moderno nella concezione. Perfetto il saliscendi delle dinamiche
sonore, la sofisticatezza di certi brani e il non scivolare mai in sdolcinatezze
o affettazioni. Durante la serata, in cui in un discreto italiano Baker spiega,
con molta autoironia, i pezzi autobiografici, riguardanti certe sue avventure amorose,
il chitarrista rende omaggio ad un grande e sfortunato pianista, Herbie Nichols
(1919-1963), che tutti ricordano come l'autore di "Lady sings the blues"
di Billie Holiday, eseguendo "The third world". C'è spazio anche per diversi
blues, ed è proprio con una composizione di questo tipo che si conclude la serata,
in un clima di estrema rilassatezza e intimità, quasi a trovarsi in un confortevole
jazz club a cielo aperto.
Un doppio concerto ha caratterizzato il primo dei due appuntamenti
svoltisi al teatro la Fenice. Ha esordito il giovane virtuoso brasiliano della chitarra
acustica a 7 corde Yamandù Costa, ritornato a Venezia dopo il bellissimo
recital tenuto due anni fa nel giardino della Collezione Guggenheim, in occasione
della prima edizione del festival. Affascinato dalla maestosità artistica del teatro,
in poco meno di un'ora il chitarrista e compositore di Passo Fundo, nello stato
del Rio Grande do Sul, ha eseguito 9 pezzi strumentali arricchendoli, in maniera
significativa, con un nitido fischiettio – è stato il caso di "El negro del blanco",
il brano d'esordio – con uno scat all'unisono con l'esposizione tematica o - in
parte - cantandoli come in "Sararà". Quasi tutti di scrittura originale,
tranne il bis "Breijeiro" di Ernesto Nazarè e "Mafua" di Armando Neves,
un vecchio compositore paulista. Ancora una volta Yamandù ha tenuto il pubblico
con il fiato sospeso, grazie ad una tecnica strepitosa, unita ad un ritmo e a una
precisione che in certi tratti hanno ricordato il compianto Baden Powell. Certo,
il fatto di dover coabitare con un altro artista, ha accorciato il tempo del suo
recital: venti minuti in meno rispetto a due anni fa. Inoltre, quel senso di vicinanza
alla platea, che riesce a stimolare un artista solista, ovviamente è venuto a mancare
nell'immensità del teatro, il che comporta, spesso, una dispersione della concentrazione.
Dopo una breve pausa, ha fatto il suo ingresso sul palco la 25enne
americana Esperanza Spalding. Ha imbracciato un contrabbasso di dimensioni
ridotte e ha iniziato con sorprendente padronanza e swing a suonare lo strumento
e nello stesso tempo a cantare su di un testo o mediante un originale scat. Al suo
fianco, dal secondo pezzo, tre giovani musicisti, che hanno dato vita ad un set
di 90 minuti, pieno di energia, grazie soprattutto al canto di Esperanza, che arrivava
spesso al punto di gridare con tutto il fiato che aveva in gola, provocando sul
pubblico l'effetto di una scarica elettrica. Tra i 7 brani eseguiti, oltre ad un
paio di bis, contrassegnati da un tappeto funky, assai gradito al sorridente batterista
di colore, ci è piaciuto "Ponta de Areia", composta da Milton Nascimento,
gradito ospite del CD "Chamber Music Society", appena uscito.
Francisco Sanchez Gomez, in arte Paco de Lucia,
ha scatenato l'entusiasmo del pubblico, accorso in massa per assistere, senza timore
di essere smentiti, al più intenso e spettacolare concerto del festival. La serata
inizia con un brano in solitudine, durato otto minuti, del grande virtuoso e compositore,
che ha contribuito a svecchiare e rinnovare il flamenco: un termine con il quale
si intende, in senso lato, tutto quanto rientra nella cultura gitana, emarginata
e povera dell'Andalusia, la regione più a sud della Spagna. In particolare, un canto
e un ballo dalle fisionomie ben determinate, nato ufficialmente nella seconda metà
del XIX^secolo. Subito la platea avverte che De Lucia è in stato di grazia, in grado
di impressionare e strabiliare per tecnica, ritmica, e creatività. La mano destra
sembra letteralmente prendere il volo, facendo apparire del tutto semplici acrobazie
virtuosistiche di estrema complessità. Inoltre c'è in lui una fantasia inesauribile,
che lo spinge ad inventare differenti atmosfere sonore, perfino in uno stesso brano,
dilatandone i tempi a dismisura, al punto che il concerto si sarebbe potuto trasformare
in una maratona flamenca, conclusa soltanto al sopraggiungere di una comprensibile
stanchezza fisica. Assieme al quasi 63enne musicista di Algeciras, interagiva un
gruppo di ottimi solisti, a cominciare dal percussionista Piranha, motore pulsante
attraverso il cajon, strumento di legno a forma di parallelepipedo, sopra il quale
siede l'esecutore, e che faceva quasi da controcanto al "toque" chitarristico.
