Per capire un po' della storia di questo disco affascinante, il lettore di
questo sito può, con pochi click, andare a leggere (o rileggere) la bella intervista
che
Gianluigi Trovesi rilasciò nel 2005
ad Alceste Ayroldi. Lì troverà lo spirito, l'arguzia, la vasta cultura musicale
che hanno ispirato questo lavoro. E capirà anche la fatica e la passione che ci
sono dietro a questa opera che vede impegnate un numero inusitato di persone: la
banda – orchestra Mousikè (55 elementi, molti dei quali dilettanti) diretta
da Savino Acquaviva, un trio composto, oltre che dallo stesso
Trovesi,
da Marco Remondini e Stefano Bertoli. Un piccolo esercito di trascrittori,
di persone che hanno spulciato e messo a confronto con pazienza decine di vecchi
spartiti per banda.
Per "sfortuna"del recensore, il booklet contiene
una pregevole ed esauriente analisi dell'opera, svolta con competenza, acume ed
alta qualità letteraria da Renato Magni. Come se non bastasse il disco non
rappresenta nemmeno una svolta particolare nella lunga carriera del polistrumentista
bergamasco: in qualche modo, anzi, è un vero e proprio riassunto della sua opera,
una specie di autobiografia musicale, che va dal saltarello a Stravinskij,
da Eric Dolphy alla musica da ballo, passando per Monk, Coltrane,
Ornette, ma anche Paul Desmond e Lee Konitz, come nota giustamente
Magni.
Abbandonato quindi il proposito di dire qualcosa di particolarmente illuminante
ed originale, non resta altro che prendere atto che "Trovesi
all'opera" è un disco molto bello. Appassionante, ricco, toccante. Ad
emozionare non è solo la capacità di
Trovesi
di mischiare con nonchalance divertita i linguaggi musicali, non è la bellezza del
suono delle sue ance, non è la magnificenza del corpo bandistico. E' che qui il
vecchio istrione si commuove. Prende, ad esempio, l'aria di Figaro da Rossini e
la fa massacrare dal violoncello elettrificato, ma in realtà si capisce che lui
quella musica la ama alla follia, perché la sente come voce della sua terra, della
sua gente. "Se appena appena gratti la superficie di quella parte d'Italia dove
sono nato io – ha detto
Trovesi
a Parma alla presentazione ufficiale del progetto – trovi giacimenti di musica:
da Monteverdi ai balli popolari …" Si capisce allora come il violoncello distorto
che fa il verso a Figaro, è solo lo scherzo di un giovane irriverente che si diverte
a fare arrabbiare il nonno melomane e che in realtà in
Trovesi
i due personaggi convivono. L'uomo di Nembro è d'altronde maestro di queste piccole
gag. Anche Ellington prese in giro, a suo tempo, in una affettuosa e dissacrante
versione di "Mood indigo"; non dimentica mai che in altre lingue suono e gioco hanno
lo stesso significato.
Il disco ridà voce a quei tanti oscuri musicisti che suonavano ai funerali,
nelle feste religiose, ai balli di piazza, nelle balere. Che facevano conoscere
nei piccoli villaggi la grande musica degli operisti italiani, quando ancora non
c'erano radio né dischi. L' opera era, grazie a loro, la pop music di quei tempi.
Il suono della banda rende la tristezza di quei funerali, la lucentezza di assolate
domeniche primaverili, dei colori dei balli. Altri jazzmen (Lena, Minafra) si erano
interessati alle bande, con progetti originali ed interessanti. Qui però il suono
è diverso, sinfonico, impreziosito com'è da oboi, fagotti e dal violoncello proteiforme
di Remondini.. Ed è diverso il contesto poetico. Le voci del solista attraversano
quel denso tessuto sonoro e raccontano di quanto il grande improvvisatore abbia
amato quella musica e di quanto l'abbia tradita con il jazz. Tradizione e tradimento,
gioco e commozione, scrittura e improvvisazione ma, soprattutto, tanto, tantissimo
canto.
C'è il meglio di
Trovesi
in questo lavoro.
Marco Buttafuoco per Jazzitalia
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Data pubblicazione: 12/01/2009
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