Vi erano poi due validi "cantaores", il corpulento David De Jacoba,
che si distingueva per una lamentazione calda e profonda, in alternanza col canto
più nervoso e dal timbro un po' roco di Duquende. A dare un tocco di modernità
ci ha pensato Antonio Serrano, tastierista parco, ma soprattutto solista
di armonica cromatica, ed il bassista elettrico a 5 corde Alain Perez, quest'ultimo,
assieme a Piranha, artista da tempo nell'ensemble del leader. Notevole l'apporto
del giovane Antonio Sanchez, alla seconda chitarra, mentre Antonio Farruco,
soprattutto nel penultimo brano "Luzia", una Sigueriya, ossia una forma del
canto flamenco intensamente nostalgica o drammatica, ha eseguito a velocità pazzesche
il proprio repertorio coreografico, basato oltre che sulla gestualità, sul "taconeo",
la potente percussione sulle tavole del palco. Vere e proprie ovazioni sottolineavano
ogni suo intervento in uno spettacolo che si è protratto per quasi due ore e mezza,
compreso l'intervallo tra il primo e il secondo tempo. Ma il pubblico vuole almeno
un bis e viene accontentato con "Entre dos aguas" una rumba zyriab.
L'ultimo concerto di rilievo è in realtà un incontro, un'interazione
tra la musica e la fotografia. Pino Ninfa, fotografo non esclusivamente legato
alla musica, ha portato a Venezia il suo ultimo lavoro, "Omaggio a Hugo Pratt.
Sulle strade dell'avventura", un volume uscito per la Casadei libri. Parte delle
foto sono state esposte anche al Gran Caffè Quadri in Piazza San Marco, uno dei
locali storici dotati di orchestra ad allietare quotidianamente i turisti. Ma lo
spettacolo senz'altro più emozionante è stato quello cui abbiamo assistito nell'atrio
di Palazzo Grassi, sede di esposizioni d'arte, da pochi anni, assieme a Punta della
Dogana, diventato "Fondazione François Pinault". Ninfa ha montato una serie di immagini,
divise in 9 capitoli, gli stessi del volume, per le quali Fresu e Di Bonaventura
hanno scelto l'abbinamento musicale. In poco meno di un'ora una platea ai limiti
della capienza è rimasta rapita dalla musica, già di per sé poetica, quando il flicorno,
liricissimo, e la tromba, con e senza sordina, hanno incontrato la malinconia del
bandoneon. Con l'aggiunta delle foto, è sembrato di viaggiare attraverso le avventure
di Ninfa, influenzate da un legame affettivo con quelle narrate da Pratt nelle tavole
di uno dei suoi personaggi- base, il marinaio Corto Maltese. Il suono del flicorno,
aiutato da loops ed eco, si espandeva per tutto l'atrio, commentando con "Singuldu"
di Fresu la prima storia "Cuba e la Porsche di Hemingway", scoperta all'Avana
da Ninfa nel 2002. Struggente il "Corale" di Di Bonaventura, scelto
per commentare le foto a colori della secentesca Villa Arconti a Bollate, nella
quale un paio d'anni fa Ninfa scoprì una lettera di Rimbaud, tra le carte custodite
da una contessa che vi abitò. Una tristezza infinita, mista ad un senso del sacro
è penetrata nel nostro animo. Affettuoso l'omaggio a
Michel
Petrucciani in un percorso tra Umbria Jazz e il teatro Olimpico di Vicenza,
sulle note di "My One And Only Love". Azzeccata un'improvvisazione per descrivere
le carovane del sale che viaggiano nel deserto della Dancalia Etiope e il colore
rosso del fuoco che divampa nel vulcano di Erta Ale. Hanno saputo catturare l'eleganza
del movimento e la gioia nei volti dei ballerini le foto sul tango, scattate tra
Buenos Aires, Parigi e Milano, in un bianco e nero ora limpido, ora sgranato e commentate
dall'omonimo brano di Di Bonaventura. Sorprendenti, le architetture ed i volti de
"le chiese reperti d'Etiopia": ci fanno rimanere a bocca aperta e ci stimolano
ad una visita mentre scorrono le note di "E va la murga", composta da un
cantante pop uruguayano di grande successo, J.Rossy. Ci trasferiamo in America,
da Clarksdale a Memphis, attraversando in battello il Mississippi, per scoprire
la terra e gli eroi del Blues, mentre Fresu e Di Bonaventura intonano "I fall
in love too easily". E siamo al capitolo più commovente, commentato da "You
Don't Know What Love Is": le foto scattate nel 1994 nello studio di Hugo Pratt
a Grandvoux, in Svizzera. Un'emozione unica, non solo per Ninfa, ma per tutti gli
amanti del tratto artistico e narrativo del celebre disegnatore. Le foto finiscono
con il capitolo dedicato a Venezia, dove Ninfa ha tenuto per due anni un Workshop
di fotografia, "Venezia e il Jazz. Una storia da raccontare", alloggiando
nell'isola di San Servolo, ritrasformata dopo la chiusura del manicomio maschile.
Una Venezia non da cartolina, spesso notturna, poetica e priva di quella paccottiglia
kitsch che la sta deturpando e lentamente affossando. Il pubblico si spella le mani
e vuole ascoltare ancora. E allora, semplicemente, sulla frase "L'avventura continua",
con cui Ninfa aveva concluso l'introduzione al suo libro, i musicisti eseguono altri
due brani. Nel primo, "Fellini" di Fresu, il trombettista si sposta lungo
la platea per ideare nuove sonorità e termina il brano con una nota tenuta assai
a lungo, grazie alla capacità tecnica di servirsi della respirazione circolare.
Nel secondo "Blue Mailand" di Di Bonaventura, il bandoneonista cita Tommaso
Albinoni (1671-1750), compositore e violinista veneziano, per rendere omaggio ad
una città che, quando si chiamava Repubblica Serenissima, diede i natali od ospitò
musicisti di levatura mondiale.